“La sanità ai tempi del Coronavirus”



Marco Geddes di Filicaia

Il Pensiero Scientifico Editore, 2020
Pagine 260

Il libro di Marco Geddes ha molti pregi che vedremo, ma il primo è che si legge con piacere, sia per la scrittura brillante e mai saccente, sia perché parla della nostra vita in questo drammatico e, insieme, così strano anno trascorso, occupato dalla pandemia. E ne parla come se la guardasse dalla finestra di casa nostra.
Non si tratta di un libro scientifico in senso stretto, eppure parla di scienza, neppure di un libro di cronaca, anche se la cronaca di questi mesi c’entra eccome. E’ piuttosto un disincantato eppure appassionato libro d’amore per la nostra sanità pubblica e universale, che è una conquista di civiltà che non dobbiamo mai dimenticare e che dobbiamo manutenere con cura, come si fa con i ponti delle autostrade. E qui il tragico accostamento con il crollo del Ponte Morandi, dovuto proprio a mancanza di cura e manutenzione, non è casuale e ci fa capire che l’autore è tutt’altro che un illuso.
La nostra sanità come diritto costituzionale alla tutela della salute è quindi al centro del libro. Una sanità che ha incontrato uno tsunami che ne ha anche strappato molti veli, facendo emergere debolezze storiche e impreparazioni, che sono derivate non da un destino cinico e baro, ma da scelte politiche precise.
Ma torniamo al libro che suggerisco veramente di leggere. Il volume è suddiviso in tre parti: “Ieri”, che esamina lo stato della sanità come era prima dell’impatto della pandemia; “oggi” che racconta i primi 100 giorni dal primo caso rilevato in Italia (era il 30 gennaio del 2020; ricordate i coniugi cinesi a Roma?) sino alla cosiddetta fase due (maggio 2020); “domani”, dove, brevemente, si cerca di mettere a frutto le lezioni apprese per lavorare insieme ad una sanità migliore, più resiliente e pronta, meno frammentata e incerta.
Parlando dello stato del nostro Servizio Sanitario Nazionale, Geddes non risparmia critiche anche severe. La nostra sanità, nella autolesionista smania di risparmio della fine della prima decade di questo secolo, ha subito tagli lineari tanto profondi quanto ingiustificati, guardando anche alla spesa sanitaria degli altri Paesi europei. Il risultato più evidente è stata la crisi del personale qualificato: mancano medici, mancano infermieri, mancano professionisti sanitari. Essendo stata anche l’Università colpita dallo stesso fenomeno, si è creata una strozzatura che ha impedito, con la miopia dei numeri chiusi slegati dai fabbisogni, di formare i professionisti che oggi ci servirebbero.
Una nota che ho trovato particolarmente interessante è quella che l’autore dedica alla mancanza di una politica lungimirante che sapesse sopperire alla necessaria e corretta chiusura degli ospedali più piccoli, e quindi potenzialmente meno sicuri, con la creazione in tutte le regioni di una rete strutture intermedie sul territorio, in grado di fare da ponte tra medici di famiglia e ospedali.
La parte del libro che descrive i primi 100 giorni dell’epidemia è quella che risente di più della velocità della cronaca e della speranza, che a maggio/giugno tutti avevamo, di aver scampato il peggio. Ciò nonostante molte delle constatazione sono ancora del tutto valide. Ne metto in evidenza due: la necessità di una cura maniacale nell’avere e nel diffondere in modo univoco e trasparente i dati; il rischio per ogni decision maker di non basarsi appunto sui dati, ma sulle speranze. E’ quello che Kahneman chiama l’euristica dell’affetto, che Geddes ricorda essere uno dei bias più insidiosi: vedere solo quel che vorremmo vedere, prevedere solo quello che vorremmo avvenisse. Geddes scrive prima della seconda tragica ondata della pandemia, ma la sua è una profezia che sì è malauguratamente avverata.
Passando a portare il nostro sguardo al futuro, l’ultima parte del libro esamina quattro aspetti della sanità pubblica che richiedono immediati e coraggiosi interventi per rendere il sistema più solido e in grado di sopportare stress terribili come il Covid-19 che, temiamo con una qualche ragione, non che sarà l’ultima pandemia del secolo. Il primo settore a cui mettere mano è quello della prevenzione e dei servizi di epidemiologia, troppo spesso trascurati da una visione politica schiacciata sul presente. C’è poi da rafforzare, come ormai unanimemente si riconosce, le cure primarie, dando maggior peso al territorio e ridando centralità ai medici di medicina generale, ai pediatri di libera scelta, agli infermieri di famiglia, che devono trovare strutture adeguate a dare risposte alla maggior parte dei bisogni dei cittadini.
Una terza area di intervento attiene alla riorganizzazione degli ospedali. Qui Geddes esprime una raccomandazione che mi sento di sottoscrivere in pieno: non torniamo indietro! Non è riaprendo ospedali piccoli, insicuri, poco attrezzati che moltiplicheremo le opportunità di salute: moltiplicheremo solo i primariati (ma questo lo dico io e non Geddes). Non abbandoniamo l’organizzazione per intensità di cura per tornare ai servizi di degenza di una volta. Focalizziamo piuttosto il ruolo dell’ospedale e presidiamo con cura la sua adeguatezza.
Si parla infine di RSA e di anziani. Se ne parla avendo davanti agli occhi la tragedia che nelle nostre residenze si è consumata. Una consapevolezza che però non si piange addosso, ma cerca soluzioni. E la soluzione non può essere trovata nell’emarginazione degli anziani in strutture chiuse e impermeabili, che l’autore affianca al paradigma tragico dei manicomi, lì dove la vita è sospesa nell’attesa della morte, ma in piccole unità abitative/assistenziali a misura delle persone che le abitano, ricche di relazioni con il quartiere, capaci di valorizzare ogni autonomia residua.
La velocità della pandemia, i drammi della seconda ondata e il continuo accrescimento della conoscenza fanno sì che alcune delle spiegazioni e dei consigli, pur corretti, che il volume ci propone possano sembrare ormai risaputi, quasi scontati. Io li ho trovati comunque assai utili: sia perché costituiscono un dizionario ragionato di termini e strumenti che abbiamo sempre sulla bocca, ma la cui frequenza nasconde spesso una conoscenza solo superficiale, sia perché sono una testimonianza di quanto velocemente evolve la nostra conoscenza e della necessaria prudenza che deve accompagnare ogni giudizio che, proprio se legittimo e quindi basato sui fatti, deve poter evolvere a mano a mano che i fatti ci presentino nuove evidenze.
L’appello ad abituarci e tollerare l’intrinseca incertezza della scienza mi è sembrata una preziosa conclusione di questo testo, il quale, pur se rigoroso, pare non perdere mai, così come ricorda di fare noi tutti, la dimensione della tenerezza. La tenerezza verso chi soffre, verso chi è solo, verso i più deboli. Una tenerezza che diventa una scelta etica e ci fa sperare che questa terribile prova possa servirci a costruire un mondo più equo e uno sviluppo più giusto e sostenibile.

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