Tutto chiede salvezza



Daniele Mencarelli
Mondadori Editore,2021
Pagine 204

Un TSO dura una settimana, 7 giorni di privazione della propria libertà, in cui per il mondo non hai più nessun diritto.
Sette giorni in cui la tua identità non ha più alcun valore.
Sette come i capitoli che Daniele ha scritto in questo romanzo autobiografico, di quando aveva soli 20 anni.
Ogni giorno del suo TSO, narrato in un capitolo.
Quando mi è stato chiesto di leggere questo libro mi è stato fatto inconsapevolmente un dono.
Ho iniziato a leggere con avidità, ma già dalle prime righe mi sono dovuta imporre di non andare troppo veloce perché quando un libro, meglio una narrazione ti entra dentro, vuoi gustartela come si assapora un buon cognac invecchiato.
Sono infermiera e lavoro al dipartimento di salute mentale di Bologna, mi occupo di progettare corsi di formazione per gli operatori sanitari, sto investendo molto sulla progettazione di eventi formativi per i neo assunti e i neo inseriti che vengono a qualsiasi titolo a lavorare in uno dei più complessi ambiti di cura, dove un professionista della salute può dedicare a pieno titolo quella parte relazionale che in altri ambiti più tecnici e organizzativi si viene a perdere.
Da lettrice, ma soprattutto da addetta ai lavori, ho colto dalle prime pagine di questo romanzo tutto quello che si dovrebbe e che si potrebbe cambiare in certi contesti di cura.
Daniele ha saputo descrivere le paure che lo hanno colto al risveglio dalla sua “botta” farmacologica trovandosi all’improvviso in una stanza di ospedale che aveva le caratteristiche di un carcere.
Magistralmente racconta le fobie, le alienazioni, le fragilità dei suoi compagni di camera.
Ma non si ferma qui, con grande dovizia di particolari e grazie anche alla scelta linguistica di usare qua e la il suo dialetto romano, descrive gli infermieri, i medici, dando ad ognuno un compito rappresentativo.
Pino, l’infermiere ormai incallito in quel ruolo di carceriere, ma che tutto sommato ha capito tanto nei suoi anni di lavoro e sa alla fine come trattare i suoi pazienti, a volte duro a volte malleabile; Lorenzo il collega più giovane che invece ha un terrore folle di entrare in relazione con la malattia psichiatrica e perciò allontana i malati; Rossana l’infermiera che fa il turno solo di notte per guadagnare di più perché a casa ha un marito invalido, che dimostra compassione e decide in autonomia di dare a Daniele una sera un farmaco per aiutarlo a dormire. Alessia che compare solo la penultima sera perché cerca di fare sempre i turni festivi e fa una vera e propria pazzia: cede alla richiesta di Daniele e ordina pizze per tutta la camerata, d’altra parte è la serata Italia -Irlanda del ’94 e lei è pure al 5°mese ma va a lavorare perché ha bisogno di più soldi ma nessuno lo deve sapere sennò la sospendono dal lavoro.
I medici, come nella vita reale, non li chiama per nome come gli infermieri, ma li chiama e li interroga per cognome.
Cimaroli, così come Mancino, subiscono dei cambiamenti di prospettiva man mano che la narrazione volge all’epilogo; inizialmente Daniele vede in Cimaroli la speranza di essere visto non più come lo hanno visto fino ad ora gli altri medici, solo come una diagnosi da fare o delle medicine da prescrivere. Ma proprio al termine dei 7 giorni si accorgerà di essere per Cimaroli uno dei tanti pazienti; questo ovviamente procura in lui ulteriore rassegnazione.
Mentre proprio Mancino, che da subito non aveva avuto con lui nessuna interazione, durante un momento finale drammatico, darà prova di essere forse meno empatico di Cimaroli, ma risoluto ed efficace nel proteggere i pazienti.
Il cuore del romanzo sono loro, i compagni di stanza di Daniele; Gianluca, Mario, Giorgio, Alessandro e Madonnina, ognuno di loro con le proprie pazzie, darà a Daniele un pezzo così intimo di sé, tanto da far sentire a Daniele il calore della vera amicizia.
In questo ricovero anche se lontana, la famiglia di Daniele è sempre presente, e porta in scena la vergogna, lo sgomento ma anche l’amore di voler esserci anche se costa fatica capire cosa sta succedendo nella testa di tuo figlio, di tuo fratello.
L’ospedale viene descritto come erano in quegli anni gli ospedali psichiatrici, un corridoio che separa uomini e donne e durante una passeggiata, Daniele ritroverà Valentina, una amica che aveva conosciuto al liceo tanti anni prima e capirà come certe azioni fatte in compagnia per scherzo possano rovinare per sempre delle anime, delle vite.
Al termine del romanzo, che coincide con la fine del suo TSO, Daniele uscirà da quell’ospedale con nuovi interrogativi sul suo futuro ma con la consapevolezza che l’essere umano è fragile e che si può spezzare in qualsiasi momento.
Da infermiera, vorrei, mi piacerebbe, leggere nei prossimi romanzi una descrizione di un professionista della salute diversa, più empatica, più protratta all’ascolto riflessivo, dove un prossimo Daniele possa riconoscere e ritrovarsi dentro a quella relazione, quel momento di cura di cui abbiamo bisogno entrambi, curante e curato.
Fino ad allora, dobbiamo necessariamente trovare più spazio per formare il nostro futuro professionale, perché il disagio mentale è una voragine che spaventa anche noi curanti, se non abbiamo quegli strumenti che ci permettono di avvicinarci senza stigmi e stereotipi a chi sta vivendo un momento di blackout mentale.

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