Buona giornata, infermiere



Angelo Garda
Albatros, Roma, 2020
Pagine 165

Conosco Angelo da almeno 20 anni. Non benissimo, ma quel tanto per stimarlo come bravo infermiere di area critica e appassionato formatore sui temi dell’emergenza-urgenza. Non sapevo che scrivesse, e che scrivesse così bene.
Buona giornata, infermiere è il suo primo romanzo, dichiaratamente in larga parte autobiografico. Il protagonista, Angelo, si confonde con l’autore omonimo (e per chi ha conosciuto il secondo è impossibile non dare all’Angelo-protagonista il volto dell’Angelo-autore).
Nel romanzo sono descritte le vicende lavorative e personali di un infermiere di area critica. Ogni giorno, Angelo, tra le mura dell’ospedale, porta la sua professionalità e la sua persona; non si prende cura solo del corpo dei suoi pazienti ma anche della loro anima. E anche quando lo assalgono i dubbi e le preoccupazioni, Angelo non può fare a meno di essere quello che è, non può fare a meno di parlare con i suoi pazienti, anche con quelli che apparentemente non possono sentirlo, di stare vicino ai suoi colleghi più fragili, di insegnare ad altri tutto quello che sa e di imparare sempre qualcosa.
Il romanzo è scritto bene, ha ritmo e contenuti. Non vivo la nostra professione sul campo da tanti anni, ma questo libro mi ha fatto sentire orgoglioso di esserlo. Non è mai banale anche quando parla di una quotidianità che appare sempre credibile proprio perché palesemente vissuta in prima persona.
L’immagine dell’acquario della copertina, ripresa e chiarita nel testo, è evocativa e – come si scopre nell’ultimo capitolo – non è giocata solo sul piano attivo e riflessivo, ma anche su quello passivo, dando un valore e consistenza all’usurata parola “empatia”.
La narrazione passa dai diversi contesti di vita di Angelo: la terapia intensiva cardio-coronarica, il volontariato sull’ambulanza, il servizio in elisoccorso, gli incontri di formazione dell’Italian Resuscitation Council e la vita quotidiana. E quest’ultimo il contesto del racconto che mi ha colpito di più. Sia in servizio che a casa, la vita quotidiana di Angelo è densa di pensiero, di riflessioni su di sé, sul proprio lavoro, sui suoi pazienti, dichiarati in un capitolo “gli attori principali”. Non c’è una pagina del libro che non richiami l’appartenenza di Angelo al mondo infermieristico. Angelo non “fa” l’infermiere; Angelo “è” un infermiere, con tutto il peso e le conseguenze che questa distinzione comporta.
Non è un infermiere perfetto, ma un bravo infermiere. Parla con i pazienti sedati e con parenti preoccupati e ad entrambi chiede di “aiutarci ad aiutarvi” (p. 89); cerca di trattare tutti con equità, ma si affeziona solo ad alcuni pazienti. A tutti, quando non sbaglia, cerca di dare conforto e un sorriso, perché, come scrive: “Il sorriso di un paziente non ha prezzo” (p. 115).
Ma non pensiate che sia un libro sdolcinato. Tutt’altro. L’Angelo-autore, nella Premessa, ci avverte che ha “iniziato a scrivere in un momento di sconforto” nel quale “le parole fluivano solamente nel PC per la necessità di comprendere cosa aveva messo in crisi l’infermiere che conoscevo e che si stava perdendo”.
Il peso dei pensieri di Angelo è pervasivo, intransigente, oppressivo, a tratti angosciante. In un capitolo titolato significativamente “Sensibilità o Vulnerabilità” leggiamo: “Come è diventato difficile lavorare in ospedale, cosa mi sta succedendo, da dove arriva tutta questa mia sensibilità, ma soprattutto dove mi porterà? Penso che devo escludere quella parte di me che sta pensando troppo, mi fa male e mi rende troppo vulnerabile, non posso permettermi di andare in crisi, con questo lavoro devo viverci fino alla pensione, ammesso di arrivarci” (p. 110).
Leggendo questo capitolo mi sono venuti in mente gli autori che parlano dell’insostituibile strumento che è la persona dell’curante nelle attività di cura. Non c’è cura senza compromissione personale, ma questo richiede all’infermiere raffinate capacità riflessive ed etiche e una grande motivazione, per poter resistere.
La tentazione del “non pensare per non soffrire” è comprensibile e tipica delle situazioni estreme, come spesso lo sono le situazioni cliniche dell’area critica. Grandi filosofe hanno approfondito questi aspetti: Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt, Roberta De Monticelli, per citarne solo alcune. In quella che è stata definita la “lettera dell’attenzione”, Etty Hillesum – una giovane ebrea deportata in un campo di smistamento nazista – descrive il pensiero comune a molti sui compagni di sventura: “Lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni: non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile. E questo mi sembra molto pericoloso” (Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 1990, pp. 42-45). Il rischio del non pensare è quello di “non sentire”, il peccato è quello “della rimozione”, dell’insensibilità morale e dell’ignavia del male.
Il lavoro di cura ha un ineludibile nocciolo etico perché richiede al curante una compromissione personale, che è sostanzialmente fatta di emozioni, sentimenti e pensieri che sostanziano le decisioni etiche dei clinici. Ma questo richiede al curante di acconsentire di discendere nei pozzi della propria anima, che Hillesum chiama i “pozzi della nostra miseria”.
In questo l’Angelo-autore è durissimo: i suoi pensieri non nascondono nulla del peso di questo lavoro; è onesto fino in fondo nel descriverne le fatiche e le angosce, i limiti dell’organizzazione e della formazione, che spesso non sono in grado di aiutare gli infermieri clinici come dovrebbero e potrebbero. Ma anche corretto nel far intuire che forse nemmeno sarebbe possibile evitare del tutto questa sofferenza perché, come detto, è un lavoro che rende vulnerabili perché richiede sensibilità e riflessività.
“Caring is costing morally”, dicono i sacri autori… e questo Angelo ce lo ha reso evidente.
Spero che questo libro abbia successo, anche fuori dei confini professionali. Spero che questi anni passati sul campo di battaglia della clinica, e su quello dei suoi pensieri, rendano ad Angelo il merito e il conforto di sapere di aver lasciato una piccola, importante testimonianza del lavoro dell’infermiere – che non è davvero un lavoro come gli altri. E vorrei che questa testimonianza raggiungesse molti colleghi, giovani ed anziani, che sotto il peso della cura vivono la tentazione di voler smettere di pensare, per non soffrire.

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