È l’ora indifferibile delle specializzazioni: fare solo numero non fa qualità


La pandemia ci ha fatto ragionare su alcuni principi della nostra professione. D’altra parte, era impossibile che ciò che abbiamo vissuto e stiamo vivendo e che non dimenticheremo mai, non ci abbia insegnato nulla.
Dobbiamo costruire un futuro, ma anche già il presente direi, diverso per la professione infermieristica. Quel presente e quel futuro che appaiono ormai chiari e irrinunciabili proprio in funzione delle esperienze che abbiamo vissuto.
La professione infermieristica deve tenere conto delle peculiarità assistenziali che ha vissuto e che le sono state richieste in questi mesi, anche per migliorare la risposta del sistema sanitario non solo alle pandemie, ma ai normali bisogni di salute dei cittadini, soprattutto considerando la nuova epidemiologia che vede una popolazione sempre più anziana con maggiori cronicità e la necessità di una migliore assistenza.
La prima ondata della pandemia ci ha fatto assistere a situazioni gravissime in alcune Regioni e la risposta è stata soprattutto ospedaliera e se di territorio si è parlato è stato proprio per cercare di alleggerire, di “proteggere” l’ospedale che però, data la scarsa, se non a volte inesistente organizzazione distrettuale, ha raggiunto via via livelli intensi di occupazione – specie nelle terapie intensive – che l’hanno portato a un passo dal collasso.
In alcune Regioni proprio le terapie intensive sono pressoché raddoppiate, ma solo per quanto riguarda i letti e le attrezzature necessarie a organizzarle. Ma l’assistenza non è fatta solo di organizzazione strutturale, anche se importantissima: le persone le assistono le persone.
I medici e gli infermieri qualificati per un’assistenza complessa che sono mancati e che mancano ancora, sono la chiave di volta del sistema di assistenza e non solo delle terapie intensive e degli ospedali, ma, come ci ha dimostrato la prima ondata con l’effetto della pandemia nelle strutture per anziani, RSA, case di riposo ecc. e ci sta mostrando la seconda ondata anche a livello domiciliare, sono mancati e mancano anche sul territorio.
E non solo per i pazienti COVID, ma anche per i non COVID che presentano morbilità multiple, spesso anche gravi e che in questo periodo sono stati non voglio dire dimenticati, ma sicuramente messi un po’ da parte.
Così negli ospedali abbiamo spesso assistito a équipe di cura formate anche da medici e infermieri esperti, ma spesso, troppo spesso, da personale giovane, non qualificato, non ancora con la formazione e l’esperienza necessaria ad agire nelle terapie intensive da un lato e sul territorio, anzi a domicilio dove si è “soli” con il paziente, dall’altro.
Si è confidato molto sulla capacità di resilienza dei professionisti infermieri e sulla loro flessibilità professionale e abbiamo sicuramente dato una risposta efficiente nonostante tutto, in linea con ciò che è anche accaduto nel resto d’Europa e del Mondo.
Ciò che è necessario ora è una riflessione che non deve rimanere tale, ma deve trovare la successiva applicazione nella realtà sia dell’assistenza che della formazione: il concetto di infungibilità della professione infermieristica. E il concetto di specializzazione.
Stiamo iniziando a dire che l’infermiere così come lo conosciamo oggi non è quel professionista spendibile sempre ovunque in tutti i contesti: fare numero non può fare qualità.
Le competenze specialistiche non si inventano e non si improvvisano, né si creano dalla sera alla mattina. E questo vale per le terapie intensive dove sono indispensabili, ma anche sul territorio, dove sono altrettanto necessarie perché il rapporto diventa diretto tra infermiere e assistito e senza la giusta formazione non può esserci la risposta migliore ai bisogni di salute.
Per l’infermiere di famiglia e comunità (IF/C) sono le stesse Regioni ad averle di fatto già formalizzate. Nelle loro linee di indirizzo per introdurre in modo omogeneo questa nuova figura su tutto il territorio nazionale, hanno esplicitamente dichiarata la necessità di una formazione specifica e di una competenza specialistica.
Il loro documento dichiara che le competenze richieste al IF/C sono di natura clinico assistenziale e di tipo comunicativo-relazionale. L’IF/C deve possedere capacità di lettura dei dati epidemiologici e del sistema-contesto, deve avere un elevato grado di conoscenza del sistema della Rete dei Servizi sanitari e sociali per creare connessioni ed attivare azioni di integrazione orizzontale e verticale tra servizi e professionisti a favore di una risposta sinergica ed efficace al bisogno dei cittadini della comunità.
La sua formazione ordinaria deve prevedere un percorso di formazione specifica con l’acquisizione di titoli accademici (ad esempio master in Infermieristica di famiglia e Comunità).
E per essere già in funzione durante la pandemia è necessario individuare non infermieri qualsiasi, solo numericamente sufficienti, ma quelli per i quali sia possibile valorizzare l’esperienza acquisita, la motivazione e l’interesse all’ambito territoriale dell’assistenza, ad esempio con avere un’esperienza (almeno due anni) in ambito Distrettuale/territoriale, domiciliare o con esperienza di percorsi clinico-assistenziali (PDTA), di integrazione ospedale-territorio, di presa in carico di soggetti fragili.
Sono evidentemente già funzioni specialistiche e, per loro stesse caratteristiche, infungibili rispetto all’utilizzo di questi professionisti che data la loro formazione, esperienza e preparazione non possono e non devono essere indirizzati ad altri contesti assistenziali.
La loro formazione è frutto di anni di studio, di esperienza professionale all’interno delle strutture e nel caso degli ospedali anche all’interno delle aree intensive.
Non è proprio vero quindi che tutti gli infermieri sono uguali, occorre iniziare a distinguere la loro formazione, la loro destinazione e anche, magari, le modalità di reclutamento diretto in settori specialistici.
Non è stato un caso, ad esempio, che quando la Protezione civile verso aprile-maggio ha fatto un primo bando infermieri per Covid insieme a medici per Covid ha espressamente chiesto prevalentemente infermieri con esperienza in terapia intensiva e in emergenza-urgenza
Non è un caso che il ministero abbia chiesto di mappare quanti erano gli infermieri impegnati nelle terapie intensive, compito particolarmente difficoltoso non avendo all’interno dei nostri organici una stratificazione per aree specialistiche infermieristiche così come le hanno i medici sui profili di specializzazione.
E ancora questo è accaduto quando il ministero ha chiesto una mappatura analoga degli infermieri impegnati nelle cure palliative.
Se ci fossero state già le specializzazioni saremmo stati in grado di dare una precisa risposta a precise necessità. Ma non solo. L’infermiere specializzato può naturalmente essere considerato anche il case manager delle varie situazioni e può in condizioni di emergenza come quella che stiamo vivendo anche essere affiancato all’ interno di un’équipe dove ci sono colleghi che non hanno lo stesso profilo di competenza per ovvi e oggettivi motivi perché magari sono stati reclutati attraverso spostamenti, chiusure e conversioni. Può migliorare e ottimizzare i servizi quindi.
I ministeri competenti – che abbiamo già sollecitato e coinvolto – le Università e la Conferenza Stato-Regioni non possono più mettere in secondo piano questa scelta: devono assicurare standard garantiti nelle équipe assistenziali.
Per quanto riguarda la nostra categoria il lavoro della Federazione, degli ordini e delle Società scientifiche sta già producendo i suoi frutti e deve produrne ancora per consentire di connotare davvero i nostri colleghi all’interno delle aree critiche, del territorio, degli ospedali, dei servizi di prossimità e così via. Non solo dal punto di vista formativo e clinico-manageriale, ma anche da quello deontologico rispetto al quale spesso gli infermieri si trovano a dover affrontare dilemmi etici.
In caso contrario resteremo in balìa di paradigmi organizzativi e legislativi che possono piacerci, piacerci meno, non piacerci, ma che hanno l’effetto finale di impedire ai professionisti di pendere in mano il bandolo della matassa delle varie situazioni, soprattutto quelle che riguardano la salute e la vita dei pazienti.

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