Tevere


TevereScrivere della vita vera non è facile. Luciana Capretti in “Tevere” è riuscita a farlo in modo tale da includere il lettore in questa vita vera, in questo dramma che segna la vita non solo di Clara – la protagonista – ma anche quella di tutte le persone a lei care, a loro volta al centro di una storia reale, identificata e connotata da un periodo storico della nostra Italia ben preciso che viene descritto negli atti quotidiani della gente comune.
Il lettore non può non essere tirato dentro nel rincorrersi degli eventi come solo durante la lettura di un giallo può accadere. E “Tevere” è anche un giallo. Giallo come il colore-titolo dei capitoli che seguono il filo di ciò che accade a partire dalla sera in cui Clara scompare, i documenti intatti – nonostante la pioggia fitta – sulla riva del Tevere, di lei nessuna traccia. Seguono le indagini che nello scrupolo attento, quasi amico, del commissario che si occupa del “caso” scoprono un passato di Clara sconosciuto allo stesso marito di lei.
È un passato crudo, duro, violento nella carne così come nel cuore e nell’anima, un passato che viene ripreso nei capitoli neri. Buie giornate di una guerra in cui l’ingenuità dell’adolescenza non viene perdonata e la vendetta sarà indicibile. Sprazzi di luce nel bianco dei capitoli che prendono questo nome. La nuova vita – da sopravvissuta ma con la morte dentro – in un’altra città, un amore che diventerà un marito incapace di confrontarsi con una malattia che toglie il respiro anche a chi non ce l’ha, finalmente la gioia di avere due figli, ma “Questa determinazione ad annullarsi che neppure l’amore dei suoi figli riesce a vincere…” (pagina 180).
Il bianco, la luce, risentire la vita di dentro durano poco. Il buio ritorna e invade tutto nel momento in cui la nascita della prima figlia scuote l’assetto ormonale e la stabilità mentale, nel progetto di una vita creata che sta iniziando, si insinua il dolore dell’esistenza vissuta ed inizia la tragedia.
La depressione – quella vera, nuda, impietosa – è subdola. Si infila lentamente ma senza tregua nella trama della vita quotidiana, nel sentire l’affetto verso le persone amate che si va pian piano appiattendo e che non basta più a tenere a galla la voglia di vivere. Il corpo non risponde più nelle azioni a una mente che non sa più che direzione prendere, spaventata da ogni via percorribile: “Ma c’erano giorni in cui telefonare era difficilissimo, giorni in cui non riusciva a sollevare la cornetta…” (pagina 12). Il corpo, la carne diventano il primo terreno in cui la distruzione prende inizio “Lei non sentì nulla, l’ottundimento era divenuto un rimbombo profondo che le saliva nel petto, un fragore che le batteva nelle tempie…” (pagina 19).
Non serve la vicinanza dei cari, marito, figli, amici. Non solo non porta sollievo a Clara ed alla sua malattia ma a lungo termine le persone più intime – se non adeguatamente attrezzate e supportate – giungono al distacco, all’allontanamento difensivo: “Sono stato vittima delle sue scenate, la sua depressione, quel buio, quel silenzio costante in casa, una condanna” (pagina 125), dice suo marito, ormai compagno di un’altra donna ma che continua a vivere in quella casa dove Clara passa il tempo nella sua stanza, le sigarette sul comodino, libri mai letti tutt’intorno, flaconi di farmaci per annullare la sofferenza e cercare in qualche occasione di farla finita. La depressione è subdola perché è anche cattiva, perché chi ne soffre la utilizza – in qualche occasione – per ottenere un ritorno, perché porta ad oscillare tra la sofferenza derivante dalla consapevolezza del dolore che in qualche modo si causa anche agli altri – “La mia bambina, quanto male le faccio, pensò, e le lacrime cominciarono a scorrere sul viso bianco” (pagina 164) – all’usare il proprio stato “Piuttosto ti devo chiedere una cosa… una promessa… Ti prego, ho poche forze, non mi interrompere” (pagina 165), rivolgendosi alla stessa figlia che Clara è consapevole di ferire, di segnare a vita, per chiederle di non fare entrare in casa l’amante del marito una volta che Clara non ci sarà più.
E nella storia di questa vita si rivela inutile qualsiasi intervento dei professionisti a curarla, questa depressione. Nella lettura del romanzo sorprende quasi che il medico che più si dimostra empatico, compassionevole nei confronti di questa donna, sia la psichiatra alla quale si rivolge il commissario nel corso delle sue indagini oramai divenute quasi private, non portando quelle ufficiali ad alcun riscontro. Come non sorprende che le persone di cui si percepisce maggiore l’interesse nei confronti della sofferenza della protagonista siano proprio quelle che entrano nella sua vita nel momento in cui Clara è già via, lontana anche se non si sa dove, comunque fuori dalla scena. Il commissario, la psichiatra, la turista straniera che ci da un’ottima lezione di empatia nella descrizione della sua deposizione “… si fermò a guardare il commissario, il sorriso spento, sembrava attraversata dalla pena dell’altra…” (pagina 126). Un’empatia che non ritroviamo nei professionisti della salute deputati al trattamento di Clara. Nella casa di cura infermieri e medici distaccati, quasi scostanti.
Si è a lungo dibattuto nella storia dei sanitari che operano in ambito psichiatrico, su quali siano i giusti limiti del coinvolgimento affettivo del personale nei confronti dei propri pazienti. Non solo a tutela dei professionisti ma soprattutto a tutela dei pazienti stessi. L’assistenza infermieristica nell’ambito del disagio mentale non può non ricorrere ad insegnamenti della disciplina psicologica dato l’obiettivo del proprio lavoro: l’altra persona intesa non solo come corpo di cui prendersi cura, come in altri ambiti assistenziali, ma come mente non da riparare ma da comprendere e da aiutare nei suoi processi di elaborazione e ricostruzione degli eventi, anche di eventi tragici che hanno segnato una vita e che non si curano durante un periodo di ricovero come se si trattasse di un intervento chirurgico. I pazienti psichiatrici, proprio per questo, sono pazienti cronici. Al di là e senza entrare nel discorso dell’eziopatogenesi: familiarità, genetica, traumi infantili su cui i pareri e i vertici di osservazione sono diversi e non sempre concordanti, anche se la multifattorialità sembra una delle determinanti più accettate.
Gli infermieri esperti in questo ambito parlano di assistenza infermieristica nei termini di “maternage”, di “contenimento” che prima di essere fisico (così brutalmente sottolineato nel testo) è relazionale, affettivo, quando affettivo non significa affettuoso. In un’epoca, quella attuale, in cui fortunatamente l’elettroshock non è la terapia di prima scelta, l’intervento farmacologico non può non essere affiancato, per garantire un minimo di efficacia, da una presa in carico infermieristica che prevede una preparazione specifica in questo ambito. Una preparazione che spieghi in che modo si struttura nel corso della crescita la personalità di ognuno, in che modo la struttura della personalità porti di conseguenza a vivere lo stato affettivo, ovvero i vari umori derivanti dal vissuto emotivo intimo e dalla capacità di comprensione e di coping nei confronti dello stesso. In che modo una figura di riferimento professionale e preparata possa fungere da catalizzatore, ingrediente fondamentale di metabolizzazione, di esperienze di vita che portano ad affrontare la vita successiva con un certo stile piuttosto che con un altro. Assistenza in ambito psichiatrico è anche assistenza educativa: per riprendere la storia di Clara, impossibilitata dalla malattia a fare una telefonata, significa lavorare sulle paure e timori che impediscono di prendere in mano una cornetta del telefono, significa lavorare e ri-elaborare sui pensieri non adeguati o disfunzionali che stanno dietro a quelle paure.
Da qui la complessità dell’operare infermieristico nell’area del disagio mentale. Complessità che un professionista può affrontare solo quando – oltre alle conoscenze teoriche specifiche – vi siano delle caratteristiche personali che diventano conditio sine qua non per un intervenire efficace senza riportare troppi danni su di sé. Maturità ed equilibrio affettivo impediscono di ricercare e ricreare nel rapporto – spesso individuale e privilegiato – con un paziente quelle gratificazioni di cui si può essere carenti nella propria vita personale. Solo quando l’equipaggiamento è completo la depressione – come altre malattie mentali – si può comprendere e non fa più paura.

Cristiana Rossin
Coordinatrice infermieristica del Servizio psichiatrico Diagnosi e Cura
Ospedale degli Infermi di Biella

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