Frammenti di quotidiana assistenza


In questo testo, Angela Sorace, partendo dalla sua prima esperienza accanto a una persona malata racconta, con un preciso intento di condivisione, le sensazioni e le emozioni che hanno accompagnato giorno per giorno ogni gesto di cura.
L’autrice avverte da subito il lettore che con il suo scritto non vuole dire nulla che non sia già stato detto, analizzato, discusso e approfondito in molte occasioni e in diversi contesti da chi magari ha competenze specifiche per farlo. Non intende nemmeno fare inferenze su tematiche così difficili come quelle dell’assistere, soprattutto in alcune circostanze, in cui gli interrogativi sul “senso del fare o del continuare a fare” emergono prepotentemente più che in altre, e generano in chi assiste dubbi, disagio, riflessioni, inquietudini e spesso anche frustrazione.
Vuole piuttosto esprimere la relazione tra “… ciò che è necessario fare e lo “stato d’animo” con il quale ogni professionista è chiamato a operare accanto a chi combatte una durissima e spesso impari battaglia con la malattia …” (pag. 8).
Narrando la storia della signora Clotilde affetta da neoplasia del seno e assistita a domicilio, l’autrice evidenzia come la relazione faciliti l’attenzione verso l’altro e quindi una presa in carico vera e come, aggiunga se buona o tolga quando non adeguata, valore ad ogni gesto tecnico. Questo, anche e soprattutto, nei casi in cui la guarigione è improbabile. Ecco una delle riflessioni dell’autrice:
Noi operatori sanitari abbiamo un’enorme responsabilità, non limitata soltanto a fare diagnosi infermieristiche, somministrare terapie, alleviare sofferenze; alla nostra professione si innesca un compito ulteriore, un potere, che spesso non viene preso nella giusta considerazione non per superficialità o noncuranza, ma perché è radicata in noi l’idea che come sostenitori della salute il nostro campo d’azione è limitato e circoscritto soltanto alla vita. Capita spesso purtroppo di avere in reparto un paziente in fase terminale e non sentirsi in grado di relazionarsi con lui soprattutto quando lui è consapevole del suo stato …” (pag. 61).

Angela Sorace
Viaggiando verso Ovest
Edizioni Simple – Agosto 2011
€11,50 acquistabile anche online all’indirizzo www.edizionisimple.it
Le royalties del libro verrà devoluto all’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro

 

Lucia Fontanella, docente di Didattica dell’italiano all’Università di Torino racconta la sua esperienza in ospedale, dove vive  direttamente la condizione di diseguaglianza dei rapporti. Da questo e con la sua osservazione del mondo sanitario, pone l’attenzione sui modi di essere delle persone regalando al lettore oltre alle sue riflessioni linguistiche, una diversa chiave di lettura della comunicazione in alcuni ambiti in particolare.
Ma perché comunicazione diseguale?
“… I linguisti la chiamano comunicazione diseguale. Si trova soprattutto in certi ambienti: l'ospedale, la scuola, il tribunale. Ma anche in tante famiglie in cui le cose non vanno come dovrebbero. Diseguale perché in quegli ambienti le persone non hanno lo stesso potere, e tutto ciò che accade ne risente. Anche quello che viene detto. E fatto…” (pag. 7).
L’autrice sottolinea come, a caratterizzare questo tipo di comunicazione, sia uno sbilanciamento nel possesso dello spazio, del tempo e della lingua. Sono molti gli spunti di riflessione che offre in ogni pagina di questo suo breve saggio sulla comunicazione. Altrettanto numerose sono le domande o le affermazioni che aprono ogni passaggio spalancando le porte alle molte considerazioni possibili. Eccone alcune: Di chi è l’ospedale? Curare le persone o le malattie? Attenzione ai modi di dire. Tutto, davvero tutto, è comunicativo. Informare: come, quando, quanto, perché. A volte non basta informare, occorre anche motivare. Siamo tutti piuttosto diversi, e tutti piuttosto fragili. Parlare semplice. (dall’indice)
E sul parlare semplice fa delle interessanti osservazioni: “… Essere capiti in ospedale (e in particolare in terapia intensiva) è fondamentale. Lo sappiamo. Ma magari pochi riflettono sul fatto che proprio in ospedale si ha l’abitudine di usare parole che pochi, davvero pochi, in Italia sentono, abitualmente, leggono e ancora meno usano.
Diagnosi e prognosi non possono neanche essere fraintese. Non si capiscono e basta, come succede alla gran parte di tecnicismi che arrivano dal greco.
La prognosi infausta non spaventa troppo, perché o non si capisce o si pensa a un possibile Fausto che, chissà cosa centra, magari un turno in reparto.

Ogni tanto la prognosi si scioglie, dunque ci si orienta a pensare che sia qualcosa di materiale perché siamo abituati a veder sciogliere i gelati, il sale nell’acqua o altro ancora. Che stazionario voglia dire che si sta come il giorno prima, nulla lo lascia pensare. Sforzandosi alcuni potrebbero ricollegarlo a stazione ma farebbero male. Il consiglio è di dire che il paziente sta come il giorno prima, e se poi si ha la didattica nel sangue si potrebbe aggiungere “cioè stazionario”.
Le patologie, le terapie, le stabilizzazioni, le acuzie (forse al primo posto per incomprensibilità) non sono un iceberg in un mare di trasparenza linguistica. Sono, in compagnia di tanti altri, chicchi di grandine sulla testa dei malcapitati che non capiscono
…” (pagg.28 e 29).

Lucia Fontanella
La comunicazione diseguale
Il Pensiero Scientifico Editore – Febbraio 2011
€10 – Le royalties del volume verranno devolute al Reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino.


Marina Vanzetta

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