Effetti delle cure infermieristiche sugli esiti dei pazienti: è tempo di decisioni


Con l’ultimo articolo comparso su The Lancet di Aiken e colleghi (Aiken et al., 2014) che ha documentato gli effetti delle cure infermieristiche includendo ospedali di 9 paesi dell’EU e di 2 paesi dell’European Free Trade Association (Svizzera e Norvegia), trasferendo di fatto in Europa un modello di studio già sperimentato da anni negli USA e in altri paesi, si stanno progressivamente accumulando le evidenze sulla relazione tra quantità e qualità delle cure infermieristiche ed esiti clinici dei pazienti. Anche nel contesto Europeo che ha meccanismi di funzionamento, ruoli e condizioni lavorative diversi da quelli statunitensi, Aiken e colleghi (2014) hanno riscontrato che ad ogni paziente chirurgico in più gestito da un infermiere, aumenta del 7% il rischio di mortalità a 30 giorni (OR 1.068, CI 95% 1.031–1.106, oscillando quindi dal 3% al 10.6% in più), e che all’aumento del 10% di infermieri in possesso di una formazione accademica è associata una riduzione del rischio di mortalità del 7% (OR 0.929; CI 95% 0.886–0.973, dal 3 al 12% in meno).

Lo studio di Aiken e colleghi (2014), già diventato una pietra miliare nella storia infermieristica europea, sollecita ad intraprendere numerose decisioni ed a sorvegliarle con molta attenzione altre:

  • si tratta del primo studio pan-europeo in cui è attivo dal 1999 il Processo di Bologna che sta armonizzando la formazione nei suoi diversi cicli (laurea, master, dottorato) influenzando anche la formazione infermieristica;
  • è, inoltre, il primo studio che documenta su larga scala la variabilità all’interno e tra Paesi rispetto al nurse-to-patient ratio (ovvero a quanti sono in media i pazienti gestiti da ciascun infermiere) raccogliendo dati reali e non da database amministrativi che hanno sempre avuto il problema di contare le risorse e/o ore infermieristiche erogate includendo anche quelle ‘non al letto del paziente’ (Palese & Watson, 2014). Da quanto è emerso dallo studio, in Europa gli infermieri gestiscono da un minimo di 5 pazienti (Norvegia) ad un massimo di 12.7 (Spagna) con una range che va da 3.4 a 17.9.;
  • non da ultimo, Aiken e colleghi (2014) hanno stimato l’effetto delle cure infermieristiche, confermando un aspetto atteso, peraltro già documentato in molti studi, ovvero che gli infermieri fanno la differenza sui pazienti. Da tempo, infatti, si stanno accumulando risultati sugli esiti sensibili alle cure infermieristiche, ovvero su quell’insieme di comportamenti, percezioni e risultati clinici misurabili sui pazienti e sulle loro famiglie/caregiver, direttamente influenzati e/o sensibili alle cure infermieristiche ricevute (Iowa, 2000). Sulla base dei sistemi di classificazione esistenti, anche Aiken e colleghi hanno misurato gli esiti di sicurezza (e.g., in questo caso la mortalità, in altri studi le infezioni, gli errori di terapia, il mancato riconoscimento del declino clinico del paziente) (Griffith et al., 2008) assumendo che gli infermieri hanno un ruolo protettivo verso i pazienti, documentando che una buona assistenza infermieristica (con un numero sufficiente di infermieri) può ridurre complicanze ed errori.

Lo studio ha documentato le dotazioni organiche tra il 2007 e il 2010, subito prima della crisi economica che ha travolto anche l’EU, descrivendo una situazione forse migliore di quella attuale considerato che molte misure di contenimento dei costi hanno riguardato proprio la professione infermieristica. Solo a titolo di esempio, in Italia, per le chirurgie quasi dieci anni fa c’era una media di 8.9 pazienti/infermiere (7.2 al mattino, 9.2 nel pomeriggio e 13.6 di notte) (Palese et al., 2006); oggi nelle medicine si riportano punte massime di 30.5 pazienti/infermiere durante la notte (Palese et al., 2013). L’effetto sui pochi infermieri che rimangono al letto del paziente è immediato: aumenta il carico di lavoro, non è possibile assicurare le cure necessarie (Sist et al., 2012) e aumentano gli eventi negativi sui pazienti; inoltre, aumenta l’esaurimento emotivo e la frustrazione tra gli infermieri e il rischio di una immagine negativa del loro lavoro. Ci sarebbe bisogno di più infermieri al letto del paziente: i loro ruoli non possono essere sostituiti con figure di supporto perché il giudizio clinico di cui sono capaci gli infermieri protegge i pazienti (Aiken et al., 2014; Bambi et al., 2014). Purtroppo, mentre fino a poco tempo vivevamo nella carenza quantitativa di infermieri tanto da essere tra i primi paesi attivi nel reclutamento internazionale di infermieri stranieri, ora che ne disporremmo dopo anni di impegno nella formazione, la recessione ha miracolosamente cancellato la carenza tanto da far diventare l’Italia uno tra i primi paesi esportatori di infermieri in Europa. Gli ospedali – ma non solo – non possono assumere i neo-laureati di cui avrebbero drammatico bisogno; i neo-laureati rimangono senza lavoro per lungo tempo, perdendo le competenze acquisite durante la formazione, vanificando così l’impegno dei corsi di laurea, ospedali e distretti, e dei professionisti che si sono impegnati nella preparazione delle future generazioni. Un infermiere che assiste da solo 20 paziente non riesce a garantire tutto a tutti, e non ha alcuna concreata possibilità di offrire cure personalizzate (Canzan et al., 2013). I pazienti così sviluppano rischi e complicanze, con un aumento della degenza e dei costi: tutti problemi evitabili se fossero assistiti da un numero congruo di infermieri. Perché decidere di mettere a rischio i pazienti aumentando i costi invece di prevenire l’occorrenza di complicanze – forse con una minor spesa – dedicando più infermieri al letto dei pazienti? E’ recente il dramma dell’ ospedale dello Mid Stafforshire (UK) in cui una cultura spietatamente economica di contenimento dei costi, insieme ad altri fattori, hanno gravemente compromesso gli standard di assistenza (Haiter, 2013): a conti fatti, sembra che stiamo imparando poco da quella drammatica lezione inglese.

Alla luce dei risultati dello studio di Aiken e colleghi (2014) e della crescente preoccupazione per la situazione italiana, alcune decisioni dovrebbero essere intraprese subito:

  1. anche nel nostro paese si sta misurando l’effetto delle cure infermieristiche sui pazienti (esempio lo studio ESAMED, Palese et al., 2013). Proseguire in questa direzione, anche con progetti collaborativi più ampi, è fondamentale. Le nostre dotazioni organiche sono molto diverse, tra regioni, ospedali e all’interno dello stesso ospedale. Catturare questa variabilità come occasione di misurazione di ciò che accade nella realtà, potrebbe costituire un’ottima base di partenza per documentare gli effetti delle cure infermieristiche sui pazienti e documentare/segnalare l’insicurezza di alcune situazioni.

  2. Tuttavia, l’Italia, in buona compagnia ad altri Paesi, ha un importante problema rispetto ai dati. Si raccolgono molti dati spesso disomogenei (ad esempio, ogni contesto adotta scale di misurazioni diverse, per le piaghe da decubito chi la scala di Braden, chi quella di Norton…) che non possono essere confrontati e costituire la base di una robusta ricerca. Cercare di arrivare ad un consenso sul nursing minimum data set, ovvero sui dati minimi da registrare quotidianamente e routinariamente per i pazienti ricoverati o presi in carico dalla comunità, è strategico per creare le basi per la ricerca futura.

  3. Altrettanti sforzi andrebbero condotti nell’area delle competenze avanzate: stabilire oggi un set di indicatori per tracciare gli esiti – peraltro anche in questo caso già documentati negli altri paesi (Bambi et al., 2014) – renderebbe semplicemente visibile l’effetto della competenza avanzata fin dagli inizi del suo sviluppo appena disegnato a livello nazionale.

  4. La nostra attenzione dovrebbe riguardare anche la formazione: non c’e’ dubbio che le future generazioni dovrebbero essere formate agli esiti che l’infermieristica è in grado di influenzare, al fine di creare una cultura di massima attenzione e sorveglianza di quanto è attribuibile/sensibile alle cure infermieristiche.

  5. Pur nella difficoltà del momento, i nostri sforzi dovrebbero ricercare una prospettiva anche positiva: sono poco frequenti gli studi che hanno dimostrato l’efficacia delle cure infermieristiche, ovvero la capacità di determinare esiti positivi sui pazienti (e.g., autonomia del paziente nel gestire la terapia, devices, recupero di indipendenza funzionale, adattamento alla malattia, soddisfazione) all’interno di una prospettiva dove gli infermieri non solo garantiscono sicurezza ma anche aggiungono risultati.

Abbiamo evidenze europee sull’effetto delle cure infermieristiche sui pazienti. Di fronte a simili risultati riferiti ad altri Paesi, ci siamo sentiti sempre rispondere che i contesti erano troppo diversi dal nostro. Oggi tra i paesi coinvolti c’e’ la Spagna, il Belgio, l’Inghilterra, la Finlandia, l’Irlanda, l’Olanda, e la Svezia oltre alla Norvegia ed alla Svizzera, alcuni dei quali condividono le stesse difficoltà economiche. Ci si aspetterebbe una immediata reazione di policy capace di integrare i risultati nella pratica quotidiana e/o di dare indirizzi.
I pazienti sono a rischio se gestiti da un numero non congruo di infermieri: Europa (e Italia), se non ora, quando prenderai le migliori decisioni per i tuoi cittadini? Oltre alla diagnostica, ai trattamenti farmacologici e/o chirurgici, i pazienti hanno il diritto di ricevere una adeguata assistenza, un diritto non accessorio ma fondamentale, che forse ha un effetto meno tangibile, ma ugualmente documentato.
 

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Bibliografia

– Aiken LH, Sloane DM, Bruyneel L, et al, for the RN4CAST consortium. Nurse staffing and education and hospital mortality in nine European countries:a retrospective observational study. Lancet 2014; http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(13)62631-8.
– Bambi S, Lucchini A, Solaro M, Lumini E, Rasero L. Interventional Patient Hygiene Model. Una riflessione critica sull’assistenza di base in terapia intensiva. Assistenza Infermieristica e Ricerca, 2014; 33(2): 90-96.
– Canzan F, Saiani L, Mortari L, Ambrosi E. Quando I pazienti parlano di cura: risultati di uno studio fenomenologico. Assistenza Infermieristica e Ricerca, 2013; 32(4): 205-212.
– Griffiths P, Jones S, Maben J, Murrells T. State of the art metrics for nursing: a rapid appraisal. National Nursing Research Unit. London: Kings College, 2008.
– Haiter M. The UK Francis report: the key messages for nursing. Journal of Advanced Nursing, 2013; 69(8):e1-e3.
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– Palese A, Cuel M, Zanella P, Zambiasi P, Guarnier A, Allegrini E, and Saiani L. Nursing care received by older patients in Italian medical units: findings from an explorative study. Aging Clinical and Experimental Research, 2013;25(6): 707-10.
– Palese A, Regattin L, Bertolano T, Brusaferro S. La dotazione di personale infermieristico nei reparti di chirurgia e ortopedia italiani: risultati preliminari di uno studio pilota. Assistenza Infermieristica e Ricerca 2006; 25(4): 206-213.
– Palese A, Watson R. Europe: If not now, when? The Lancet, 24; 388(9931):1789-90.
– Sist L, Cortini C, Bandini A, Bandini S, Massa L, Zanin R, Vesca R, Ferraresi A. Il concetto di cure perse: una revisione della letteratura. Assistenza Infermieristica e Ricerca, 2012; 31(4): 234-9.