Il curante che non cura…



Vorrei soffermarmi a riflettere con quanti di noi, professionisti sanitari, per differenti e variegati motivi non si trovano più nelle condizioni di essere considerati curanti.
La pensione, una malattia, un incarico gestionale e organizzativo mettono in “panchina” molti professionisti chiamati dalle circostanze della vita a sentirsi definiti come delle riserve, dei supplenti.

Ma tutto dipende da come noi guardiamo le cose, da che angolazione e soprattutto pensando sempre alla centratura del nostro compito.
Se torno a guardare indietro e penso al mio percorso professionale, personale e umano capisco che il mio ruolo di curante non è mai venuto meno.
Perché a 33 anni un infortunio invalidante fisicamente non può e non deve distruggere il bello e il potere che ha la cura, su di sé e per gli altri.

Mi sono resa conto che non potevo essere più le mani, le orecchie, il cuore per i miei pazienti ma potevo raggiungerli attraverso il talento di curatore con altri strumenti: la formazione.
Ho così iniziato un altro percorso, alternativo all’essere in prima linea come mi piaceva definirmi. Ho dedicato 5 anni del mio percorso professionale a formami e formare medici infermieri e oss sulle buone pratiche assistenziali per ridurre le infezioni correlate all’assistenza; ma avevo sempre nostalgia della cura, dell’essere sul campo e così ho provato a ritornare in assistenza affrontando un’esperienza così arricchente dal punto di vista umano che la consiglierei a tutti: sono stata infermiera del servizio per le dipendenze patologiche. Non potete capire quanto questa esperienza abbia curato in primis le mie ferite dell’infortunio e personali. E’ stata l’esperienza più bella ed importante; ho vinto anche dei pregiudizi che non nego di aver avuto.

Mi sentivo di nuovo utile, poi una visita medica, un altro referto e di nuovo l’impossibilità di essere quello che consideravo l’unico modo di sentirmi curante, tutto svanisce ancora.
Sensi di colpa, rimpianti di scelte universitarie, vite spezzate intanto nella mia vita che mi hanno portata ad occuparmi sin da giovane età di familiari con importanti disabilità mi hanno resa una persona profonda che voleva capire meglio quale fosse il mio posto nel mondo.

Ho deciso così di accogliere il mio stato, accettarlo e prendere questa situazione come una occasione, ovvero di formarmi in modo appropriato per poter essere quel braccio che unisce quello del mio collega a quello del mio paziente.
Ho fatto corsi, mi sono formata come docente, come progettista e ho provato a sperimentare la forza della narrazione durante gli anni della pandemia. Le parole hanno un potere benefico e a volte salvifico, se scelte con cura.
Non a caso la scelta del titolo dell’antologia Racconti di cura che curano, scritta principalmente per dare voce a chi come me stava vivendo l’orribile sensazione della disperazione seppure sostenuta dalla speranza di dovercela mettere tutta per arrivare alla fine.

Scrivere di quelle che sono le nostre debolezze può diventare un’occasione per far sì che quelle debolezze diventino la nostra forza, perché se c’è una cosa che mi ha insegnato la cronicità di una malattia derivante da un infortunio è che se credi in quello che fai e ami quello che fai non perderai mai la tua forza di curante.
Soprattutto non è l’essere in prima fila che fa di te un vero professionista ma quanto sei disposto a fare per mantenere alto il valore che dai al tuo lavoro.

Oggi quando in aula o nei corridoi incontro un collega che mi ringrazia per un corso progettato e realizzato per loro e per quel servizio sento che quel braccio esiste, che pensare agli operatori attraverso una formazione mirata e centrata sui loro bisogni, mette sempre al centro il mio paziente, e che insieme produciamo salute.

Un curante che non cura, in realtà cura se in ogni sua attività lavorativa ci mette la stessa dedizione, attenzione e centralità pensando ad ogni evento formativo come ad un occasione di crescita sua e di chi mette in aula. Perché un professionista ben formato sarà un curante sempre più preparato, che avrà cura di chiedere più spesso formazioni necessarie al suo sapere, al suo bisogno di essere ascoltato e accudito.
Perché la cura dell’altro passa prima dalla propria centralità.

21 agosto 2023

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