Infermiere e paziente, un rapporto da "curare"


Sono segnali. Sarebbe un errore ignorarli o sottovalutarli. Così come, probabilmente, considerarli del tutto scollegati tra loro.

Un primo segnale è arrivato lo scorso dicembre, quando Cittadinanzattiva presentò il suo annuale Rapporto Pit Salute. Tra i numerosi dati di quel documento, quello sull'umanizzazione dei rapporti tra gli operatori sanitari e i cittadini si rivelò piuttosto preoccupante. Nei 14 anni di Pit Salute, sottolineava il documento, il tema dell’umanizzazione delle cure ha registrato un trend sostanzialmente stabile, attestandosi all'8% delle segnalazioni dei cittadini, con una crescita molto modesta dal 2006, pari al +1% (9% nel 2009). In pratica, nessun miglioramento davvero significativo.

«La mancata umanizzazione – spiega il Rapporto – è scambiare il nome di un paziente con un numero di un letto, è passare velocemente vicino al dolore di una persona e non accorgersi che sta soffrendo, è dire la parola sbagliata nel momento sbagliato, è soprattutto non fare quel gesto di attenzione che andrebbe fatto».

Tra gli aspetti negativi considerati nel documento, il più segnalato è stato l'incuria (49% nel 2009, +5% circa rispetto al 2008 e alla media dei 14 anni), intesa come mancanza di attenzione e "cura" verso le persone assistite, non lavate o cambiate in modo inadeguato, non aiutate ad alzarsi dal letto o a muoversi per evitare lesioni da pressione. Altrettanto numerose sono state le segnalazioni di comportamenti inadeguati del personale, come poca pazienza e frasi poco garbate (40,6% nel 2009, +1,1% rispetto al 2008 e +2,4% rispetto alla media 1996-2009). Anche in questa edizione del Rapporto come in quelle passate, questi comportamenti negativi sono largamente appannaggio dei medici e solo ben distanziati risultano gli infermieri. Ma – ecco il segnale che ci interessa e preoccupa – mentre la tendenza per i primi è in diminuzione, per gli infermieri appare in aumento.

Il secondo segnale è più recente. A giugno 2011 il Censis ha organizzato Un mese di sociale (giunto alla ventitreesima edizione), nell'ambito del quale si è svolto un incontro sul tema Fenomenologia di una crisi antropologica. La crescente sregolazione delle pulsioni. Ebbene, sostiene l'Istituto presieduto da Giuseppe De Rita, «siamo una società in cui sono sempre più deboli i riferimenti valoriali e gli ideali comuni, in cui è più fragile la consistenza dei legami e delle relazioni sociali. In questa indeterminatezza diffusa crescono comportamenti spiegabili come l’effetto di una pervasiva sregolazione delle pulsioni, risultato della perdita di molti dei riferimenti normativi che fanno da guida ai comportamenti. È il depotenziamento della legge, del padre, del dettato religioso, della coscienza, della stessa autoregolamentazione».

Considerazioni sostenute dai numeri di un'indagine appena realizzata dallo stesso Censis: per esempio, l’85,5% degli italiani ritiene di essere l'unico arbitro dei propri comportamenti; il 48,6%, (che sale al 61,3% tra chi vive nelle grandi città) crede che, quando è necessario, bisogna difendersi da sé anche con le cattive maniere; il 46,4% pensa che per raggiungere i propri fini bisogna accettare i compromessi. Quella che il Censis definisce «caduta dei filtri sociali» è testimoniata anche dall'aumento delle forme di violenza in cui è forte la componente «pulsionale» della perdita di controllo e dell’aggressività: tra il 2004 e il 2009 le minacce e le ingiurie sono aumentate del 35,3%, le lesioni e le percosse del 26,5%, i reati sessuali sono passati da 4.454 a 5.625 (+26,3%).

Si può aggiungere che, se in generale diminuisce il consumo di sostanze stupefacenti (tra il 2008 e il 2009 i consumatori sono calati del 25,7%, passando da 3,9 milioni a 2,9 milioni circa), aumentano invece le persone prese in carico nei Sert per dipendenza da cocaina (+2,5%). E sono in crescita anche i giovani consumatori a rischio di bevande alcoliche, passati dal 14,9% del 2009 al 16,6% del 2010 nella fascia di 18-24 anni. E poi un altro significativo segnale di disagio: le dosi giornaliere di antidepressivi consumate nel nostro Paese sono più che raddoppiate dal 2001 al 2009, passando da 16,2 a 34,7 per 1.000 persone (+114,2%).

Insomma, sembrerebbe proprio che, complessivamente, gli italiani stiano diventando sempre più aggressivi, meno disponibili verso il prossimo, più inclini ad autoassolversi per comportamenti “sconvenienti”.

A questo punto si inserisce un terzo elemento, probabilmente decisivo nel contributo al deprecabile segnale di deterioramento del rapporto tra paziente e infermiere. Se è vero infatti che di “emergenza infermieristica” non è più il caso di parlare, è altrettanto vero che il problema della carenza non è risolto. Come ben sappiamo, sono ancora diffuse le situazioni nelle quali organici ridotti al minimo determinano, a loro volta, sovraccarichi di lavoro e disservizi. E non è difficile intuire che simili situazioni possano determinare “attriti” non solo tra gli operatori sanitari ma anche tra e con i pazienti. Poiché però, molto spesso queste situazioni sono determinate dalla scelta di conservare modelli organizzativi ormai obsoleti, invece che puntare su soluzioni che valorizzino il ruolo degli infermieri nel sistema, almeno un suggerimento lo si può dare: che sia riconosciuta la centralità delle competenze infermieristiche nel rispondere ai bisogni del cittadino sia sul territorio, sia in ospedale e ovunque è richiesta la presenza dell'infermiere. Perché non c'è dubbio che condizioni di lavoro meno gravose e più gratificanti potrebbero ridurre l'insoddisfazione (e anche l'aggressività) sia degli operatori sia dei pazienti.

Con un altrettanto indubitabile recupero di quell’umanizzazione dei rapporti tra paziente e infermiere che altrimenti rischia di entrare in crisi.

STAMPA L'ARTICOLO