La Sanità futura? Speriamo che sia femmina


a cura di Sandra Morano
Moretti & Vitali, 2021
Pagine 184

Sono passati decenni, ma il felice titolo del film di Mario Monicelli: Speriamo che sia femmina (1986) non ci esce dalla memoria. Un augurio per la creatura in gestazione; una speranza per le donne, fatte incontrare dal destino in quella casa colonica toscana fuori mano, di liberarsi da quei maschi, pasticcioni, inaffidabili e ingombranti, con i quali avevano intrecciato le loro vite. Se la nostra attenzione si sposta sul Servizio sanitario nazionale, siamo di fronte non a un auspicio, ma a una certezza statistica: la sanità sarà in mano alle donne. Lo dicono i numeri. Per limitarci al solo personale medico, il loro numero in Italia aumenta di anno in anno. Nella fascia di età 40-44 anni, le donne sono il 60% della categoria. Certo, l’ascesa verso i ruoli apicali è per lo più bloccata: un fenomeno che si riscontra anche negli ostacoli alla carriera universitaria. In Italia i direttori di Struttura Complessa sono per l’83,5 % maschi e solo il 16,5 % donne; nella sanità pubblica meno del 18 % di donne siedono nei tavoli decisionali di vertice riservati ai Direttori Generali. Ma, ancora una volta, i numeri guardano dalla parte delle donne: nei prossimi 3-4 anni avrà luogo il pensionamento in massa dei baby boomers e nel ricambio generazionale si apre la possibilità di sostituzione da parte delle donne.
Anagraficamente, dunque, la sanità sarà femmina; ma sarebbe un fallimento se le donne si limitassero a vestire i panni dei maschi: dovranno indossare panni nuovi, non quelli che la cultura maschilista ha loro confezionato. In sanità come in altri ambiti. È il modo stesso di pensare la sanità che va cambiato. Ne siamo diventati dolorosamente consapevoli durante la pandemia di Covid-19. Le insufficienze del sistema non sono state casuali: sono l’onda lunga dell’aziendalizzazione che ha sancito il primato dell’economia, della politicizzazione della “governance”, della regionalizzazione del SSN, dell’ospedalocentrismo ai danni dei servizi territoriali. In questo contesto, un gruppo di donne, consapevoli che per esperienza e cultura sono portatrici di una concezione innovativa della cura, si è assunto il compito di immaginare una diversa sanità. Animate dalla battagliera Sandra Marano (che chiama sé stessa non dottoressa ma “medica”; nel neologismo è già iscritto un programma di innovazione), delle professioniste sanitarie afferenti al sindacato ANAAO, insieme a insegnanti, architette e altre collaborazioni femminili, si sono riproposte di immaginare una diversa cura, nella pluralità dei suoi aspetti. Il risultato è sintetizzato nel libro: La sanità che vogliamo. Le cure orientate dalle donne, ed. Moretti & Vitali, 2021.
Con un lavoro metodico, sottogruppi di donne impegnate nella riflessione hanno preso in considerazione diversi aspetti in cui si articola il progetto: il passaggio dal governo clinico al governo delle donne; il ruolo del bilancio di genere; la sanità pubblica nei suoi rapporti con il privato; le cure territoriali orientate dalla sapienza femminile; il legame inscindibile tra sanità e scuola; il ridisegno delle RSA; il bisogno di ripensare l’architettura dei luoghi di cura. Quello che si propongono non è un salto in alto, magari abbinato al sogno di sfondare il soffitto di vetro, ma un salto in avanti. La progettazione è guidata da una rigorosa riflessione sul concetto di cura. Per evitare equivoci, nel libro si fa spesso ricorso al termine inglese “care”, che è più inclusivo di cura in italiano. In estrema sintesi, possiamo dire che la cura non va ridotta a terapia; e la terapia a sua volta non va ridotta a prestazione. Su questo orizzonte vediamo prender forma una sanità diversa, figlia di una pratica della cura di genere femminile.
Due punti fondamentali meritano una sottolineatura nell’ambizioso ripensamento del sistema delle cure. Anzitutto una rigorosa riflessione sul potere è trasversale a tutto il progetto. L’affidiamo alla voce di una giovane ricercatrice, sulla base della propria esperienza:
“In Medicina il potere era ben presente a definire una rigida gerarchia interna fatta di file e consuetudini e un approccio paternalistico con il paziente. In Università il potere aveva solitamente i capelli bianchi e il tono di chi non sbaglia mai, a volte aveva forma di donna e metteva i tacchi, ma non era meno tagliente. Mi stupiva che non si parlasse mai di modificare il modello dominante che rimaneva sempre esclusivo ed escludente, da subire, magari in disaccordo, se brave – meritevoli – da conquistare, oppure in alternativa da rifuggire ritirandosi dai luoghi delle decisioni.
Decidere di stare né dentro al modello dominante, marziale e maschile, né fuori o ai margini, ma di lottare per immaginarlo nuovo, può essere difficile, ma è l’unico passo possibile per una vera rivoluzione sociale”.
È da questo cambio radicale nei rapporti di potere che ci aspettiamo un abbandono della gerarchia piramidale che ha tradizionalmente imperato in sanità – chiedere agli infermieri per documentazione… – e una modalità diversa di collaborazione tra professionisti delle cure. Anche il collegamento della salute come erogazione di servizi sanitari con la scuola e l’educazione, con la residenzialità per chi non è più autosufficiente, con le tematiche del Welfare dà concretezza al progetto. È il passaggio dal “Io curo” al “Noi curiamo”.
Una seconda considerazione è riservata alla terapia che le “mediche” immaginano per la sanità malata. Ben più che attuare sostituzioni di genere e aggiustamenti organizzativi, si tratta di intervenire nella formazione stessa dei professionisti, introducendo fin dall’inizio del percorso il respiro delle Humanities. Perché la cura come la conoscono le donne è un’attività a valenza umanistica. È un intento confortante per chi è costretto a constatare che la formazione continua rivolta ai sanitari ha per lo più il profilo di un rimedio da contrapporre a una de-formazione che ha avuto luogo fin dall’inizio. Per prevenire che il professionista acquisisca la fisionomia dell’erogatore di terapie – o, ancor peggio, del prescrittore – il gruppo delle donne che si sono assunte il compito di ripensare la pratica medica in modalità femminile auspicano che fin dall’inizio non si prenda la strada sbagliata. Pensiamo in questo senso all’importanza che la competenza comunicativa faccia parte del percorso formativo, invece di essere affidata alla buona volontà dei singoli professionisti. I quali escono dall’università sapendo tutto sulle cure mediche proprie della loro specialità, ma del tutto analfabeti riguardo all’ascolto, alle modalità di informazione e di comunicazione con il malato.
Si racconta che in Francia, durante un’assemblea del Parlamento, un deputato che intendeva prendere la difesa delle donne avesse affermato che, in fondo, tra uomini e donne c’è solo una piccola differenza. Al che l’assemblea sarebbe scattata in piedi gridando “Vive la différence!”. È il caso di applaudire alla differenza tra la sanità pensata e praticata dagli uomini e quella progettata dalle donne: una differenza non piccola, ma vistosissima. Una differenza sulla quale riversiamo le nostre più vive aspettative.

STAMPA L'ARTICOLO