Le sfide della transculturalità per gli infermieri italiani e sud-americani


La situazione immigratoria italiana in un contesto di dinamicità strutturale
Il fenomeno della migrazione internazionale di persone è antico e ricorrente e si può ritrovare già all’inizio della storia dell’uomo (Chiswich, Hatton, 2003). Negli ultimi anni il ritmo è più sostenuto per una serie di molteplici fattori, tra cui una maggiore facilità e velocità degli spostamenti (Beck, 2003) e un’interconnessione globale ad alta comunicazione, favorente gli scambi, dove le informazioni e i prodotti sono de-materializzati in bit e ricomposti a distanza a grandissima velocità (Moruzzi, 2012). All’interno di tali migrazioni, una quota significativa della mobilità avviene all’interno degli stessi Paesi e più comunemente tra aree rurali e grandi agglomerati urbani, specialmente nel Paesi meno avanzati. Le migrazioni interne e quelle esterne sono spesso interconnesse: le persone frequentemente si muovono dalle campagne alle aree urbane per poi spostarsi in un altro Paese.
In tale contesto di mobilità globalizzata, nel nostro Paese, al 31 dicembre 2012, risiedevano 59.685.227 persone, di cui più di 4 milioni (7,4%) di cittadinanza straniera (Istat, 2013). La Caritas Migrantes, storica organizzazione che ogni anno pubblica il Dossier statistico sugli stranieri presenti in Italia (Caritas, 2012), afferma, invece, che al 31 dicembre 2011 erano presenti 5.011.000 stranieri (3.637.724 non comunitari e 1.373.196 comunitari), i quali avevano un’incidenza sulla popolazione residente dell’8,2%; tali stranieri avevano un ruolo rilevante nel supplire alle carenze strutturali a livello demografico e occupazionale. Le principali comunità sono risultate (Caritas, 2012), nell’ambito dei Paesi comunitari: Romania (997.000 persone), Polonia (112.000 persone), Bulgaria (53.000 persone), Germania (44.000 persone), Francia (34.000 persone), Gran Bretagna (30.000 persone), Spagna (20.000 persone) e Paesi Bassi (9.000 persone). Per i Paesi non comunitari sono più numerose le comunità provenienti da: Marocco (506.369 persone), Albania (491.495 persone), Cina (277.570 persone), Ucraina (223.782 persone) e Filippine (152.362 persone). La maggior parte degli stranieri risiede nell’Italia settentrionale ed in particolare nel Nord-Ovest e nel Nord-Est (53,8%) e nel Centro (22,6%) (Caritas, 2012). Il Sud Italia invece è stato scelto solo dall’8,6% degli stranieri, mentre il 3,0% ha preferito stabilirsi nelle isole: Sardegna e Sicilia.
Il fenomeno migratorio è in ascesa nel mondo anche se la spinta migratoria, della seconda metà degli anni Novanta dei primi anni del nuovo secolo fino al 2009, sta molto rallentando in Italia a causa della difficile situazione economica ed occupazionale che sta attraversando il Paese. È importante considerare i dati della Caritas, perché studia da anni il fenomeno immigrazione/emigrazione e, riuscendo ad entrare nelle pieghe del fenomeno stesso, rappresenta anche i cittadini stranieri che hanno posizioni di non residenza e gli irregolari che i dati ufficiali Istat non comprendono.
È indubbio, quindi, che l’Italia, come altri Paesi dell’Unione Europea, sia diventato un Paese multietnico, con una percentuale di stranieri che supera il 7% della popolazione; tale scenario si inscrive nell’intera Unione europea, un continente sempre più interetnico con percentuali elevate di immigrazione nei grandi Paesi come la Germania, il Regno Unito, la Spagna e la Francia.

Nursing transculturale: la migrazione di infermieri dal Sud-America in Italia
Il nursing transculturale, cioè quella branca dell’infermieristica che studia, tra le sue differenti finalità, il fenomeno migratorio per gli infermieri, si occupa da tempo dei movimenti migratori e sociali del personale sanitario, sia localmente che internazionalmente. La carenza di personale sanitario è un problema mondiale, con solamente il 40% dei Paesi che raggiunge lo standard minimo di 2,5 lavoratori della salute per 1000 abitanti. La migrazione infermieristica, quindi, è un fenomeno sociale che si inscrive in un contesto di maggiore mobilità sociale ed in una crescente competizione per acquisire le abilità professionali nel settore sanitario.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Who, 2006) stima che ci siano circa 60 milioni di operatori sanitari nel mondo, di cui il 31,6% risiede nel continente americano, con gli Stati Uniti che presentano un contingente cospicuo. Circa 60 Paesi in tutto il mondo soffrono la carenza di personale sanitario, che ammonta a circa due milioni e 400 mila operatori tra infermieri, medici, fisioterapisti, etc. Tale trend, vista l’attuale carenza numerica tra richieste del mercato del lavoro e professionisti sanitari nei Paesi avanzati, è destinato ad aumentare e porterà, se non controllato, a gravi ripercussioni nei Paesi meno sviluppati. La migrazione di professionisti sanitari, infatti, ha delle evidenti ripercussioni sulla forza lavoro qualificata dei Paesi più svantaggiati economicamente “in quanto i Paesi [di emigrazione] si ritrovano svuotati di expertise: di conseguenza tutti i cittadini di quel Paese avranno disuguaglianze anche notevoli nella fruizione della salute” (Rocco, Stievano, 2012, pagina 9).
La mobilità internazionale degli infermieri (Dickenson-Hazard, 2004; Kingma, 2006; Kingma, 2008; Diwili, Bonner, O’Brien, 2013; Newton, Pillay, Higginbottom, 2013), alcuni anni fa esperita principalmente tra Paesi più o meno industrializzati, è diventata più complicata con nuovi orientamenti e schemi sociali. Infatti, gli infermieri provenienti da Paesi altri con un livello di formazione elevato, rappresentano ormai più di un quarto della forza lavoro relativamente a medici ed infermieri dell’Australia, del Canada, del Regno Unito e degli Stati Uniti (Oulton, 2006). La migrazione internazionale di infermieri, quindi, assume caratteristiche diverse tra i vari Paesi, con situazioni di vantaggio per i Paesi economicamente e culturalmente avanzati.
In Italia, in soli tre anni (2007-2010), il numero di infermieri stranieri è aumentato del 25% (quasi 8.000 unità), nonostante vi sia stato negli ultimi anni un decremento di nuovi iscritti infermieri stranieri ai Collegi Ipasvi, rispetto ad anni precedenti, quando la spinta migratoria è stata più decisa (Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi, 2010). I paesi sud-americani, in particolare il Perù, sono stati maggiormente coinvolti dal fenomeno dell’emigrazione infermieristica in Italia, rappresentando il 6-7% della popolazione infermieristica straniera totale dai primi anni del Duemila fino al 2010, dopo di che la venuta degli infermieri peruviani e in generale sud-americani in Italia è fortemente diminuita (Fortunato, 2012).
In Perù, l’Associazione infermieristica nazionale riferisce che, dal 2001 al 2005, più di 5000 infermieri – il 15% della forza nazionale lavoro – sono emigrati primariamente in Spagna, Italia e Stati Uniti. Per la precisione il 57.19% è emigrato in Italia, il 35,86% negli Stati Uniti e il 6.95% verso la Spagna([1]) (Malvárez, Castrillón Agudelo, 2005).
La situazione non è delle migliori soprattutto in Paesi come la Bolivia, il Perù e la Colombia, dove non esistono politiche di pianificazione e di aggiustamento strutturale della formazione di personale sanitario in linea con il profilo epidemiologico di questi Paesi. Così come in molti Paesi sud-americani non esiste una politica di distribuzione regolata dei professionisti sanitari secondo le necessità della popolazione, ad eccetto del Brasile che negli ultimi anni ha adottato delle misure di sviluppo e ritenzione delle risorse umane sanitarie (Buchan, Fronteira, Dessault, 2011).

Assistere pazienti portatori di culture diverse da parte di infermieri italiani e sud-americani
In tale cornice è stata condotta una ricerca nell’area di Roma, per conoscere meglio le possibili difficoltà assistenziali verso il paziente straniero incontrate da un campione di infermieri italiani e da un campione di infermieri sud-americani. Nel corso del 2011 è stato somministrato un questionario ad un campione non probabilistico per quote, composto da 364 infermieri italiani e 191 sud-americani, mantenendo per questi ultimi le proporzioni di rappresentanza delle diverse nazionalità presenti ad oggi sul territorio italiano([2]). Il campione ottenuto è stato composto per il 76,2% da infermiere di genere femminile (più elevato il valore tra i sud-americani intervistati, 82,2%), con un’età media di circa 40 anni (39,8).
Si sono indagate le condizioni lavorative degli infermieri italiani e stranieri e gli effetti della transculturalità nella pratica infermieristica, declinati nella relazione con pazienti e con personale sanitario (infermieri e medici) di nazionalità diversa da quella di appartenenza. Rispetto alle condizioni occupazionali, poi, sono state approfondite l’area di impiego, l’inquadramento contrattuale e l’ente di appartenenza presso cui operano gli infermieri intervistati. Il quadro che emerge evidenzia chiaramente una situazione difforme tra infermieri italiani e sud-americani, con una presenza di infermieri stranieri più diffusa nelle imprese private, in modo particolare nelle organizzazioni di privato sociale: infatti, circa il 40% lavora presso una cooperativa.
Per quanto riguarda il rapporto contrattuale, la situazione degli infermieri stranieri è caratterizzata da una maggiore instabilità. Se sette infermieri italiani su dieci sono assunti con contratto a tempo determinato, ciò si verifica soltanto nel 42,6% dei casi per i sud-americani intervistati. L’altra metà del campione di infermieri sud-americani si suddivide tra socio di cooperativa (21,3%), lavoratore a tempo determinato (17%), libero professionista (10,6%) o con contratto atipico (8,5%).
Altre indagini confermano una presenza più frammentata di infermieri stranieri nel mercato del lavoro italiano. Un infermiere straniero su cinque lascia la professione prima dei tre anni di lavoro; l’età di abbandono della professione è più bassa per gli stranieri (41 anni, contro una media nazionale di 55); infine il tasso di abbandono della professione è doppio rispetto a quello degli italiani (Fortunato, 2012). Spesso il lavoro in Rsa e l’assistenza domiciliare (come assistente familiare o badante) rappresentano le prime forme di impiego che gli infermieri stranieri trovano ed accettano di svolgere in Italia (Blasi et al., 2010).
Si tratta di situazioni che potrebbero essere il prodotto tanto di percorsi migratori instabili e di breve periodo, quanto di discriminazioni nell’accesso al mercato del lavoro. Ad esempio, il divario tra infermieri italiani e stranieri è particolarmente accentuato nei servizi sanitari pubblici, laddove la partecipazione degli stranieri non provenienti dalla Ue ai concorsi di assunzione è bloccata dalla mancanza del requisito di cittadinanza.
Rispetto alla formazione, circa il 60% degli infermieri sud-americani intervistati ha conseguito il titolo di studio nel paese di origine, anche se dall’ultima rilevazione condotta dalla Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi gli infermieri stranieri che hanno ottenuto il titolo nella propria nazione sarebbero più numerosi (73,5%) (Fortunato, 2012).
Inoltre, nella ricerca svolta sono state sottoposte ai rispondenti infermieri italiani e sud-americani una serie di domande tese a rilevare alcune criticità assistenziali con l’utenza straniera. È stato chiesto di indicare la frequenza con cui si verificano alcune situazioni problematiche attraverso una scala da 1 a 5, dove 1 corrisponde a sempre e 5 a mai. Sono stati indicati inizialmente alcuni aspetti: dalle difficoltà di tipo linguistico, alla comprensione delle usanze del paziente, dalla difficoltà nella somministrazione delle terapie ai rapporti con familiari o amici del paziente. Rispetto alla difficoltà di comprendere le usanze culturali del paziente straniero, questa situazione si presenta con minor frequenza se confrontata con la difficoltà linguistica e non si riscontrano differenze significative tra infermieri italiani e sud-americani (Tabella 1).
Invece, gli infermieri sud-americani vivono minori difficoltà nella relazione diretta con i pazienti e i loro familiari, in particolare per quanto concerne la difficoltà di tipo assistenziale (la somministrazione di terapie al paziente straniero) e la difficoltà di tipo relazionale con familiari e amici del paziente. Se le differenze di tipo culturale possono rappresentare, in questo caso, un punto di forza che favorisce la relazione, perché entrambi si possono rispecchiare reciprocamente nella situazione di persona “altra”, è probabile, tuttavia, che anche la condivisione dell’esperienza di migrazione tra infermieri e pazienti possa facilitare la relazione, grazie ad un processo di empatia nei confronti del vissuto altrui.

Tabella 1 – Difficoltà relazionali segnalate dagli infermieri italiani nell’assistenza a pazienti stranieri
Confronto delle medie per nazionalità (1 = sempre; 5 = mai)([3])

 

Difficoltà linguistiche

Difficoltà comprendere usanze del paziente straniero

Difficoltà a somministrare le terapie al paziente straniero**

Difficoltà nei rapporti con familiari o amici del paziente straniero***

Italiani

Media

2,93

3,43

3,80

3,41

N

308

308

307

307

Dev. std.

1,062

1,123

1,172

1,135

Sud-americani

Media

3,07

3,47

4,15

3,94

N

135

135

135

135

Dev. std.

1,334

1,321

1,130

1,138

Totale

Media

2,97

3,44

3,91

3,57

N

443

443

442

442

Dev. std.

1,152

1,186

1,169

1,161

In caso di difficoltà con i pazienti stranieri, si è rilevato che entrambi i gruppi di infermieri ricorrono in prima istanza a reti informali di supporto, quindi, ai familiari dei pazienti. In seconda battuta, chiedono sostegno al personale sanitario, più ai colleghi infermieri che ai medici (in particolare, gli infermieri italiani interpellano meno di frequente il medico). Infine, altresì omogeneo tra sud-americani e italiani è il dato sul ricorso ai mediatori culturali che, tra le figure elencate, è quella a cui gli infermieri si rivolgono meno spesso anche per la loro scarsa presenza nell’ambiente geografico dell’indagine.
Ad entrambi i gruppi, inoltre, sono state poste domande sulla percezione del rapporto di rispetto e fiducia con i pazienti stranieri, e al gruppo degli infermieri sud-americani è stato chiesto specificatamente di considerare il paziente italiano. I risultati evidenziano che gli infermieri italiani sentono di essere rispettati dai pazienti stranieri, i quali mostrano fiducia e collaborazione nei loro confronti. Anche gli infermieri sud-americani percepiscono fiducia, rispetto e collaborazione da parte dei pazienti italiani; tuttavia c’è un certo grado di pregiudizio da parte dei pazienti italiani nei confronti degli infermieri stranieri.

Tabella 2 – Opinioni degli infermieri sud-americani sul rapporto con infermieri italiani. Confronto delle medie per nazionalità (1 = del tutto d’accordo; 5 = per nulla d’accordo)

 

Infermieri stranieri rispettati dai colleghi italiani**

Pregiudizio infermieri italiani verso stranieri

Collaborazione tra infermieri italiani e stranieri

Conflitti tra infermieri italiani e stranieri***

Fiducia tra infermieri italiani verso stranieri**

Divergenze tra infermieri italiani e stranieri

Sud-americani

Media

1,77

2,98

1,95

3,38

1,83

2,91

N

191

191

190

191

191

190

Dev. std.

1,046

1,409

1,045

1,485

1,073

1,396

Italiani

Media

2,00

3,08

1,99

4,03

2,14

3,09

N

231

230

231

231

231

231

Dev. std.

1,172

1,401

1,034

1,361

1,220

1,343

Totale

Media

1,90

3,04

1,97

3,74

2,00

3,01

N

422

421

421

422

422

421

Dev. std.

1,121

1,404

1,038

1,453

1,165

1,369

Passando alle relazioni tra i componenti del team di lavoro, sebbene ci sia collaborazione, rispetto e fiducia in entrambi i gruppi nei confronti dei colleghi, si riscontrano conflitti tra professionisti; soprattutto emergono divergenze tra infermieri sud-americani e italiani nel modo di svolgere le prestazioni infermieristiche. Per di più, i conflitti e le divergenze sembrano più diffusi tra i sud-americani che tra gli italiani. Rispetto al rapporto con i medici si evincono risultati simili: c’è ampio accordo sulla percezione della fiducia e del rispetto, sia per quanto riguarda gli infermieri sud-americani nel rapporto con medici italiani, sia per infermieri italiani con medici stranieri. Al contempo, si evidenzia un certo pregiudizio, che riguarda però in misura maggiore i sud-americani verso i medici italiani, rispetto agli infermieri italiani verso i medici stranieri.

Conclusioni
La ricerca ha fatto emergere le criticità assistenziali e relazionali che gli infermieri italiani e stranieri possono percepire sia nella loro integrazione lavorativa, sia nell’assistere le persone provenienti da culture altre. Nonostante si possa affermare che i due gruppi d’infermieri, italiani e sud-americani, riescono a superare le divergenze ed i pregiudizi ed a lavorare in sinergia, sarebbe interessante approfondire come si riesca a trovare un accordo sullo svolgimento delle pratiche assistenziali, vale a dire quale tipo di soluzioni si scelgono anche rispetto all’adozione o meno di procedure basate sulle evidenze scientifiche.
Altresì, nel rapporto con i medici stranieri per gli infermieri italiani e con i medici italiani per gli infermieri stranieri sarebbe utile comprendere che tipo di comportamenti vengono messi in atto da parte dei medici rispetto alle procedure infermieristiche e i sentimenti suscitati negli infermieri stessi.
Parlare di immigrazione infermieristica è complesso: include l’instabilità lavorativa di questi infermieri, come peraltro emerge dalla nostra analisi. Questa instabilità è correlata anche all’impossibilità, a tutt’oggi, a partecipare, da parte di questi professionisti, alla selezione concorsuale nelle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale. Alcune volte si hanno anche difficoltà nel riconoscimento del titolo o della abilitazione in Italia, a causa delle complessità burocratiche di valutazione di alcuni titoli infermieristici ottenuti in alcune aree del Sud-America: tutto ciò porta ad una iscrizione ritardata negli albi Ipasvi rispetto all’ingresso effettivo in Italia (Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi, 2010).
Superare tutto ciò e favorire un sistema sanitario attento alle diversificate caratteristiche culturali della popolazione potrebbe portare ad un’integrazione del team workforce professionale, foriera di qualità assistenziale verso l’altro.

 


[1] “L’emigrazione di infermiere peruviane verso l’Europa e l’America del Nord si è incrementata negli ultimi anni, arrivando nel 2007 a 14.424 unità, una cifra accumulata negli ultimi 13 anni (…). I risultati mostrano che gli infermieri che emigrano sono per la maggior parte di sesso femminile (97,7%) e sono tra i 21 e i 31 anni per il 43,6%” (Organizzazione pan-americana per la salute (Ops) “Recursos humanos della salud”, 60/2011 p. 11).
[2] La componente più rappresentata è stata quella peruviana (102 casi, pari al 18,4% del campione complessivo), seguita da quella argentina (26 casi; 4,7%), colombiana (14 casi; 2,5%), ecuadoriana (11 casi, 2%) e brasiliana (9 casi; 1,6%). Sotto l’1%, compaiono le seguenti nazionalità: paraguayana (0,9%), domenicana (0,7%), cilena (0,4%), venezuelana (0,4%), uruguayana (0,2%), guatemalteca (0,2%), boliviana (0,2%) e messicana (0,2%).
[3] Per la tabella 1 e 2 sono stati indicati con gli asterischi gli item che sono risultati statisticamente significativi attraverso l’analisi della varianza calcolata attraverso l’Anova one way. Per due asterischi p< di 0,05; con tre asterischi p= 0,00.
 

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Bibliografia

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