Ictus cerebrale: studio qualitativo su esperienze e bisogni dei caregivers informali


RIASSUNTO
Introduzione Nel nostro paese l’ictus cerebrale rappresenta una delle principali cause di invalidità. Circa l’80% dei sopravvissuti ritorna a casa e più di un terzo di questi, a un anno dalla dimissione, è dipendente da uno o più caregivers informali. Con questo studio qualitativo ci siamo proposti di investigare le esperienze vissute dai familiari di pazienti colpiti da ictus e ricoverati presso un centro di riabilitazione, sia durante la degenza sia dopo il rientro a domicilio, al fine di identificare i loro bisogni più importanti e aspetti dell’assistenza che potrebbero essere meglio presidiati da parte degli operatori sanitari.
Materiali e metodi L’indagine è stata condotta, mediante interviste narrative, su un campione di caregivers formato da due gruppi di familiari: di pazienti in prossimità della dimissione e di pazienti dimessi da non più di sei mesi da un centro riabilitativo torinese di II livello.
Risultati Dall’analisi delle testimonianze raccolte sono emerse sette categorie tematiche che descrivono le esperienze dei familiari intervistati a partire dall’insorgenza della malattia. Bisogni impliciti ed espliciti dei caregivers sono aspetti trasversali a tutte le categorie; tra le criticità individuate risultano particolarmente rilevanti la comunicazione con il personale sanitario e la preparazione in vista della dimissione a domicilio del malato.
Conclusioni I risultati ottenuti indicano una serie di interventi che possono essere attuati per migliorare la presa in carico dei caregivers; tra questi, il monitoraggio dei bisogni specifici, la valutazione delle risorse individuali e sociali, la preparazione all’assunzione del ruolo tramite interventi educativi e supporto psicologico durante l’iter ospedaliero e l’organizzazione di un follow-up che garantisca la continuità assistenziale.
Parole chiave: ictus, disabilità, caregivers, familiari dei pazienti


Stroke survivors: a qualitative study on experiences and needs of informal caregivers

ABSTRACT
Introduction In Italy stroke is one of the major causes of disability. About 80% of survivors are discharged home, and one year after discharge more than one third of them require the assistance of one or more informal caregivers. The purpose of this qualitative study was to examine the experiences of family carers of stroke patients, both during hospitalization and after discharge, in order to identify their most important needs and key aspects of care which could be better managed by health professionals.
Materials and methods The survey was conducted, using narrative interviews, on a sample composed by two groups of caregivers: family members of patients close to be discharged and family members of patients discharged home less than six months before from a stroke rehabilitation center in Turin.
Results The analysis of the interviews led to the identification of seven main themes which highlight the difficulties experienced by the caregivers and their implicit and explicit needs. Two major problems that emerged from these themes were poor communication with medical staff and lack of preparation for the caregiving role at home.
Conclusions The results obtained indicate a number of issues that should be considered by health care professionals in order to improve the assistance provided to family caregivers of stroke survivors; they include monitoring of specific needs, assessment of individual and social resources, training for the new caring role with educational interventions, emotional support during hospitalization and follow-up plans that ensure continuity of care.
Key words: stroke survivors, disability, caregivers, family carers


 

INTRODUZIONE
In Italia l’ictus cerebrale è la prima causa di disabilità nella popolazione adulta e anziana. Si stima che ogni anno si verifichino più di 195.000 nuovi casi; in base a dati sulla popolazione del 2001, il numero di soggetti che hanno avuto un ictus e sono sopravvissuti con esiti più o meno invalidanti è pari a circa 913.000. A un anno dall’evento acuto, oltre un terzo dei sopravvissuti presenta ancora un grado disabilità elevato, con una limitazione nelle attività della vita quotidiana che li rende totalmente dipendenti (SPREAD, 2007).
Al termine della degenza ospedaliera i pazienti colpiti da ictus rientrano per la maggior parte a casa, dove ad assumere l’onere dell’assistenza e il ruolo di caregiver sono prevalentemente i loro familiari. L’impatto del carico assistenziale su questi caregivers informali è dirompente. Dopo l’insorgenza della malattia e il ricovero durante la fase acuta, che provocano chiaramente alti livelli di stress, la dimissione a domicilio è uno dei punti più critici del loro percorso (Cook et al., 2006; Grant et al., 2004; Greenwood et al., 2009a, b; Kerr, Smith, 2001; McKevitt et al., 2004; Pringle et al., 2008; Smith et al., 2004).
L’osservazione del personale di reparto rappresenta la principale fonte di addestramento per i caregivers. I più giovani spesso danno inoltre inizio a un processo di autoformazione sulla malattia avvalendosi di persone reduci da esperienze simili, internet, libri o riviste, mentre i più anziani tendono a delegare la gestione delle informazioni ai figli (Brereton, Nolan, 2000, 2002; Smith et al., 2008b). La nuova condizione comporta in genere un cambiamento radicale rispetto a stile di vita e dinamiche familiari, a cui le persone anziane si possono adattare più facilmente perché vedono l’instaurarsi di condizioni di dipendenza come naturale decorso della senilità (Cook et al., 2006; Grant et al., 2004; Ostwald et al., 2009; Smith et al., 2004).
L’impegno richiesto dall’attività di caregiving a domicilio è comunque ingente, implicando in molti casi anche l’assunzione di ruoli che prima appartenevano alla persona malata. Prendersi cura del malato può costituire una fonte di soddisfazione e gratificazione, ma fattori come la preoccupazione per la sua salute, il carico dell’assistenza, l’incertezza rispetto al futuro o alle proprie capacità e competenze, la gestione della casa e l’isolamento sociale hanno come conseguenze comuni la mancanza di tempo libero e un marcato peggioramento della qualità della vita; possono inoltre provocare ansia, depressione, disturbi del sonno, irritabilità, con un deterioramento generale del benessere psicofisico del caregiver che può a sua volta ripercuotersi negativamente sulle condizioni dell’assistito (Coombs, 2007; Draper, Broklehurst, 2007; Franzèn-Dahlin et al., 2007; Green, King, 2009; Greenwood et al., 2009b; Han, Haley, 1999). In genere si instaurano gradualmente meccanismi di adattamento, con la consapevolezza di dovere accettare il supporto di altri membri della famiglia e di dovere combattere l’isolamento sociale (Bakas et al., 2004; Mackenzie et al., 2007; Pierce et al., 2009; Wiles et al., 1998). La presenza di problemi fisici, una scarsa conoscenza dell’ictus e l’associazione di giovane età e sesso femminile sono predittori negativi della salute psichica dei caregivers, mentre una percezione positiva della propria salute ed età avanzata sono predittori positivi (Franzèn-Dahlin et al., 2007; Larson et al., 2008). Il deterioramento del funzionamento psicosociale del caregiver dal primo al terzo anno dopo la dimissione a domicilio è correlato al peggioramento delle condizioni del paziente, alla presenza di deficit cognitivi e alla presenza di figli in giovane età (Steiner et al., 2008; Suh et al., 2005; Visser-Meily et al., 2005).
Dallo scenario delineato appare evidente la necessità di considerare con grande attenzione, nel quadro generale dell’assistenza fornita ai pazienti colpiti da ictus, il ruolo svolto dai familiari e l’evoluzione dei loro bisogni (Han, Haley, 1999; McKevitt et al., 2004). In Italia gli studi sinora pubblicati sull’argomento sono scarsi. Con questa indagine, condotta nel contesto di uno dei principali centri riabilitativi di II livello di Torino, ci siamo quindi proposti di investigare le esperienze vissute dai familiari che assumono le funzioni di caregivers, allo scopo di descrivere le loro principali difficoltà ed esigenze e di identificare aspetti dell’assistenza che potrebbero essere gestiti in maniera più efficace dagli operatori sanitari.

MATERIALI E METODI
Lo studio, con disegno qualitativo, è stato condotto su un campione propositivo formato da due gruppi di caregivers: di pazienti in prossimità della dimissione a domicilio (gruppo 1) e di pazienti dimessi a domicilio da non più di sei mesi (gruppo 2) da un centro riabilitativo torinese di II livello specializzato in recupero e rieducazione funzionale.
I pazienti sono stati reclutati in base alla diagnosi di ictus definita dalle linee guida SPREAD (2007), adottando i criteri di inclusione riportati nella Tabella 1.

Per ogni paziente è stata quindi individuata la persona che, dal momento dell’insorgenza della malattia, se ne era maggiormente occupata durante il ricovero e prevedeva di farlo anche dopo la dimissione (gruppo 1) o che si era prevalentemente assunta il carico dell’assistenza dopo il rientro a domicilio (gruppo 2).
Le testimonianze di questi caregivers informali sono state raccolte utilizzando un’intervista narrativa (Atkinson, 2002) che comportava una domanda di apertura, diversa per ciascuno dei due gruppi (Tabella 2), e una serie di domande-stimolo mirate a rendere più facile e completo il racconto delle esperienze vissute (Tabella 3). Durante i colloqui non sono state poste restrizioni alla partecipazione dei pazienti.

Le interviste, audioregistrate e trascritte, sono state esaminate secondo il metodo di Giorgi (1985) assumendo come unità di analisi le frasi degli intervistati. Il metodo prevede, esercitando il bracketing durante tutte le fasi: lettura e rilettura delle trascrizioni, riascolto delle registrazioni per verificare la correttezza delle trascrizioni, orizzontalizzazione, creazione di una lista di unità descrittive successivamente revisionata per eliminare ripetizioni e ridondanze, raccolta delle unità descrittive in categorie tematiche, revisione delle categorie tematiche e relazione di ognuna con la totalità delle stesse per acquisire una panoramica generale del fenomeno in studio.
I caregivers sono stati reclutati fino al raggiungimento della saturazione dei dati, ottenuta con 11 interviste per il gruppo 1 e 10 interviste per il gruppo 2; le caratteristiche essenziali degli intervistati sono riassunte nella Tabella 4.

I contenuti emersi sono stati sottoposti all’attenzione dei partecipanti, che ne hanno confermato la congruenza con il proprio vissuto. La partecipazione all’indagine è stata di carattere volontario, con richiesta di un consenso informato scritto; i dati raccolti sono stati trattati in maniera anonima.

RISULTATI
L’analisi dei dati ha portato all’identificazione di sette categorie tematiche, elencate nella Tabella 5 con le unità descrittive più rilevanti, che forniscono una sintesi delle complesse esperienze vissute dai familiari intervistati.

I temi individuati sono emersi dai racconti di tutti i partecipanti, anche se con importanza relativa variabile, e vengono qui esposti insieme a citazioni significative tratte dalle trascrizioni delle interviste. Le citazioni sono accompagnate da riferimenti che specificano età e gruppo di appartenenza del caregiver (1 o 2) e la sua relazione di parentela con il paziente; viene inoltre indicato, come misura del grado di disabilità del paziente, il punteggio dell’indice di Barthel (BI) al momento dell’intervista. L’indice valuta, su una scala da 0 (totalmente dipendente) a 100 (totalmente indipendente), l’autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane (Mahoney, Barthel, 1965); punteggi alti non escludono la presenza di deficit cognitivi che rendono comunque necessaria l’assistenza dei caregivers.

L’ictus e la sua insorgenza
In generale le testimonianze raccolte sottolineano come l’insorgenza repentina della malattia rappresenti un evento traumatico, con un forte impatto iniziale e senza il tempo necessario per adattarsi alla nuova condizione.
“È stato traumatico perché una persona che stava benissimo fino alla sera prima… Il giorno dopo non c’è più… Non è più lui. All’inizio ho pensato al peggio e mi sono augurata che non accadesse; adesso non so dire se ho fatto bene… Perché è la qualità di vita la cosa più importante e non so lui che qualità di vita abbia…” (gruppo 1, figlia, 51 anni; BI = 15).
“Ti senti cadere addosso un masso…” (gruppo 1, compagna, 48 anni; BI = 100).
Emerge inoltre la confusione e l’ignoranza sia rispetto ai fattori di rischio sia per quanto riguarda segni e sintomi, che talvolta si sono manifestati senza essere propriamente riconosciuti.
“Per me è stato uno shock incredibile vedere mia moglie in quello stato lì… Non avrei mai pensato che l’ipertensione potesse causare una emorragia cerebrale così estesa e fare di questi danni…” (gruppo 2, marito, 63 anni; BI = 15).
“Quello che abbiamo notato è che si comportava come una persona ubriaca perché pendeva dal lato sinistro… Vedevamo che c’era qualcosa di strano, ma pensavamo che fosse un po’ brillo… Così abbiamo aspettato fino al giorno dopo ad andare in Pronto Soccorso…” (gruppo 1, figlia, 27 anni; BI = 95).

L’esperienza ospedaliera
Durante l’intero percorso ospedaliero i familiari intervistati hanno dovuto fronteggiare peggioramenti e miglioramenti della situazione clinica, interagire con il personale sanitario e prepararsi alla dimissione del malato. Dai loro racconti emergono i bisogni di informazione e di rassicurazione e le preoccupazioni che insorgono con l’avvicinarsi della fine della degenza.
Nella maggior parte dei casi il periodo iniziale corrisponde a quello più denso di eventi stressanti, mentre il passaggio alla degenza riabilitativa viene vissuto positivamente come una fase di rilassamento.
“I primi dieci giorni sono stati bruttissimi perché continuava a fare esami su esami ed è tutto un mistero, non sai bene che cosa succederà… Nessuno ti dice nulla… Li ho vissuti con molta ansia, di sapere che cosa fosse successo e perché, se sarebbe guarito o no, se sarebbe potuto ricapitare, mi sentivo impreparata… Cadi giù da un burrone… Uno scombussolamento unico…” (gruppo 1, figlia, 27 anni; BI = 95).
“La fase brutta è stata all’inizio, poi abbiamo visto che stava meglio e che partecipava alla riabilitazione e quindi anche noi ci siamo sentiti più tranquilli…” (gruppo 1, moglie, 71 anni; BI = 95).
Nel quadro delle difficoltà incontrate nel corso del ricovero ospedaliero assumono un’importanza rilevante la relazione e le modalità di comunicazione con il personale sanitario; appaiono evidenti sia il desiderio di vedere riconosciuto fin dall’inizio il proprio ruolo, sia l’esigenza di ricevere informazioni più chiare e complete. A questo proposito, gli infermieri vengono spesso identificati come tramite fra i familiari del paziente e i medici del reparto.
“Quando ti senti dire ‘guardi che suo marito potrebbe restare attaccato a una macchina’ sono veramente momenti terribili… Poi parli con uno e con l’altro e c’è quello che te le spiattella lì, altri che invece hanno un po’ più di tatto… Anche se dicono la stessa cosa però la prendi in modo diverso…” (gruppo 2, moglie, 52 anni; BI = 80).
“Quando arriva il medico a parlare con il paziente fanno uscire la moglie o il parente, però sono io che poi lo devo guardare alla fine, quindi è con me che deve parlare…” (gruppo 2, moglie, 52 anni; BI = 80).
“Ho parlato un paio di volte con un infermiere e sono rimasto soddisfatto, anche se è stato abbastanza generico e mi ha poi inviato alla dottoressa…” (gruppo 2, fratello, 56 anni; BI = 95).
L’avvicinarsi della dimissione a domicilio alimenta poi incertezze e paure rispetto al futuro, che includono timori riguardo alla propria capacità di prendersi cura del malato; l’insicurezza risulta chiaramente più marcata nelle testimonianze dei familiari di pazienti con maggiore disabilità residua o afasia.
“Ho paura che ricapiti… Ho paura di non riuscire a tenerlo bene, di non capirlo… Io la sera quando torno a casa dopo non averlo capito sto male, non riesco a mangiare nulla e la notte non ci dormo. 
E io devo stare bene perché se non sto bene io dove andiamo a finire?” (gruppo 1, moglie, 75 anni; BI = 15).

Il ritorno a casa
Il ritorno a casa, con il passaggio da un ambiente protetto a un ambiente non protetto, è un momento estremamente delicato, che pone tutta una serie di difficoltà pratiche legate alla mancanza di autonomia del malato e alla necessità di affrontare e risolvere problemi ed emergenze. I caregivers intervistati esplicitano la percezione del peso di questo nuovo ruolo e delle nuove responsabilità.
“Il rientro a domicilio è stato traumatico… Perché ci si sente meno protetti… Poi si stabilisce una routine… Sono io che ho deciso di portarlo a casa, però non è facile anche perché noi siamo ignoranti in materia…” (gruppo 2, moglie, 75 anni; BI =15).
“Un giorno si è otturato il catetere… Lui urlava e si lamentava. Era un weekend… Gli infermieri dell’ADI non c’erano, ho chiamato la Guardia Medica ma mi hanno detto di chiamare il 118. Al 118 mi hanno detto che lo avrebbero portato al Pronto Soccorso, così ho chiamato un’infermiera dell’ospedale di riabilitazione e lei ha risolto il problema. Poi il lunedì ho chiamato l’urologo che è venuto a vederlo a casa, ma non avevo capito che era una visita privata… E ho dovuto pagare…” (gruppo 2, moglie, 75 anni; BI =15).
“Lui pretende in tutto e quello alla fine mi stanca e mi stressa… Certe volte sono proprio sfinita… Devo stargli dietro in tutto; diciamo che il malato è lui, ma la più disagiata sono io…” (gruppo 2, moglie, 68 anni; BI =95).

L’impatto con il cambiamento
Il rientro a casa comporta anche la necessità di confrontarsi con le conseguenze che la malattia determina nell’andamento della vita quotidiana. In molti casi cambiano la personalità o alcuni tratti psicologici del malato, la divisione dei compiti e le relazioni all’interno del nucleo familiare, a volte con aspetti positivi.
“Io quello che ho trovato, il primo impatto di venire a casa, è stata questa diversità di vita… Abbiamo dovuto cambiare alloggio e ti scombussola un po’ tutto… Il fatto di non avere più le tue cose dove eri abituato, cambiare completamente abitudini, cambiare il proprio modo di vita…” (gruppo 2, marito, 63 anni; BI = 15).
“Adesso è diventato sensibilissimo, prima mi prendeva in giro perché a me basta vedere un film o qualcosa un po’ così che mi vengono le lacrime, adesso non mi prende più in giro…” (gruppo 2, moglie, 52 anni; BI = 80).
“Ho perso il mio cuoco… Adesso tocca fare tutto a me. Anche quello vuol dire tanto perchè prima ci dividevamo un po’ i lavori, adesso ti trovi tutto sulle tue spalle e, oltre al normale, devi anche accudire un’altra persona. Ad esempio, mentre lui cucinava io facevo altre cose così poi avevamo un po’ di tempo per stare tranquilli insieme…” (gruppo 2, moglie, 52 anni; BI = 80).
“Da quando lui ha avuto questo ictus è come se fossero cambiati un attimino i rapporti tra di noi… Lui si è trovato una famiglia che non ha mai avuto…” (gruppo 2, fratello, 56 anni; BI = 95).
Riemergono implicitamente i bisogni di informazione e preparazione alle nuove circostanze. In particolare, a enormi difficoltà e grave senso di frustrazione vanno incontro i familiari che devono affrontare i problemi di comunicazione con le persone affette da afasia.
“Non è pesante fargli tutti i lavori quanto mi distrugge il fatto di non capirlo… Lui si arrabbia, io mi arrabbio, ci arrabbiamo entrambi… Quando mi vuole dire una cosa e io ne capisco un’altra… È una cosa insormontabile…” (gruppo 2, moglie, 75 anni; BI =15).

I bisogni espliciti
Tra i bisogni riferiti dagli intervistati ha una posizione preminente l’esigenza di ottenere informazioni, specialmente sulla prognosi e sulla gestione generale della persona colpita da ictus. Rispetto a questo tema è diffusa la percezione di una comunicazione non adeguata con gli operatori sanitari.
“Poi non so se a volte io lo aiuto a dirgli così… Non so lui in questo momento come è all’interno… Se ne risente, se è debole, se invece magari apprezza o se si dà forza… Non riesco a capire, forse sbaglio, dovrei forse parlargli di quello che è successo e chiedergli ‘ma tu hai capito cosa ti è successo?’… Ho paura che poi stia peggio e quindi finora non ho mai affrontato l’argomento e ho cercato di tirarlo su…” (gruppo 1, figlia, 27 anni; BI = 95).
“Poi ti parlano tutti di corsa con queste terminologie mediche… E tu capisci, che ne so, il 10% di quello che ti dicono… Ci ho messo del tempo a capire la differenza fra trombo, ictus, ischemia… Uno mi diceva una cosa, uno me ne diceva un’altra… Usare un’unica parola può invece aiutare a capire…” (gruppo 1, compagna, 48 anni; BI = 100).
“Farebbe piacere qualche parola in più anche da parte dei medici… Perché non è facile… Ti cambia tutta la vita… Quando vai a casa sei tu che devi gestire tutto: la pressione ad esempio. Anche sull’alimentazione mai nessuno mi ha detto nulla…” (gruppo 2, moglie, 52 anni; BI = 80).
Alla necessità di sapere si collega il desiderio di essere maggiormente coinvolti, rassicurati, incoraggiati, aiutati. Alcuni suggeriscono la partecipazione attiva a una preparazione graduale in vista della dimissione del malato ed esprimono il bisogno di condividere le proprie esperienze e difficoltà.
“Avrei voluto più parole di incoraggiamento… So che avrò bisogno di un po’ di spazio anche per me…” (gruppo 1, moglie, 66 anni; BI = 35).
“Magari ogni tanto fare una riunione con le persone che hanno questi problemi, con una persona che spiega e sente i problemi di uno e dell’altro… Per capire se solo la tua persona è così, se è normale o no, per confrontarsi con gli altri che sono nella tua stessa situazione… Perché io sono andata su internet, ma non è mai la stessa cosa, non è come parlare con qualcuno…” (gruppo 2, moglie, 52 anni; BI = 80).

Il ruolo in itinere
Dalle narrazioni degli intervistati traspare un ruolo attivo di sostegno e una profonda empatia nei confronti del malato, sia nel periodo della degenza ospedaliera sia dopo il ritorno a casa, con una divisione dei compiti all’interno dei nuclei familiari più ampi. La spinta verso il massimo recupero possibile rappresenta uno dei compiti principali che i caregivers si assumono.
“Il discorso che gli faccio sempre è questo: ‘non fermarti perché i miglioramenti ci sono e ci possono ancora essere, tu tentaci perché dipende anche dalla tua volontà e dalla tua forza d’animo; e fino a dove tu puoi arrivare non ti preoccupare che ci sono io, perché devi tornare a essere autonomo, devi combattere’…” (gruppo 2, fratello, 56 anni; BI = 95).

Le risorse personali
Le risorse personali a cui si ricorre per affrontare la situazione includono il supporto da parte di altri familiari, il confronto con situazioni simili o peggiori e la forza individuale, talvolta vacillante, che viene utilizzata per superare i momenti di sconforto.
“Sei tu che devi affrontare la cosa, trovare la forza dentro di te per fare coraggio alla persona che è stata colpita da qualsiasi tipo di malattia, devi dare forza; ma a volte questa forza sembra venire meno… Anche tu hai bisogno ogni tanto di qualcuno che ti dia la forza per trasmetterla all’altro…” (gruppo 1, compagna, 48 anni; BI = 100).

DISCUSSIONE
I temi emersi dai racconti dei partecipanti all’indagine riassumono gli aspetti dominanti delle loro esperienze e ne evidenziano i principali bisogni impliciti ed espliciti.
Il manifestarsi improvviso dell’ictus, paragonato a “un masso che ti cade addosso”, sconvolge l’equilibrio del nucleo familiare e genera considerazioni sulla qualità della vita della persona malata e interrogativi rispetto al futuro che difficilmente trovano risposte. Risulta inoltre preoccupante il fatto che segni e sintomi tipici di un ictus o di un TIA (attacco ischemico transitorio) in alcuni casi non siano stati riconosciuti, dato di cui bisognerebbe tenere conto nell’ottica della prevenzione primaria e secondaria (Smith et al., 2004).
Il ricovero ospedaliero rappresenta un evento stressante per i caregivers (Cook et al., 2006; Smith et al., 2004), associato a una sensazione di grande incertezza: si inizia a percepire quali potrebbero essere le conseguenze a lungo termine della malattia, ma ci si confronta con qualcosa che non si conosce. Si ricercano quindi chiarimenti e indicazioni nelle parole dei vari professionisti sanitari, che spesso vengono però percepiti come poco inclini a rispondere alle richieste dei familiari e poco disposti a coinvolgerli durante le visite e le attività assistenziali. In merito all’argomento “informazioni” si riscontra una certa eterogeneità di opinioni, che potrebbe dipendere dalle differenze rispetto alla gravità delle condizioni del paziente e dalla variabilità in termini di contesti di provenienza e aspettative degli intervistati. Il bisogno di migliorare la comunicazione con il personale sanitario emerge comunque in maniera chiara dalla maggior parte delle testimonianze raccolte, che segnalano notizie drastiche date con poco tatto, carenza di incoraggiamenti, scarsa uniformità dei ragguagli forniti dai diversi operatori; molte sottolineano anche le difficoltà derivate dalla terminologia troppo specialistica utilizzata dal personale medico e infermieristico, che può determinare una comprensione parziale di informazioni importanti (Pierce et al., 2009; Wiles et al., 1998). Il ruolo degli infermieri nell’ambito del soddisfacimento dei bisogni informativi dei caregivers appare in modo marginale e, in linea con la letteratura consultata, non sono riportati interventi specifici (Brereton, Nolan, 2000, 2002).
Durante la fase riabilitativa i miglioramenti divengono quotidianamente tangibili (Kerr, Smith, 2001), ma in vista della dimissione la paura di ritrovarsi da soli ad affrontare situazioni complesse è tra le principali fonti di ansia per i caregivers. Ritornare a casa significa rientrare nel proprio ambiente e superare ostacoli di natura pratica, organizzativa ed economica assumendosi nuove responsabilità. Gestire i problemi assistenziali e prevenire le potenziali complicanze della malattia sono fattori di primaria importanza alla luce delle difficoltà incontrate dopo il rientro a domicilio: è quindi essenziale che la pianificazione delle dimissioni tenga conto delle problematiche che si potrebbero presentare per ogni singolo paziente e preveda il coinvolgimento dei caregivers nella conoscenza della nuova condizione di disabilità.
Come indicano anche diversi studi condotti in altri paesi, deficit cognitivi e comportamentali sono conseguenze dell’ictus talvolta poco evidenti agli occhi dei familiari durante l’ospedalizzazione, tanto da venir definiti come “disabilità invisibile”, ma dopo il ritorno a casa possono generare la sensazione di convivere con un estraneo ed errori di gestione (Coombs, 2007; Grant et al., 2004; Kerr, Smith, 2001). Particolarmente devastante, per i caregivers dei pazienti che ne sono affetti, è l’impatto dell’afasia (Bakas et al., 2004; Ski, O’Connel, 2007). La malattia determina cambiamenti sostanziali all’interno delle relazioni familiari che possono avere risvolti positivi, come il rafforzamento di alcuni legami, ma che in generale sono accompagnati da una profonda sensazione di perdita, con la necessità di far fronte alla depressione e al senso di inutilità che la nuova condizione di disabile genera nel malato (Cook et al., 2006; Coombs, 2007; Green, King, 2009; Hunt, Smith, 2004; Smith et al., 2004). Molto dipende da età, supporto da parte di altri membri della famiglia, situazione lavorativa, autonomia nei trasporti e predisposizione a ricoprire il ruolo (Ko et al., 2007); tutti aspetti che dovrebbero concorrere alla valutazione globale del nucleo familiare del paziente.
I bisogni riferiti esplicitamente dai caregivers riguardano principalmente l’esigenza di ricevere informazioni su evoluzione della patologia, questioni di natura pratica inerenti la vita quotidiana, attività di controllo dei parametri vitali, puntualità della terapia, dieta, prevenzione secondaria, atteggiamenti da tenere con il malato. Molti sono espressi dai familiari di pazienti già rientrati a domicilio, mentre quelli del primo gruppo riportano soprattutto il bisogno di incoraggiamento. Ciò significa che chi deve ancora affrontare la dimissione potrebbe non essere pienamente consapevole della necessità di una preparazione adeguata; non significa dunque che un caregiver che non chiede aiuto non ne abbia in realtà bisogno.
I caregivers sentono la necessità di comunicare le proprie difficoltà e di essere ascoltati. In questo senso propongono possibili interventi mirati a migliorare la presa in carico delle persone che si trovano nella loro situazione: incontri con esperti pronti a rispondere alle domande dei familiari dei pazienti e dove ci si possa confrontare “tra pari” per condividere ansie, paure e dubbi, colloqui con psicologi per acquisire strategie di coping, preparazione graduale alla dimissione e organizzazione del follow-up con un maggiore coinvolgimento dei pazienti e dei loro familiari sono tutte iniziative che trovano riscontri positivi in letteratura (Pierce et al., 2004; Smith et al., 2008a; Visser-Meily et al., 2005).
Un altro aspetto importante emerso dall’analisi delle interviste condotte è il ruolo svolto in termini di spinta verso il recupero dell’autonomia; i caregivers devono essere incoraggiati a mantenere un atteggiamento di sostegno che sia congruente con le condizioni cliniche del paziente, senza trasformarsi in accanimento o in completa rassegnazione e sostituzione al malato laddove non vi siano reali possibilità di recupero.

CONCLUSIONI
Il limite principale dello studio è riconducibile al fatto di aver reclutato due diversi gruppi di caregivers, a discapito di un disegno longitudinale (Han, Haley, 1999; McKevitt et al., 2004); tale scelta ha comunque permesso di esplorare sia l’esperienza vissuta durante il ricovero ospedaliero del paziente (gruppi 1 e 2) sia l’esperienza del periodo immediatamente successivo al suo rientro a domicilio (gruppo 2). La presenza del malato durante la conduzione di alcune interviste potrebbe avere inficiato la completezza dei racconti. L’età dei partecipanti, come quella dei pazienti, è molto variabile e può avere influenzato la percezione dell’esperienza nella sua totalità (Smith et al., 2008b); un’altra caratteristica non omogenea è il grado di disabilità residua dei pazienti.
Le interviste esaminate contribuiscono a fornire un quadro più chiaro della situazione dei familiari che si prendono cura di una persona colpita da ictus, utile alla riflessione sugli interventi che possono essere attuati per rispondere ai loro bisogni e per alleviare il peso del ruolo che svolgono. I caregivers informali rappresentano una risorsa preziosa all’interno del tessuto sociale, che dovrebbe essere valorizzata sin dall’inizio del loro complicato percorso. La malattia del paziente è anche quella del suo caregiver, sia per l’aspetto emozionale correlato alla disabilità sia per tutte le mansioni di cui un caregiver si assume progressivamente la responsabilità.
Tra le maggiori criticità emerse vi sono le carenze rispetto alla relazione con il personale sanitario e alla preparazione in vista della dimissione a domicilio del malato; criticità che devono essere superate per garantire che i caregivers possano ricoprire il loro ruolo nel migliore dei modi. Bisognerebbe quindi riconoscere ufficialmente la necessità di prendere in carico anche le esigenze dei familiari dei pazienti, effettuando interventi educativi in itinere e prestando più attenzione ai processi di comunicazione, in termini sia quantitativi sia qualitativi, per evitare di peggiorare ulteriormente una situazione già di per sé traumatizzante a livello emotivo. Sarebbe inoltre necessario assicurare una maggiore continuità tra ospedale e territorio, potenziando i collegamenti tra i diversi servizi, e programmare follow-up per monitorare l’evoluzione dei bisogni dei caregivers e rinforzare quanto da loro appreso durante la degenza ospedaliera del malato.
Il personale infermieristico si trova in una posizione privilegiata per valutare le esigenze dei caregivers; per esplorare quali siano le loro preoccupazioni nella fase che precede la dimissione del paziente, l’impatto con il cambiamento conseguente, il mutamento dei ruoli all’interno della famiglia, le risorse individuali e sociali, le conoscenze in merito alla malattia, le competenze in ambito assistenziale, le capacità di risoluzione dei problemi; per pianificare percorsi personalizzati volti ad accompagnarli nell’assunzione dei nuovi compiti. Dal momento dell’accoglienza gli infermieri dovrebbero individuare le principali persone di riferimento da coinvolgere durante l’iter del ricovero, in particolar modo quello riabilitativo; dovrebbero dedicarsi, ed essere messi nelle condizioni di farlo, alla preparazione progressiva dei familiari in vista del ritorno a casa del paziente e a favorire un confronto “tra pari”. Anche incontri dei familiari con il team multidisciplinare al completo potrebbero essere un valido intervento di sostegno. Per prevenire il burnout dovrebbe inoltre essere offerto con tempestività un supporto psicologico.
Un caregiver preparato e sostenuto emotivamente sarà sicuramente una persona in grado di utilizzare in maniera più efficace i servizi disponibili sul territorio e di prendersi cura in maniera più appropriata del malato. Se il futuro dei sistemi sanitari è il potenziamento della comunità e delle sue risorse, anche chi assiste direttamente i pazienti all’interno del nucleo familiare dovrebbe essere maggiormente considerato e aiutato. Dalle interviste raccolte non sono emerse particolari aspettative rispetto a interventi specifici di presa in carico condotti da infermieri. A maggior ragione, prendere per mano i caregivers e accompagnarli con competenza lungo un percorso di supporto potrebbe rappresentare un nuovo ambito d’azione della professione infermieristica da rimuovere dall’elenco delle numerose azioni invisibili.

 

STAMPA L'ARTICOLO

Bibliografia

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