Cura a Salve…


Munizioni, fucili, soldati, guerra, frontiera, trincea! Tanto come infermiere quanto come credente, sono profondamente infastidito da questa ossessionante semantica che assimila mortalmente la cura con la guerra. Un passaggio dell’intervista rilasciata nei giorni scorsi dal direttore di una RSA vicentina ne rappresenta la specie: “ Lo stato ci fornisce fucili e munizioni, ma ci porta via i soldati ”, riferendosi all’esodo degli infermieri dal privato al pubblico, spinti da una maggiore retribuzione e solidità contrattuale. Mai che a qualcuno venga in mente di partorire metafore più affini all’atto della cura. Che so, si potrebbe parlare di abbondanza di semi, concime e fertilizzante a fronte di una carenza di giardinieri, per esempio!
Quando ho scelto la professione infermieristica mi sono iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia ed ho fatto, per quasi 4 anni, la spola tra Università ed ospedale. Non mi sono arruolato, alternando periodi di esercitazione ad altri di guerra né ho trasferito la mia residenza in una caserma.
Ho scelto di studiare come funziona, si ammala, guarisce e qualche volta muore una persona. Ma soprattutto come si percorre, si rispetta e si ama il perimetro di un letto e l’anima di chi lo occupa. Non ho studiato tecniche di guerriglia, non mi sono esercitato in nessun poligono, ne ho appreso le strategie militari. Diventare un buon soldato non è mai stata una mia aspirazione. Dunque mi pesa enormemente anche l’esser considerato un eroe.
Ho invece cercato di misurare il dolore altrui ascoltando e dando credito a percezioni e vissuti personali, più che inseguendo diagnosi e storie cliniche (di cui mai ho ignorato l’importanza complementare). Ho imparato nomi, gusti ed abitudini facendo sì che queste varianti umane avessero sempre la precedenza su patologie, numeri di letto ed esami diagnostici.
Ho spesso trovato addirittura conforto nei pazienti, che mai ho considerato “clienti”, e nella loro disponibilità ad ascoltare i miei dolori. Ho condiviso letture, risate, pianti ed ultimi respiri al cospetto di moribondi, che mai ho considerato “terminali”.
La cura ricevuta ed offerta, quella scambiata come dono reciproco, ha guarito qualche paziente, talvolta me ed in altri casi addirittura entrambi i soggetti delle cura. Da alcune interazioni sono scaturite amicizie, scambi in famiglia, inviti a cena e germogli d’innamoramento!

Cosa c’entra tutto questo con la guerra?
Invito chiunque a riflettere sull’inopportunità di assimilare la guerra e la cura, invito soprattutto chi ha la delicata funzione di fare politica, cultura e informazione a rinunciare alla tentazione sensazionalista di confondere la polvere da sparo con le carezze, i fucili con i sorrisi, i bombardamenti con le notti insonni ed i soldati con le infermiere e gli infermieri.
Ciascuno di noi è anche, se non soprattutto, rappresentato dalle parole che usa perché queste nel tempo diventano convinzioni che, rapidamente, radicano le azioni e compongono i destini di pace o di guerra (ecco perché a sei mesi un bambino può annegare mentre sua madre cerca una sponda), di cura o di profitto (ecco perché “azienda ospedaliera” diventa un ossimoro), di sviluppo e ricerca o di tagli e privatizzazioni (ecco perché un virus può mettere in ginocchio una nazione).
Ad onor del vero, non è la prima volta che la storia inciampa e confonde la guerra con ciò che gli è più dissimile. Dio e le sue vie ne sono il più celebre esempio, infatti la miopia umana è riuscita a vedere il creatore alla guida di un carrarmato, sino a spingere molti dei suoi ministri a benedire massacri, sino a produrre il più inossidabile degli ossimori; “la guerra santa”.
Per piacere, nella misura in cui ciò vi è possibile, fate il massimo sforzo umano, civico e culturale. Lasciate Dio e la cura lontani dal lessico bellico.

23 dicembre 2020

STAMPA L'ARTICOLO