L’obbligo dell’Ecm non è a carico dell’Azienda. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ribadisce che l’aggiornamento è un dovere preciso e permanente per ogni professionista


L’infermiere fonda il proprio operato su conoscenze validate e aggiorna saperi e competenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull’esperienza e la ricerca. Ad affermarlo è in primo luogo l’art. 11 del Codice deontologico degli infermieri: l’aggiornamento dei propri saperi e delle proprie competenze è, prima di tutto, un valore etico e un obbligo di natura deontologica, poi un dovere giuridico. E ciò in quanto il sapere, ossia la conoscenza, costituisce lo strumento prioritario per raggiungere gli obiettivi principali di quella che Florence Nightingale ha definito un’arte, anzi, come aggiungeva, la “più bella delle arti”, ossia la professione infermieristica; uno degli obiettivi fondamentali, forse il primo in assoluto, è rappresentato dal tendere a una professione orientata al servizio della persona, nel rispetto dei suoi diritti fondamentali, dove la salute è il bene supremo mediante un’ assistenza diretta al bene della persona assistita.
Questo, indubbiamente, richiede un impegno, a volte anche gravoso, totale e continuo, teso all’aggiornamento delle proprie competenze tecniche, educative e relazionali. In altre parole, la formazione permanente e l’aggiornamento professionale sono strumenti indispensabili alla e nella professione infermieristica.
Questa breve premessa vuole fungere da introduzione ad una sintetica disamina di una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 21817 del 20 ottobre 2011, che affronta in maniera approfondita ed esauriente il tema della formazione da parte dei professionisti sanitari. Nonostante il caso giudiziario abbia avuto come protagonista un medico, ritengo che le indicazioni tratte dalla motivazione della sentenza possano costituire un indubbio insegnamento ed anche costituire un rilevante stimolo per la professione infermieristica. E ciò in quanto la decisione della Suprema Corte sgombra il campo da una serie di errati convincimenti, annienta false convinzioni e affloscia tante quanto errate certezze e attese, destinate in partenza alla inevitabile delusione sul tema dell’aggiornamento professionale personale.
Questi i fatti. Un medico ospedaliero, appartenente al 1° livello della dirigenza (i fatti sono risalenti nel tempo), ricorre al Tribunale del lavoro convenendo in giudizio l’Asl alle cui dipendenze svolge la propria attività, lamentando che, a partire da una certa data, non aveva avuto la possibilità di conseguire alcuna progressione economica e di carriera e come tale situazione fosse da ricondurre all’inerzia della propria azienda, che non si era mai attivata per organizzare e proporre ai dipendenti percorsi di aggiornamento e formazione. Aggiungeva che tale situazione, non avendogli permesso di arricchire il proprio curriculum, lo aveva penalizzato nei concorsi per l’accesso alle qualifiche professionali superiori. Quindi, il medico chiedeva che il Tribunale dichiarasse in prima battuta l’inadempimento dell’Asl, ossia l’essere venuta meno ad un presunto obbligo di predisporre percorsi di aggiornamento professionale nei confronti dei propri dipendenti, e in seconda battuta chiedeva il risarcimento dei danni che tale inadempimento gli avrebbe provocato, danni consistenti nelle differenze retributive tra l’incarico attuale e gli incarichi a cui, a suo dire, avrebbe avuto diritto in presenza di un diverso curriculum, oltre ai danni per la lesione della sua professionalità.
Ovviamente la domanda e il principio sotteso, che il medico ostinatamente ha portato avanti, vengono decisamente e definitivamente rigettati dai giudici della Corte di Cassazione, dove la causa approda dopo due gradi di giudizio, tribunale e corte d’appello.
Infatti, è abbastanza frequente la immotivata ed erronea convinzione che le Asl abbiano l’obbligo, contrattualmente assunto con i propri dipendenti, di curare direttamente il loro aggiornamento professionale mediante la realizzazione di iniziative formative specifiche per i vari profili e ruoli professionali. Ed è altrettanto frequente il falso convincimento secondo il quale, in assenza dell’impegno formativo da parte del datore di lavoro, possa scaturire una sorta di diritto all’esenzione dalla formazione Ecm.
Al contrario, i giudici romani, proponendo in maniera esaustiva una limpida disamina delle norme che, nel nostro ordinamento, si occupano della formazione continua (Ecm), muovendo dall’art. 16-bis del Dlgs 502/1992, il quale, in particolare, ha previsto e in parte disciplinato la formazione continua in ambito sanitario, che a sua volta comprende l’aggiornamento professionale e la formazione permanente continua, giungono correttamente a sostenere come la disciplina del sistema della formazione continua in sanità veda interagire lo Stato e le Regioni, ma non attribuisce direttamente alle Asl alcuna autonoma titolarità, autoreferenziale, in ordine alla promozione di iniziative idonee ad essere ricomprese nella formazione, partecipando invece le stesse, che costituiscono strumento attraverso il quale le Regioni provvedono all’erogazione dei servizi sanitari nell’esercizio delle competenze in materia di tutela della salute ad esse attribuite dalla Costituzione, ad un più articolato percorso procedimentale, che coinvolge, a diverso titolo, una pluralità di enti e di organismi. Pertanto, proseguono i giudici della Suprema Corte, non è possibile configurare l’esistenza, a carico delle Asl, di un obbligo di predisporre e organizzare specifici e determinati corsi di aggiornamento e/o di formazione per i propri sanitari; conseguentemente non può ravvisarsi l’esistenza, in capo ai sanitari stessi, di uno specifico diritto di ottenere direttamente dall’Asl di appartenenza la promozione e l’organizzazione di iniziative formative e/o di aggiornamento professionale. Ciò non significa che le Asl possano, senza giustificato motivo, impedire od ostacolare i propri dipendenti nell’esercizio del loro diritto/dovere di aggiornarsi e di partecipare a iniziative formative promosse da altri enti, quali ad esempio Università, Irccs, oppure Ordini e Collegi professionali o, più in generale, produttori di formazione nell’ambito del sistema c.d. Ecm, purché, ovviamente, accreditati secondo il sistema di educazione continua in medicina.
Non va dimenticato, da ultimo, come l’impegno formativo non sia appannaggio esclusivo del professionista sanitario dipendente, pubblico o privato che sia, ma anche di colui che esercita la libera professione sanitaria che, come ricorda il Tar del Lazio in una recente pronuncia, “è assoggettabile all'obbligo di formazione continua prevista dall'art. 16-bis e quater del Dlgs n. 502 del 1992, che non è riservata solo al personale sanitario dipendente del Servizio sanitario nazionale, atteso che l'indipendenza e l'autonomia della professione riguardano il suo svolgimento, ma non interferiscono con i livelli di preparazione che un ordinamento richiede che siano costanti nel tempo per il corretto esercizio della professione e che riguardano la qualità soggettiva degli operatori professionali, senza distinzione alcuna tra quelli pubblici e quelli privati” (Tar Lazio, Roma, n. 2038/2007).
La sentenza in esame permette, dunque, di riflettere sul fatto che il livello qualitativo e la consistenza della domanda che scaturisce dal bisogno sociale, dai problemi di salute che il cittadino e la comunità esprime nei confronti del professionista sanitario, richiede sempre di più al professionista competenze tali da fornire risposte adeguate attraverso la manutenzione, aggiornamento e completamento del proprio livello di conoscenze, abilità e comportamenti. Pertanto, la formazione, in tutte le sue modalità, fasi e sedi, tenuto conto di quanto stabilisce la legge 42/99 circa il “campo di attività e di responsabilità” dei professionisti sanitari, che deve essere individuato anche mediante la formazione di base e post-base, rappresenta un elemento costitutivo della professionalità diretta ad assicurare un servizio adeguato ed esauriente al cittadino e, come tale, diventa dovere preciso e permanente per il professionista. È importante, quindi, un’ulteriore riflessione sulla responsabilità formativa e di aggiornamento professionale, che non potrà e non dovrà fare affidamento unicamente sull’acquisizione di nuovi saperi scientifici e di nuove abilità tecnico-operative, ma dovrà fare essenzialmente riferimento agli strumenti di riflessione e decisione etica rilevanti per la professione. Oggi una formazione che pretenda di fare a meno dell’offerta formativa costituita dai percorsi della bioetica risulterebbe essere incompleta e certamente anche pericolosa: un errore grossolano in ambito di etica clinica non sarebbe più facilmente scusabile, come non sarebbe altrettanto scusabile un errore dovuto a mancanza di saperi.

STAMPA L'ARTICOLO