Tornare alla normalità. Quale normalità?


Un ospedale trasformato in pochi giorni in ospedale Covid: sale operatorie diventate terapie intensive e infermieri della sala operatoria affiancati ai colleghi della terapia intensiva per imparare o reimparare a prendere in carico ed assistere i pazienti ricoverati.
Competenza, flessibilità, resilienza, capacità cliniche, capacità organizzative, capacità di fare squadra, capacità di fare la differenza: tutto messo in campo senza esitazione, con continuità. Era marzo 2020, oggi, marzo 2021 questi colleghi sono ancora li, nelle sale operatorie diventate terapie intensive. Sono i colleghi dell’Ospedale Magalini di Villafranca di Verona. Oggi a distanza di un anno desiderano tornare alla normalità, un sentire che sicuramente è condiviso da molti colleghi in tutto il Paese.
Il desiderio di tornare alla normalità attraverso un’immagine, quella di tante penne colorate che hanno realizzato e che tra due cuori racchiudono la scritta “Sala Operatoria – Ospedale Magalini Villafranca (Vr), Sempre nel cuore”.
Ma cosa significa tornare alla normalità? Lo abbiamo chiesto ad alcune di loro: Silvia, Gessica, Stefania, Lara.

CHE COSA ERA LA NORMALITÀ UN ANNO FA?
Silvia
La normalità era riuscire a fare il mio lavoro in sala operatoria, parlare con la gente senza mascherine, porgere la mano come gesto di cortesia, scherzare con le mie colleghe e se mi andava poterle abbracciare senza timore, andare in un luogo affollato e sentirmi a mio agio, vedere i miei familiari ogni volta che mi andava di farlo personalmente e non con una videochiamata, non sapere cosa fosse un’autocertificazione per andare in giro ovunque volessi andare.

Gessica
Se questo è il significato di normalità ossia l’insieme dei modi di agire, di pensare, di FUNZIONARE o più semplicemente di ESSERE. L’essere inteso come persona. Un anno fa ero questo, un essere, una persona.

Lara
La normalità un anno fa si traduceva in uno stato di equilibrio costante, fatto di lavoro intenso ma fluido, di una vita privata che lasciava spazio a qualsiasi cosa si potesse desiderare in qualsiasi momento, un viaggio, una gita, una cena, le feste. Sono in sala operatoria da 21 anni, ragion per cui posso sentirmi legittimamente fortunata perché posso beneficiare degli anni di esperienza ed essere autonoma, sentendomi sempre a mio agio anche quando le condizioni lavorative sono state notevolmente cariche di stress e di tensione di varia natura. Ho sempre avuto la facoltà di esprimere una scelta e ogni giorno, che fosse lavorativo o meno, è sempre stato caratterizzato da una certa libertà e spontaneità. Oggigiorno però mi rendo conto di quanto ancora il silenzio delle mie notti insonni, da un anno a questa parte, mi ricordi quante siano le debolezze, le incertezze e gli obblighi generati dalla pandemia e di come mi abbiano profondamente segnato come professionista, cittadino e, non meno importante, come genitore.

Stefania
Sono un’infermiera formata con il vecchio ordinamento e da sempre ho svolto il mio lavoro in sala operatoria, dove l’attività è particolare, non è mai sempre uguale. Ci sono attimi in cui tutto ruota molto velocemente; e mentre sembra andare come siamo abituati in un istante lo scenario cambia: la situazione del paziente si aggrava, gli allarmi incominciano a suonare, i chirurghi imprecano, si chiama qualcuno in aiuto. Le strumentiste devono essere veloci come fulmini a passare ferri e garze, l’assistente di sala non deve mai perdere l’attenzione dal tavolo operatorio e l’infermiera di anestesia si deve destreggiare, magari con due anestesisti, tra infusioni, accessi venosi, allarmi, tracciati e numeri. La scarica di adrenalina è enorme! Tutto può accadere in una manciata di secondi, dentro ai quali ognuno sa esattamente cosa fare, senza chiedere istruzioni o ordini. Questa era la normalità di un anno fa, o poco più, prima di il virus entrasse nelle nostre vite, e poi nei corpi di molti uomini e donne. Una normalità fatta di tensione, velocità e adrenalina.

CHE COSA È CAMBIATO IN QUESTO ANNO E COME?
Silvia
Sono cambiata io… non so se riuscirò ancora a stare in mezzo a tanta gente senza sentirmi a disagio o a toccare la maniglia di una porta che non sia quella di casa mia, senza poi igienizzarmi le mani. È cambiato il rapporto con la gente, ho raggiunto la consapevolezza di quanto fragili siano le certezze di cui mi circondavo e che formavano il mio mondo lavorativo, sociale e familiare. Sono arrivata ad avere paura quando andavo al lavoro, cosa che non mi era mai successo non per me ma per i miei familiari, paura di infettarli, mi sono mancati gli abbracci e i baci di mio marito e mio figlio.

Gessica
Da un anno a questa parte sono un numero o meglio un RAPPORTO scritto su un movimento giornaliero 1 infermiere/2 pazienti. Nessuna considerazione, tanto silenzio. Sono un numero all’interno di una tuta che mi opprime, mi soffoca!!! Solite poche parole: siamo in guerra! ma al fronte ci siamo noi del Magalini. Un anno fa facevo dei sogni ORA solo incubi…vedo il fango…le fiamme!

Lara
In questo anno, senza che mi fosse chiesto, senza sentirmi pronta… mi sono ritrovata ad affrontare un qualcosa di talmente grande, imprevisto e terrificante che posso dire sia stata una delle poche cose che, sino ad oggi, mi abbia messo in profonda crisi sia dal punto di vista emotivo, sia professionale.
A marzo 2020 abbiamo allestito per la prima volta la pre-sala del gruppo operatorio da adibire a terapia intensiva Covid. Cominciavamo a spogliarci della nostra routine e delle nostre certezze. Il 21 marzo abbiamo accolto la prima paziente nell’ex sala… l’undicesima della terapia intensiva e la sensazione era quella di trovarmi in un mare in tempesta e avere la consapevolezza di non essere capace di nuotare in quelle condizioni.
La sensazione di affogare è stata netta al mio primo ricovero, le domande poste dalla paziente pesavano come un macigno, assistere alle sue telefonate con i figli, prima di essere intubata, le percepivo con l’ultima sigaretta concessa ad un condannato.
Sono stata troppo empatica in quella situazione e il panico ha preso il sopravvento avendone la meglio su di me. Nonostante la mia colonna di quel giorno, Flavia che continuava a ripetermi “Lara respira con il naso…con calma”, la calma non è mai arrivata, la nausea era sempre più forte, ero certa che avrei vomitato da un secondo all’altro.
Barcollando lungo il corridoio, per non cadere mi appoggiavo ai muri del percorso che mi portava alla svestizione, mi svesto, arrivo in spogliatoio, vomito. E piango.
Da quel momento decido che non posso pensare alle storie personali dei pazienti. Non posso immaginare le loro normali vite al di fuori da questo che sembra essere un posto dimenticato da Dio. Per salvaguardarmi devo pensare siano dei numeri. Ma se fossi stata così brava non mi sentirei ora l’animo scavato.
Il resto dei mesi trascorsi passano con lunghi sfoghi fatti di nascosto dai miei figli, da sorrisi talvolta forzati e da una finta spensieratezza perché il peso interiore che mi accompagna, sembra fare parte del mio nuovo essere. Non sono ancora annegata nel mare in tempesta, sono arrivata a riva, dove ci sono tanti altri miei colleghi. Siamo tutti stanchi. Esageratamente stanchi e poco motivati. Perché in questo anno abbiamo pazientato, studiato, curato, ci siamo trasformati per poi sentirci inadatti e poi adattati, dannati di fatica per svolgere un tipo di lavoro che non ci apparteneva, consapevoli poi che non c’era altra scelta, per nessuno di noi della sala operatoria.
Chi non ha camminato nelle nostre scarpe non saprà mai. Siamo stati protagonisti di un qualcosa senza precedenti e mi rattrista riscontrare che, quando riusciamo a ritornare a riva non ci sia nessuno a dirci che siamo stati bravi ad affrontare una simile tempesta e ad uscirne vivi anche se profondamente feriti. Ma vogliamo venirne fuori da questa disfatta. E anche il pomeriggio del 31.12 dai divani di casa nostra con Stefania abbiamo fortemente voluto dare un segno. Lo slogan “Aiutateci ad aiutarvi. Così sarà un buon 2021” messo blu su bianco voleva essere un messaggio alla popolazione e tale è arrivato. Ci siamo tirati su le maniche, sempre. Gli infermieri vecchio stampo sono cresciuti così, infatti anche quando non siamo in Covid, il pensiero è sempre lo stesso, dobbiamo tornare a lavorare nelle nostre sale operatorie.

Stefania
Dal 17 marzo 2020, in piena pandemia da Coronavirus, il piano di emergenza regionale, ha indicato l’ospedale Magalini come Covid hospital. Questo significava che ogni risorsa della struttura andava dedicata all’assistenza di persone contagiate dal virus e che manifestavano la malattia. Il numero degli infetti stava esplodendo ovunque. E alla normalità fatta di tensione, velocità e adrenalina si aggiungeva l’anormalità o, meglio, l’eccezionalità della paura, dell’incertezza, della preoccupazione.
E non solo per noi, ma anche per i nostri famigliari e per le persone che venivano ricoverate, molte in condizioni disperate. Da quella data si sono occupati anche gli spazi di sala operatoria, compreso tutto il personale, è stato assegnato alla terapia intensiva Covid. Dell’ospedale che si conosceva era rimasto ben poco. Tutto si era trasformato. Noi, infermiere e infermieri, e Oss di sala operatoria pensavamo, in qualche modo, di essere pronti ad affrontare anche questa emergenza.
Con il Covid non è stato così. È stato diverso. Ci siamo dovuti reinventare, una trasformazione da “eroi” come qualcuno l’ha voluto definire. Ma non c’è niente di eroico nel fare il proprio lavoro con professionalità e umanità. Stiamo ancora affrontando cose non solo mai viste, ma nemmeno immaginate prima; lo stiamo facendo cercando sempre la massima sinergia e con responsabilità, sopportando una fatica fisica e psicologica mai sperimentata prima, sia per l’enorme carico di lavoro, che da un anno si protrae, sia per il disagio causato dai dispositivi di protezione individuale che ci hanno segnato il volto e oramai non sopportiamo più.

CHE COSA SIGNIFICA TORNARE ALLA NORMALITÀ?
Silvia
Respirare! Tornare a fare il mio lavoro, strumentare negli interventi chirurgici. Essere libera, avere facoltà di scegliere dove andare quando andare e cosa fare.

Lara
Tornare alla normalità significa aver fatto pace con la guerra che abbiamo affrontato, in cui abbiamo perso insieme a chi non ce l’ha fatta. Sarà normalità quando darò l’importanza che merita e che ci si aspetta da una festa di compleanno, da una ricorrenza… quando smetterò di dire ai miei figli “no… non possiamo…” E ancora… quando torneremo ad allestire la nostra sala operatoria, e quando ci sveglieranno nel cuore della notte per dirci di andare in ospedale perché c’è un bambino che ha fretta di nascere.

Stefania
Questo virus ha portato dei cambiamenti drammatici nella vita e quotidianità di tutti noi creando smarrimento e confusione, da qualsiasi punto di vista si voglia guardare. Credo che non torneremo più, o molto lentamente, alla vita del 2019: una volta perse certe libertà è difficile ripristinarle automaticamente. E anche tornare nel lavoro a quella normalità fatta di tensione, velocità e adrenalina non sarà così facile. Impossibile dimenticare i mesi di emergenza e i volti delle persone con la paura negli occhi che si abbandonavano alle nostre mani; i molti sconosciuti che non ce l’hanno fatta. E ferisce l’indifferenza e l’inconsapevolezza che accompagna molti fortunati che non hanno visto da vicino questo virus.

PERCHÉ UNA PENNA?
Silvia
“Sala Operatoria: sempre nel cuore”. La Sala operatoria è il mio mondo da 31 anni. Voglio ritornare a continuare a fare il mio lavoro come ho sempre fatto, con passione.

Lara
Da oltre un anno ci vestiamo, in modo tale da non far passare nemmeno l’alito di una formica dalla mascherina, dai guanti, dalla tuta, da tutti gli orpelli che ci fanno sentire come in un sarcofago. Nel momento della vestizione Covid non si parla, o si parla pochissimo.
Il Covid ci ha reso impersonali, siamo tutti uguali quando lavoriamo, perfettamente uguali. Siamo dei soldatini bianchi obbedienti, taciturni con in mano una penna che è la penna di tutti, tutte uguali, alcune senza tappo, altre scrivono poco, altre male, di solito sono così le penne dell’economato, impersonali come il Covid.
In sala operatoria è sempre stato molto diverso. Ognuno ha la propria penna, nel taschino. A malincuore la prestiamo a chi ce la chiede, se la perdiamo la cerchiamo finché non la troviamo. Ecco il perché di una penna, la penna della sala operatoria è il ritorno alle origini, il ritorno a casa.

Stefania
Noi della sala operatoria non ci siamo persi d’animo nel voler comunque mandare un messaggio positivo. Ecco allora che abbiamo pensato di realizzare delle coloratissime penne, un oggetto comune che tutti possono tenere sul tavolo, nella borsa o nel taschino della giacca. Penne alle quali abbiamo assegnato il nostro messaggio, “Sempre nel cuore”, che esprime la voglia di voltare pagina, di ripartenza e di ritorno alla “normalità” che speriamo per tutti che, con la vaccinazione, arrivi presto.

Il filo rosso che accomuna il vissuto di Stefania, Lara, Gessica, Silvia e che rappresenta il sentire di molti colleghi è il desiderio di ritrovare una normalità che si è perduta, una normalità che dava “sicurezza”.

Ma che cosa è la normalità in questo tempo e cosa sarà nel prossimo futuro? Si potrà parlare ancora di normalità? Come sarà la normalità?
Lo abbiamo chiesto al Prof Sandro Spinsanti, bioeticista.

Tornare a una “sana” vita precedente: un’esistenza attiva, anzi spesso sotto stress e carica di adrenalina, come può essere il lavoro in sala operatoria; il contrario di un’inerzia affogata nel benessere che per molti è sinonimo di una “bella vita”. È commovente ascoltare le aspirazioni delle infermiere che hanno deciso di dar voce ai loro sogni. Aspirano, come tutti, alla fine dell’incubo creato dalla pandemia. Per loro questo si è tradotto nell’essere espulse dal loro particolare paradiso terrestre, costituito – paradossalmente – dal lavoro molto esigente in sala operatoria. Che era anche, oltre che una gratificazione personale, un lavoro di alta professionalità. E sappiamo quanto è importante per gli infermieri essere considerati veri professionisti, e non “serventi”. Un’ascesa di qualificazione professionale particolarmente importante per superare i cliché sessisti che hanno condannato le donne alla subalternità. Dunque, il lavoro tosto in sala operatoria come sintesi del ritorno alla normalità.

Ma quale normalità?”, incalza la domanda dell’inchiesta. La si potrebbe intendere come la chiusura di una parentesi – in questo caso l’impegno in una struttura trasformata per assistere pazienti con covid 19 – e il ritorno puro e semplice a come si era in precedenza. Molte delle aspirazioni espresse vanno in questa direzione. È comprensibile e perfettamente legittimo: poter di nuovo scambiare abbracci, parlare in libertà, profilarsi come persone, fuori dallo scafandro o “sarcofago” in cui si è state costrette per evitare il contagio. Ma sullo sfondo non possiamo impedire che emerga il profilo di una diversa normalità. Non dunque semplicemente una “restitutio ad integrum”, come è il sogno di tutti noi quando ci capita di cadere malati (il “tornare come prima”, come sintesi di una guarigione avvenuta), ma piuttosto un cambiamento profondo che nasce dalla consapevolezza acquisita che la normalità precedente era difettosa. Ovvero che le cure – per esprimerci con il linguaggio della Slow Medicine – non erano “sobrie-rispettose-giuste” come avrebbero dovuto essere. E quindi introdurre cambiamenti per essere preparati per la prossima pandemia. Perché ci sarà: ce lo dicono gli epidemiologi, non perché sono dei menagramo, ma perché conoscono il turbamento che abbiamo incoscientemente introdotto nella biosfera con uno sfruttamento irresponsabile. Il nostro sistema sanitario pubblico dovrà essere diverso. Il confinamento degli anziani nelle residenze non dovrà più essere realizzato come un’esclusione dalla società di coloro che, non essendo più utili, sono considerato un peso.

Una diversa normalità: è questo il sogno delle persone che hanno acquisito consapevolezza. Un ruolo di primo piano in questo scenario ha acquisito papa Francesco, ascoltato tanto in ambito religioso che laico. Non finiamo di passarci dall’uno all’altro la sua frase più incisiva: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendosi in noi stessi”. E magari scrivere questo ammonimento, per non dimenticarlo, con l’inchiostro delle penne che recano la scritta: “Sempre nel cuore”.

Marina Vanzetta
26 MARZO 2021

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