Le storie, qualche volta, ci curano



Siamo esseri narranti che sono definiti ontologicamente dal saper raccontare e ascoltare storie fin dall’alba dei tempi. In noi vi è l’istinto di raccontare e ne siamo consapevoli dall’origine della nostra storia, la storia dell’Occidente: la mitologia che abbiamo appreso dai libri di scuola, che è filosofia messa nel racconto, è saggezza trasformata in storie di metamorfosi e di eroi, in gesta di giganti e di titani. Siamo talmente intrisi di storie che non ci rendiamo conto di quelle che raccontiamo costantemente perché dipendiamo da esse nei nostri dialoghi interiori, nei nostri giudizi, nelle varie interpretazioni della realtà che viviamo, che attuiamo, anche nella realtà della malattia e della guarigione.

Storie che non vengono solo scritte, lette, ma narrate, cantate perché conosciamo intrinsecamente il potere che esse hanno sull’inconscio e sulle cellule. Il tempo antico è stato un tempo in cui la medicina è stata narrazione, rappresentazione e cura: le tragedie e le commedie greche venivano realizzate affinché la rappresentazione diventasse cura e permettesse il passaggio attraverso i vissuti, fino alla catarsi.

La salute è certamente fatta di terapie necessarie, di atti chirurgici, di protocolli, ma anche di sonno e di risveglio, di fatica e di dolore, di qualità quotidiana, di vivere con il dolore e di come questo cambi il modo di essere al mondo, di camminare, di pensare, di relazionarsi. Le parole erano definite pharmakon (φάρμακον): ogni volta che veniva somministrato un medicamento naturale prelevato dalle piante, le erbe non erano mai disgiunte dalle parole affinché diventassero insieme herba et verba. Quando si legge un libro si acquisisce la possibilità di un’altra esistenza. Quando si ascolta un paziente che racconta la sua storia non gli si vende un colloquio, gli si offre da vivere un’altra dimensione della sua esistenza.

Una tessitura di una storia permette di raccontare e di toccare temi come la solitudine, la morte, la vergogna, che sono indicibili. Il nostro affacciarsi alla vita come individui è un po’ come l’entrata in scena di un attore quando la rappresentazione è già cominciata: una commedia la cui trama decide quali sono le parti che possiamo interpretare e quale sarà l’epilogo a cui possiamo giungere.

Narrare humanum est sosteneva Bruner, toccando l’esperienza e il raccontare l’esperienza, che ha a che fare con la coscienza, il sentire, l’organizzazione di chi sei tu, la tua identità rispetto alla realtà e alle relazioni. Tutto questo si scava dentro in relazione a ciò che vi è fuori.

Le neuroscienze cosa ci dicono? La tecnica della narrazione agisce sul cervello: è vero che le storie ci cambiano, ci curano, sono un vero e proprio atto di cura. Permettono il mirroring – se lo immagini lo stai già vivendo -, l’accoppiamento neuronale, la formazione di nuove reti neuronali, il rilascio di dopamina, che vuol dire plasmare i circuiti neuronali della ricompensa, dell’apprendimento, del piacere, della creatività. Possiamo eccitarci per una storia, non vedere l’ora di leggerla o di ascoltarla, di sapere come va a finire. È la scienza del mondo dello storytelling: non si conosce il mondo sic et simpliciter. Noi siamo i grandi interpreti che, attraverso lo strumento olografico celebrale, sanno decodificare i messaggi della società popolata da narratori pronti a raccontare la loro storia.

Quando ci posiamo su una storia anche il nostro corpo si posa su di essa: cambiano le citochine, gli ormoni, le relazioni neuro-endocrino-immunologiche. La memoria entra nei temi della malattia e dell’identità: il sistema immunitario si sovrappone all’identità, il me dal non me, il self dal non-self, che si distingue per proteggersi da ciò che non è di sé.

La memoria è anche un elemento biologico per definire l’identità. Quale memoria? Quella che noi ricordiamo o un’altra? A questa domanda si può rispondere con un’altra domanda: cosa fanno le persone che sanno narrare bene? I narratori usano le matrici, gli archetipi, le forme primigenie con le quali sanno risuonare la primaria coscienza, l’inconscio collettivo di Jung.

La metafora del viaggio dell’eroe è intrisa di una storia: un eroe a cui va tutto bene, a cui non succede niente, la cui vita scorre serena, passano gli anni, invecchia e se ne va. Chi leggerebbe una storia del genere?! Il sé narrativo trova più appetibile peripezie, prove, difficoltà.
L’alter ego narrativo può diventare un grande eroe che ci sorregge laddove dobbiamo confrontarci con le prove dell’eroe che non avremmo voluto vivere ma che ci prepara ad affrontare un viaggio che non può definirsi tale se non fatto di declinazioni, di articolazioni, che non abbia un ventaglio di passaggi.

La metafora dell’eccellenza dantesca, colui che ha compiuto il viaggio dei viaggi, colui che ha compiuto il viaggio che nessuno avrebbe potuto compiere ma che in realtà si chiede spesso di compiere ai pazienti: il viaggio giù negli inferi, dove bisogna scendere necessariamente per risalire, dove bisogna fare una catabasi nei gironi più terribili in cui la malattia assume i contorni di un mostro e non riesce ad apparire un casuale accidente incontrato sulla strada. Bisogna poi fare la metanoia, invertire la rotta della coscienza per l’anabasi – la risalita – anche se qualche parte fisica è rimasta laggiù, dimostrando che il mondo narrativo ha una potenza che è ben al di là di quello che noi pensavamo potesse avere.

L’altra grande metafora, la metafora del tempo, è messa a dura prova dalla malattia o, forse, il rapporto che noi abbiamo con il tempo mette a dura prova le nostre risorse se e quando arriva la prova. Se viviamo un tempo lineare la malattia ci induce a sentire che il tempo è finito. Se viviamo un tempo circolare siamo portati a chiederci quale ciclo si sta ripetendo. Se il nostro tempo è escatologico nel quale gli istanti hanno un valore perché possano essere l’Istante, cioè il Kairos, il momento opportuno nel quale scoccare la freccia. A volte la malattia accelera il momento del Kairos e quando si lavora con il sé narrativo ci si può permettere di violare le leggi dello spazio e del tempo: ci si può permettere di andare nel senza-tempo. Quando si va nella narrazione c’è una a-temporalità che permette un Kairos che può addirittura andare oltre Chronos. Il sé narrativo sei tu allo specchio.

Noi non ricordiamo gli elementi come archiviati all’esterno e immutabili. Ogni volta che noi ricordiamo ricreiamo un evento e con esso un’esperienza. La memoria è una ristrutturazione: quello che è passato non è dimenticato, è rimasto nel corpo, nell’indelebile memoria emotiva. Come ci hanno dimostrato gli esperimenti di Nader e Ledoux, ogni volta che noi ricordiamo viviamo letteralmente l’esperienza: ciò significa che quando raccontiamo, in base a come lo facciamo, noi sogniamo una ‘’tastiera emotiva’’ che possiamo decidere di suonare anche in un modo diverso e possiamo trasformare letteralmente gli eventi.

Quando noi raccontiamo e ricordiamo – dice Lang – potremmo scoprire che abbiamo avuto molte più infanzie di quelle che credevamo. Semplicemente avevamo dato retta ad un solo racconto. La memoria è il ricordo di cose che verranno, ovvero serve una memoria autobiografica per costruire il progetto, per costruire il futuro. La memoria del passato è funzione immaginante, narrante.

Le parole creano, le parole sono suono. In base alle parole che tu dici cambi la tua realtà. C’è un punto di intersezione delle storie che si chiama cuore che è medicina dell’umano e umano, per il momento, si definisce ancora per la presenza del cuore. Le storie, qualche volta, ci curano. Come quella che ha curato Brigida.

Quando mi è stato proposto di scrivere un diario confesso che mi sono sentita un po’ smarrita, avevo la sensazione di non avere niente da rilevare di così importante nella mia vita sia in senso positivo sia in senso negativo. Eppure, reduce da interventi e trattamenti ne avrei avuto da raccontare…raccontare come mi ero ritrovata in condizione di malattia dopo mille sacrifici e tanto lavoro. Ecco, il diario lo vedo e lo vivo come un percorso nel ‘’futuro’’ più che nel passato perché mi dà occasione di rincontrare persone importanti della mia vita, come i miei genitori, le mie sorelle, me. Occasione di entrare nella stanza dei ricordi che riprendono forma, mi danno la possibilità di vedere persone, avvenimenti senza filtri, vedere me come sono oggi. Certo, a volte mi costa emozioni, ma è come attraversare un bosco e cercare un sentiero per raggiungere il luogo giusto dal quale vedere tutta la perfezione di quel che ho vissuto e vivo, compresa la malattia.”

8 agosto 2023

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