Il gesto di cura come atto di resistenza nell’era della tecnologia


Il gesto, nell’umano, non è solo un’azione che lo identifica, ma anche un segno distintivo che richiede comprensione da parte di chi lo osserva. A differenza dell’azione, che appartiene al mondo esterno, il gesto è intrinsecamente legato al senso dell’esistenza dell’individuo, al suo progetto e al contesto che lo circonda. Non si limita alla sua manifestazione fisica; inaugura un significato, al contrario dell’azione che è definita, compiuta, conclusa. Come sostiene Zambrano “Il gesto possiede ragione e intenzionalità”, quindi non è mai neutro ma sempre carico di significato, indipendentemente dalla forma in cui si manifesta.
Nella pratica della cura, ogni gesto assume una funzione emblematica, intrecciandosi con la delicatezza dell’anima e la precisione della scienza. Ogni tocco, ogni movimento, è infatti un linguaggio silenzioso che comunica, ed è pregno di significato.
Nell’era in cui la tecnologia domina ogni aspetto della nostra esistenza, il gesto di cura assume un senso ancora più profondo e necessario. Viviamo in un mondo in cui la velocità dell’innovazione sembra superare la capacità umana di assimilare e adattarsi, eppure, paradossalmente, la nostra necessità di connessione e di cura non è mai stata così urgente. Le interazioni umane sono spesso filtrate attraverso schermi e algoritmi, rischiando di perdere quella dimensione di autenticità e presenza che solo il contatto diretto può offrire.
In questo contesto, il gesto di cura diventa un atto di resistenza contro la fredda razionalità tecnologica. È un richiamo alla nostra essenza, alla nostra capacità di provare compassione e di connetterci profondamente con gli altri. È nei momenti in cui il gesto si esprime che ritroviamo la nostra umanità, ricordando che siamo esseri sociali, fatti per relazionarci e per prenderci cura l’uno dell’altro. Martin Buber afferma: “Tutto il vivere reale è incontro”, sottolineando l’importanza delle relazioni autentiche e del contatto umano, che si manifestano attraverso gesti di cura. È un promemoria che anche nei gesti più semplici può risiedere un significato profondo e trasformativo. Nelle cure infermieristiche il gesto si manifesta in ogni atto che ha l’intenzione di procurare benessere, dal più semplice tocco al più complesso apparato di prestazioni, in un incontro con il corpo dell’altro che manifesta i segni della malattia e della sofferenza. Il gesto si pone come agente di cura che solleva la dignità dell’uomo.

La cura come forma di ribellione
In un’epoca in cui la produttività è sovrana e il tempo è misurato in termini di rendimento, prendersi cura degli altri può essere visto come un atto di ribellione. È un modo per affermare che il valore della vita non può essere ridotto a meri numeri o algoritmi. In questo scenario si fa strada l’idea di cura come atto che talvolta pare andare “in direzione ostinata e contraria”, ma la cui espressione – nobilitata dai gesti – diventa, in questo un mondo sempre più meccanizzato, un faro che guida l’uomo verso una maggiore consapevolezza di sé e in connessione con gli altri.

Tecnologia e cura: una convivenza possibile?
La tecnologia non è però nemica della cura, anzi, se usata con saggezza, può diventare un viatico per coltivare i nostri gesti. Le innovazioni nel campo della telemedicina, per esempio, hanno permesso a molte persone di ricevere cure necessarie anche in situazioni di isolamento. Tuttavia, è essenziale che queste tecnologie non sostituiscano, ma piuttosto siano strumenti che, se utilizzati come mezzi e non come “fine” lasciano spazio e tempo al contatto umano.
Il futuro della cura nell’era tecnologica dipenderà dalla nostra capacità di integrare queste due dimensioni. Come si legge in Quel che resta del giorno: “Che cos’è la dignità? La dignità ha a che fare in modo cruciale con l’abilità di un maggiordomo di non abbandonare l’essere professionale che abita”. È un invito a mantenere la nostra umanità anche quando interagiamo con le macchine, a infondere i nostri gesti di cura con quell’attenzione e presenza autentica che Mortari definisce essenziale per la pratica di cura.
Il gesto di cura è dunque un richiamo alla nostra natura più profonda, un invito a non perdere di vista ciò che ci rende veramente umani. In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, la cura resta il nostro più grande baluardo contro la disumanizzazione, un gesto che ci ricorda che, al di là delle macchine, siamo curanti capaci di lasciare un solco nell’esperienza di malattia delle persone.
Un solco che cura e rimane nella memoria.

Fonti:
– Arendt, Hannah, La condizione umana, 1958.
– Buber, Martin, Il principio dialogico, 1923.
– Ishiguro, Kazuo, Quel che resta del giorno, 1989.
– Mortari, Luigia, La pratica dell’aver cura, 2006.
– Zambrano, Maria, Chiari del bosco, 2016.

18 luglio 2024

STAMPA L'ARTICOLO