Il libro di Favaro non è certo quello che apre un nuovo filone della letteratura: proprio sulle storie di persone e famiglie con Alzheimer si sono già spese molte pagine, ma ognuna di queste non appare vana. Sì perché la sensazione, leggendo questo “Il tempo senza ore”, è che in Italia ci sia ancora bisogno di creare eco rispetto alla storia di ogni nucleo colpito da questo dramma più volte narrato, ma ancora non affrontato.
“Il tempo senza ore” percorre appunto la storia dell’insorgere del morbo di Alzheimer in un direttore di coro, Marco, alle soglie dei cinquant’anni. Siamo nell’Italia del nord, in uno dei mille paesaggi di montagna delle Alpi, e Marco arriva all’appuntamento con un altro direttore di coro, fissato per quel giorno:
“Oh salve! Stavo cercando il dottor De Propoli”
“Non credo ci sia oggi”
“Come?”
“E’ il suo giorno di riposo”
“Ma io avevo fissato un appuntamento!” (…)
“Non c’è segnato niente qui. Che giorno è oggi?”
“Il cinque di ottobre. Credo …”
“Ah, ecco, sì. Ma l’appuntamento era per ieri, il quattro”
“Che intende dire?”
“Intendo dire che ha sbagliato giorno, signore”
“Impossibile” pensò. Era sempre stato un orologio svizzero (pag. 9).
Inizia così il suo lento percorso di presa di contatto con questa malattia: l’avvicendarsi dei disguidi si protrae nel tempo, congiungendo il mal di testa, le dimenticanze, i vuoti di memoria. Il lettore viene così a trovarsi a fianco di Marco, nel suo giorno dopo giorno, in questa costellazione di imprevisti di cui non riesce a capacitarsi e che giustifica, come chiunque tende a fare, con lo stress, la vita troppo di corsa, la mancanza di tempo per sé.
“Dica la prima cosa che le viene in mente”
“Non mi viene in mente niente”
“E’ impossibile”
“Mi viene in mente che ho mancato a un appuntamento molto importante, e non riesco a capacitarmene”
“Nient’altro?”
“No. A parte il fatto che ultimamente ho la sensazione che a volte la memoria mi abbandoni. E poi ho questo senso d’intontimento, di confusione … Insomma, tutto sta andando per il meglio, eppure io non mi sento bene” (pag. 20).
Le persone con Alzheimer in Italia sono ad oggi sono 600.000 e se a loro si aggiungono i familiari implicati, si arriva numeri importantissimi. L'attività di cura e sorveglianza è sempre più informale e privata, così come accade nella storia di Marco, dove sarà la moglie, sposata a malattia già diagnosticata, ad assumersi il carico del quotidiano con un uomo che vedrà trasformarsi, tanto da non riconoscerlo più.
Il racconto si avventura a questo punto su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalla cura di sé all’alimentazione, dalla richiesta furiosa di guidare l’auto pur non essendone più in grado, alle scenate di gelosia per una presunta storia tra la moglie e un protagonista del piccolo schermo. Storie di ordinaria disperazione, potremmo dirle, in quanto divenute parte di una vita familiare devastata dalla malattia.
La storia e la vita di Marco si concluderà al termine del volume, con un decesso all’interno della struttura dove la moglie sarà costretta a trasferirlo per l’impossibilità di gestione a casa.
Ma anche dopo l’ultima pagina la storia di Marco resta presente al lettore, che in questo percorso di malattia potrà ritrovare tutti i tratti caratteristici di queste situazioni, tutta la ridda di emozioni che attraversa le famiglie con una persona demente all’interno, una famiglia che per 68 capitoli avete imparato a conoscere e a cui non si può non sentirsi vicini.
Libri come questi possono servire, che si sia laici o addetti ai lavori, a far progredire quel movimento che sta già premendo per l’intervento di tutta la società verso questa straziante malattia.
Laura D’Addio