La sanità italiana è donna


Uno degli stereotipi più diffusi in ambito socio-sanitario vuole che l’assistenza sia femminile e la cura sia maschile. Finora questa non è stata solo una convinzione diffusa, bensì una realtà numerica, ma dobbiamo prepararci al cambiamento, anche in questo ambito. Una recente e autorevole ricerca, promossa dal ministero della Salute e presentata pubblicamente l’8 marzo, rivoluziona i rapporti numerici tra le professioni, di conseguenza impone ripensamenti sugli scenari futuri del Ssn.

Nel nostro Paese oggi la sanità è donna: la presenza femminile raggiunge infatti il 63,41% circa nel 2009, manifestando una crescita tendenzialmente costante rispetto al 2001, anno in cui rappresentava il 59,08% del personale. In questo periodo le donne hanno superato in presenza i colleghi uomini in tutte le fasce di età, ad eccezione della più alta. I professionisti sanitari uomini sono in numero maggiore solo nella fascia di ultra 65enni, mentre al di sotto dei 45 anni il rapporto numerico sembra stabilizzarsi in 3 donne per ogni uomo impiegato. Questa preponderanza delle donne non è più circoscritta a categorie storicamente femminili, come nella professione infermieristica, ma inizia a incidere anche sui ruoli apicali: dal 2001 sono quasi raddoppiati i direttori generali donna (da 89 a 163), mentre i medici in camice rosa nominati da concorso hanno nettamente sorpassato gli uomini, spostandosi dal 42% al 55%.

Guardando alla composizione delle singole famiglie professionali, si riscontra un 37% di medici donne nel Ssn (erano il 30% nel 2005) e un 77% di infermiere. Gli uomini perdono terreno in quei settori da sempre loro, per entrare invece in quelli a storica dominanza femminile, ovvero al fianco di ostetriche e infermiere. In particolare si riscontra un’inversione di tendenza storicamente e culturalmente rilevante: le donne escono dai settori di specializzazione da sempre più femminili (pediatria, ginecologia, psichiatria, psicologia) per inserirsi in ambiti storicamente considerati d’appannaggio maschile, come la chirurgia e la radiologia. In parallelo gli uomini della sanità (medici e infermieri) si collocano preferibilmente in urgenza, strumentazione, tecnologia.

Il sorpasso si registra anche nella dirigenza sanitaria non medica: farmacisti, biologi e psicologi donna sono oltre il 70%, mentre i posti di dirigente medico di struttura complessa sono assegnati a una donna 1 volta su 10.

Con le donne si cambia
In una sanità che sta evolvendosi, orientata al lavoro di équipe e alla presa in carico globale della persona, la diversa presenza femminile potrà portare contributi appropriati in tali direzioni? Il Ministro della Salute Fazio ne è convinto: “Nell’indagine mi ha favorevolmente colpito che buona parte delle intervistate sostiene che l’atout delle donne in sanità non è comportarsi come i maschi, ma applicare alla medicina le proprie caratteristiche specifiche, come la tenacia, l’intuito, la capacità di relazione”.

La bioetica se n’è accorta già da anni: ha tracciato infatti un modello di genere, femminile e maschile, che differenzia nell’uno rispetto all’altro lo sviluppo di relazioni, la gestione dei gruppi, la conduzione di imprese, in generale, insomma, in tutti quei ruoli strategici improntati fino ad oggi al maschile.
In particolare in ambito sanitario, le risorse di genere femminili risulterebbero più congeniali ed in sintonia, anzi strategiche per allargare i confini del modello biomedico fino ad oggi imperante, per procedere verso gli aspetti psicologici e sociali dello star bene.

Abbiamo quindi oggi disponibile un modello maschile e uno femminile di interpretazione del ruolo. Le tredici esponenti femminili del mondo della sanità protagoniste di questa ricerca qualitativa, tra cui la nostra Presidente Annalisa Silvestro, ne sono convinte: il femminile in sanità apporta principalmente la capacità organizzativa e di sistematizzazione, la qualità relazionale nei rapporti col paziente e gli operatori, l’efficacia nel lavoro di gruppo e nella gestione delle reti di relazioni, la mediazione tra posizioni differenti, la competenza comunicativa.

La capacità di organizzazione e gestione delle donne viene collegata ad un patrimonio storico del genere femminile, che le mette in grado di occuparsi parallelamente di più funzioni e si esprime soprattutto nella visione d’insieme, nella creazione di reti di rapporti, nella rapidità di reazione e nella gestione dell’imprevisto, nella capacità analitica che fa essere le donne metodiche e pragmatiche.

Le testimonial si raccontano
Tra gli aspetti emersi dalle interviste vi sono considerazioni relative alle capacità organizzative. A partire dalle proprie esperienze, l’ipotesi delle intervistate è che la donna possa contribuire in maniera significativa all’organizzazione e gestione della complessità del mondo sanitario, con ricadute utili verso l’efficienza e l’efficacia dei processi.

Una particolare attenzione è rivolta dalle donne ai rapporti nel team di lavoro, con attenzione, tempo e investimenti dedicati ai collaboratori e colleghi. Se a ciò si unisce un’altra caratteristica, ovvero una capacità di mediazione spiccata, si comprende il successo che sta riscuotendo il modello di direzione femminile: nella sanità italiana è di grande aiuto la capacità di armonizzare tra posizioni differenti senza esasperare, evitando gli scontri e anzi riconducendo al dialogo; l’inclusione delle emozioni nella propria esperienza quotidiana di conduzione di gruppi e strategie di impresa, così necessaria per ri-orientare i team di lavoro alla centralità della persona nei processi di cura.

L’area della gestione di relazioni è ritenuta da buona parte del campione di indagine quella in cui si gioca in modo più spiccato la specificità di genere, che si esprime anche nel rapporto coi pazienti e coi familiari. In particolare con gli assistiti la donna dimostra una spiccata resistenza psicologica, che la mette in grado di cogliere gli aspetti emozionali e accogliere la sofferenza, diminuendo la distanza e sostenendo la continuità di rapporto. Si pensi all’importanza di tale attitudine in alcuni setting specifici, sia clinici (es. comunicazione di diagnosi difficili) sia organizzativi (es. comunicazione del trasferimento ad altro settore di lavoro per necessità aziendali).

Tutti questi aspetti, uniti alla riduzione progressiva del numero dei medici in Italia, offrirà sfide nuove e importanti per le donne che operano nei servizi socio-sanitari, ma in fondo anche per tutta la società.
Ripensare servizi per la salute al femminile? Siamo pronte.
 


Approfondimenti

Per un’etica femminista
Nell’ambito dell’etica femminista, Carol Ghilligan e Virginia Held, tra le altre, hanno avuto largo seguito anche in Italia dopo la traduzione dei loro libri: Con voce di donna (Ghilligan, 1991) e Bioetica femminista (Held, 1997).
Ghilligan, allieva di Kohlberg, sostiene la tesi della diversità dell’etica femminile da quella maschile: la prima è fondata sulla cura, sulla responsabilità, la comunicazione, le relazioni interpersonali, mentre quella maschile risulta maggiormente improntata dalla razionalità astratta, dalla giustizia impersonale, che si astrae dal reale contesto interpersonale.

Held indica che le donne ordinano l’esperienza umana in base a priorità diverse da quelle dell’uomo. “Una moralità intesa come cura degli altri pone al centro dello sviluppo morale la comprensione della responsabilità e dei rapporti, mentre una moralità intesa come equità lega lo sviluppo morale alla comprensione dei diritti e delle norme”:
(www.unisi.it/ricerca/philab/20047dida.fil.mor04.htm).
L’autrice sostiene inoltre che nelle società impostate dal maschile le relazioni tra persone finiscano per essere esclusivamente strumentali e conflittuali: in tal modo la vita delle comunità si caratterizza per rapporti competitivi e di dominio. Invece, sostiene Held, rapporti conflittuali e competitivi sono inaccettabili per stabilire la fiducia sociale su cui devono poggiare le istituzioni pubbliche e per favorire i legami fondati sulla cura, l’amicizia e l’amore.

C. Ghillingan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano, 1991
V. Held, Bioetica femminista, Feltrinelli, Milano, 1997

Cala il numero dei medici
In Italia ci sono meno medici: dal 2002 al 2007, tra generici e specializzandi, si è passati da 616 a 363 camici bianchi per centomila abitanti. A dirlo è un'analisi condotta dal Centro elaborazione dati (Ced) della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), che ha preso in esame i dati di diverse fonti: Istat, Indagine sulle forze di lavoro, Eurostat, Public health. "La riduzione del numero dei medici – spiega il dottor Gabriele Peperone, segretario della Fnomceo – è da collegare all'introduzione del numero chiuso nelle facoltà di medicina. Inoltre bisogna considerare che oggi il 28% degli iscritti non arriva alla laurea. A conseguire il titolo di studio sono più le donne e questo spiega anche la carenza di iscritti alle facoltà di chirurgia e ortopedia".

Le regioni del Nord, a eccezione dell'Emilia-Romagna e della Liguria, avevano già nel 2002 una dotazione inferiore a quella media nazionale e nel 2007 presentano valori anche minori di 300. Il Centro, al contrario, parte da dotazioni molto elevate e a tutt'oggi presenta l'offerta maggiore, dovuta soprattutto al contributo del Lazio, con 511,1 medici per centomila abitanti.

Numeri significativi si osservano anche in Umbria e Toscana. Infine il Mezzogiorno presenta un'offerta di camici bianchi che si aggira intorno alla media nazionale, ma con valori piuttosto diversi nelle singole regioni. La Basilicata mostra un andamento che si allinea con quello delle regioni settentrionali, con valori contenuti nel 2002 che si riducono sensibilmente nel 2007 attestandosi su 207,3 medici per centomila abitanti. La Sicilia, al contrario, dimostra una certa inerzia rispetto agli orientamenti che prevalgono a livello nazionale e nel 2007 dispone ancora di 425 medici ogni centomila abitanti.

Tra i Paesi comunitari il primo posto spetta al Belgio, che ha 401,6 medici ogni centomila abitanti, seguito dall'Austria e dalla Lituania (con valori rispettivamente pari a 374,2 e 371,1). I valori più bassi si registrano in Polonia (219,1) e Romania (222,0).

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