Albert Espinosa è nato a Barcellona nel 1973. A 13 anni gli è stato diagnosticato un osteosarcoma a causa del quale ha subito l’amputazione di una gamba. Le metastasi diffuse nel corpo hanno successivamente reso necessaria l’asportazione di un polmone all’età di 16 anni e di parte del fegato a 18 anni. Ha trascorso in totale 10 anni entrando e uscendo dagli ospedali, esperienza da cui ha tratto ispirazione per questo libro e da cui è nata successivamente la fiction televisiva Pulseras rojas i cui diritti sono stati acquistati all’estero: in Italia dalla Rai che ha realizzato “Braccialetti rossi” e negli Stati Uniti da Steven Spielberg, che realizzerà una fiction dal titolo “The Red band society”.
Già nell’introduzione l’autore ci permette di avvicinarci a lui e di “visualizzare” il momento in cui il libro è stato scritto: una notte non troppo buia di un’estate non troppo afosa davanti ad una Coca Cola ghiacciata è l’inizio della storia, quando “sente che è il momento di tratteggiare su carta il mondo giallo” (pagina 12). Una giornata piovosa e fredda di settembre segna invece la conclusione del libro. In mezzo c’è il racconto della sua esperienza di malattia, gli insegnamenti appresi dal cancro e il desiderio di condividerli con tutti noi lettori.
Sono quattro le parti del libro: per “Cominciare”, per “Continuare”, per “Vivere” e “Riposare”. E se la prima, che dà l’avvio, rappresenta l’inizio della malattia e l’ultima il rapporto con la morte, sono le parti centrali la vera forza del libro, all’interno delle quali l’autore ci permette di seguire le sue riflessioni e godere dei suoi suggerimenti. Perché una volta diagnosticata la malattia, è necessario “continuare a vivere”. In queste pagine, l’autore ci propone un metodo descritto con precisione quasi scientifica, con cui poter applicare alla vita quotidiana quello che lui ha imparato grazie al cancro: una via percorribile per affrontare dolori, perdite, sconfitte, dubbi e i timori della vita di tutti i giorni, anche se non siamo mai stati ammalati.
Seguendo il suo percorso di crescita, ci vengono regalate, attraverso ventitré capitoli, le sue ventitré scoperte, rese possibili e introdotte nel testo dalle osservazioni e dalle frasi delle persone, spesso sconosciute, che ha incontrato in ospedale. Sono temi delicati e sembra davvero impossibile abbinare alla parola cancro la parola felicità ma è quanto invece emerge in tutto il racconto. Attraverso questi episodi ci vengono rivelate delle verità utili ad affrontare la vita. Uno: le perdite sono positive e bisogna imparare a viverle, a piangerle, a ricordarle, a parlarne con gli altri perché da una perdita c’è sempre una rinascita. Due: il dolore non esiste. Tre: prima di reagire a una brutta notizia aspetta trenta minuti. Quattro: fai cinque buone domande ogni giorno. Riflessioni che fanno emergere e portano alla luce concetti preziosi, esprimono curiosità, attenzione e volontà di trasformare le esperienze negative in suggerimenti che saranno utili sempre, anche quando la malattia sarà superata. Ed ancora altri suoi insegnamenti concreti come l’importanza di sentirsi, di conoscersi, cercando il proprio respiro, la propria camminata, la propria risata. O ancora, l’importanza di avere la propria “cartella di vita” per scrivere le cose che amiamo, i momenti più significativi, per poterla rileggere, per segnare il proprio percorso di crescita e soprattutto per poterla lasciare alle persone che ci vogliono bene e che hanno il bisogno di ritrovarci quando non ci saremo più. La necessità di essere curiosi sempre, di avere dei segreti ma di essere capaci anche di svelarli; di non avere paura di sbagliare, di non giudicare, di saper accettare e gestire la propria rabbia, di cercare sempre le cose che più ci piacciono e di soffermarci a guardarle, di imparare a sentire le proprie emozioni e quelle degli altri e, ancora, l’importanza di sapersi divertire. Sono esperienze che tutti proviamo e che ci accomunano, indipendentemente dalla nostra professione. E la forza del libro è che questi insegnamenti sono davvero utili a tutti noi, nella nostra quotidianità.
Queste ventitré scoperte uniscono le due età di Espinosa, i 14 anni in cui è iniziata la malattia e i 24 in cui sulla sua cartella clinica è comparsa la scritta “il paziente è guarito” seguita da una linea tracciata dall’oncologo in fondo alla cartella. E la scelta di raccontarsi fa emergere con forza il significato della scrittura autobiografica, considerata un metodo auto-curativo poiché attribuisce significato ai ricordi e genera riflessività, oltre che esplorare la propria identità. Lo scrivere di sé diventa un modo per ripercorrere la propria storia e sempre, quando si scrive, si riscopre qualcosa di sé. Scrive l’autore “… così ho deciso di immergermi nella mia adolescenza, in quel ragazzo di quattordici anni che stava per ammalarsi e ho cominciato a unire le due età, i quattordici e i ventiquattro anni. È stato qualcosa di magico, di incredibile. Tornavo a quei ricordi, vedevo quello che amavo o che sognavo ed era come trapiantare tutto nel giovane di ventiquattro anni. Ho passato un anno meraviglioso a tendere ponti, intessendo un dialogo con le due persone che vivevano nello stesso corpo… l’ideale è ricostruirsi a partire da chi si era: tornare alle fondamenta, ai nostri quattordici anni…” (pagina 115).
Con la terza parte “Vivere”, Espinosa ci parla di un mondo alla portata di tutti, che ha il colore del sole: il mondo giallo, a cui lui tiene moltissimo e che desidera farci conoscere. Un posto caldo, dove gli sconosciuti possono diventare i più grandi alleati e, come il sole, esistono e ci scaldano gratuitamente, senza il dovere di vederli spesso né di rimanere in contatto con loro. Persone che incrociano la nostra vita e che entrano con forza dentro di noi, con le parole, con i gesti, con l’intimità favorendo un’apertura reciproca. Quello che emerge nel libro, con forza e con grande ottimismo e a cui noi vogliamo credere è che i gialli ci sono e questo, di conseguenza, ci spinge a cercare, con la memoria, quelli già incontrati e che sono stati significativi nella nostra vita. Ci spinge anche ad avere un atteggiamento di curiosità per quelli non ancora trovati, con una maggiore capacità di ascolto e di attenzione per le persone che incrociamo sulla nostra strada. E non è una questione di tempo o di età perché li possiamo incontrare sempre, con la consapevolezza di essere, a nostra volta, i gialli per qualcun altro. Se questo è importante per ognuno di noi, diventa fondamentale nel ruolo di professionisti della salute. Come dice Espinosa “… in ospedale le possibilità di incontrare candidati al ruolo di gialli erano molto alte; vivere una situazione così estrema e trascorrere tutte quelle ore insieme, in un intervallo di tempo piuttosto breve, favorisce l’apparire di un giallo…” (pagina 128). L’”essere gialli” ci porta a riflettere sull’importanza della comunicazione di noi professionisti, con le persone assistite, sulle parole che usiamo e sul messaggio che inviamo perché vengono raccolte e, come nei ventitré capitoli del libro, possono diventare lo spunto per una riflessione e per una nuova scoperta. Una grande responsabilità, quindi, da esercitare con cura, sapendola accompagnare con gesti adeguati di vicinanza.
E infine “Riposare”. Sono poche le pagine utilizzate per parlare della morte. Anche in questo caso i consigli sono molti e concreti ma, a differenza delle ventitré scoperte dell’autore, è solo l’argomento morte ad essere affrontato. È facile che ognuno di noi, nel suo percorso di vita, l’abbia incontrata sia come persona, sia come operatore. E allora ogni considerazione è superflua e l’augurio è di una buona lettura, in solitudine.
Anna Persico
Coordinatore del Corso di Laurea in Infermieristica Pediatrica, Università degli Studi di Torino
Aou Città della Salute e della Scienza