I vissuti degli infermieri che lavorano nelle carceri: uno studio qualitativo


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Riassunto

Introduzione
L’assistenza infermieristica all’interno delle carceri presenta aspetti complessi e particolari. Le regole del sistema carcerario, gli spazi e i tempi ristretti rendono difficile lo svolgimento dei processi assistenziali. L’obiettivo dello studio è esplorare i vissuti esperienziali degli infermieri che lavorano all’interno delle carceri.

Materiali e metodi
Studio qualitativo (fenomenologia trascendentale). Sono state condotte interviste in profondità, faccia a faccia e audio-registrare a 14 infermieri (10 femmine) operativi in un istituto penitenziario del centro Italia. I dati narrativi sono stati analizzati secondo passaggi analitici volti a individuare le tematiche fondamentali e i concetti ad essi correlati.

Risultati
Sono emerse 5 tematiche fondamentali: Il lavoro in carcere come “scelta-non scelta” e come solo auspicato momento di passaggio; L’approccio con il detenuto e gli ostacoli alla relazione di cura; Il problema della sicurezza; Le peculiarità del lavoro in carcere; L’Identità professionale in carcere.

Discussione e conclusioni
Lavorare all’interno delle carceri spesso non rappresenta una scelta consapevole da parte degli infermieri. I neolaureati si trovano catapultati in questo contesto senza una necessaria preparazione specifica. Le difficoltà nell’instaurare una relazione terapeutica con i pazienti-detenuti sono legate specialmente alle loro richieste continue di farmaci, per alimentare lo “spaccio” e alle barriere linguistiche. Gli infermieri si approcciano ai detenuti rispettandoli e mantenendo le opportune distanze. Grazie all’esperienza maturata, gli infermieri riescono comunque a gestire gran parte dei casi complessi. Nonostante il pesante carico emotivo, gli infermieri sono soddisfatti dei livelli assistenziali offerti. Tutti gli infermieri sono stati vittima di aggressioni (insulti, minacce o aggressioni fisiche). È necessario migliorare la sicurezza del personale all’interno del carcere, sensibilizzando la polizia penitenziaria e condividendo con loro adeguate procedure.

Parole chiave: carcere, infermieri, vissuti, percezioni.

Study The experiential experiences of nurses working in prisons: a qualitative study
ABSTRACT

Introduction
Nursing care within prisons shows some complex and peculiar aspects. The rules of the penitentiary system, the confined spaces and time limits hinder the implementation of nursing processes. The aim of study is to explore the experiential stories of nurses working within prisons.

Materials and Methods
Qualitative study (trascendental phenomenology). In-depth, face-to-face and audio- recorded interviews were conducted with 14 nurses (10 females) working in a penitentiary institution in central Italy. Narrative data were analyzed according to analytical steps aimed at identifying key topics and related constructs.

Results
Five fundamental issues emerged: Working in prison as a “choice-not-choice”, intended to be as a merely transition; The approach towards inmates and the barriers to the caring relationship; The problem of security; The peculiarities of working in prison; The professional identity in prison.

Discussion and conclusions
Working in prisons is often not a conscious choice on the part of nurses. New graduates find themselves catapulted into this situation without the necessary specific preparation. The difficulties in establishing a therapeutic relationship with patients who are inmates are especially linked to their constant requests for drugs, to maintain supply chains, and to language barriers. Nurses approach inmates with respect and maintain appropriate distancing. As a result of the experience they gain, nurses are still able to manage the majority of complex cases. Despite the heavy emotional burden, nurses are satisfied with the levels of care offered. All nurses were victims of assaults (insults, threats or physical assaults). It is necessary to improve the safety of staff inside the prison, raising awareness amongst the prison police and sharing appropriate procedures with them.

Key words: prison, nurses, experiential experiences, perceptions.


INTRODUZIONE
In ambito penitenziario una delle materie più controverse e oggetto di dibattito in merito alla determinazione delle competenze tra il Ministero della Giustizia e il Servizio Sanitario Nazionale, è stata la tutela della salute. Il 22 giugno 1999 è stato emanato il Decreto Legislativo n. 230 inerente al riordino della medicina penitenziaria a norma dell’articolo 5 della legge del 30 novembre 1998, n. 419, secondo cui. all’art. 1 “I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali”. Con il DPCM 1/04/2008 (Riforma della medicina penitenziaria) si conclude per il carcere l’iter legislativo (avviato con il D. Lvo 230/99) e il passaggio della competenza in materia di salute dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale.
Nonostante questo importante cambiamento, la professione infermieristica in carcere presenta aspetti estremamente complessi e caratteristici. Infatti, la peculiarità del contesto impone che gli infermieri lavorino adattandosi alle regole del sistema carcerario, muovendosi spesso in spazi limitati e con tempi ristretti. Questo può causare disagi e difficoltà nell’organizzazione dei processi assistenziali (Borri, Pusceddu 2004, Norman, Parrish 1999). Il sistema carcerario, orientato più ad aspetti quali il controllo e la detenzione, piuttosto che ai bisogni di salute dei detenuti, non appare particolarmente favorevole allo sviluppo di una relazione terapeutica infermiere-paziente.
All’interno degli istituti di reclusione sono presenti, infatti, una serie di barriere che rendono necessario modificare le normali modalità di relazione con i pazienti (Carnevale et al., 2018). Ad esempio, le regole carcerarie dispongono che quando il paziente- detenuto necessita di assistenza si rivolga agli agenti di polizia penitenziaria. Questo comporta che solo in un secondo momento entri in scena la figura infermieristica (Ziliani, 2015). I requisiti di sicurezza tipici degli istituti penitenziari tendono a limitare l’autonomia professionale degli infermieri, generalmente non riconosciuti come professionisti, ma come semplici fornitori di cure senza alcun pensiero autonomo. L’assistenza è talvolta compromessa da rapporti conflittuali con gli agenti di polizia penitenziaria che tendono a non riconoscere le esigenze di salute dei detenuti (Carnevale et al., 2018). La questione della sicurezza è un problema quotidiano (Borri, Pusceddu 2004, Norman, Parrish 1999) e risulta ulteriormente aggravato dal fenomeno del sovraffollamento. Infatti, al 31 dicembre 2013, il numero di detenuti presenti in Italia era molto superiore alla capienza regolamentare di 47.709 posti (anche se il tasso di sovraffollamento è in diminuzione e pari a 131,1 detenuti su 100 posti disponibili per il 2013 rispetto ai 151 nel 2010) (Turetta, Muratore 2015).
La popolazione carceraria ha caratteristiche specifiche, diverse dalla popolazione generale sia per quanto riguarda gli aspetti sociali che sanitari (Carrasco-Baún, 2017). I detenuti oltre alle malattie comuni a tutta la popolazione (è evidente un numero crescente di detenuti con patologie croniche), spesso presentano stati di salute aggravati dalle condizioni di vita legate alla reclusione e soprattutto dagli stili di vita che in passato hanno pregiudicato i loro organismi. Sono frequenti malattie come HIV, Epatite C e Tubercolosi, come anche è diffuso il consumo di droghe (Carrasco-Baún, 2017). Un ulteriore fenomeno con cui occorre confrontarsi in carcere è quello della multiculturalità: al 31 dicembre 2013 i detenuti stranieri nelle carceri italiane erano pari al 34,9% e provenienti per la maggior parte dall’Africa (46,3%), in particolare da Marocco e Tunisia (rispettivamente 18,6 e 12%), e dall’Europa (41,6%) (Turetta, Muratore 2015). Altra criticità per la relazione terapeutica è rappresentata dal fatto che talvolta i detenuti sostengono di sentirsi male solo per aggirare la sicurezza, lasciare la struttura e andare in ospedale. Per gli infermieri può essere difficile capire se si tratta di un vero malessere o se il detenuto sta tentando di allontanarsi dal carcere anche solo per qualche giorno. Un esempio di strumentalizzazione dei sintomi può realizzarsi con precordialgia, sincopi, crisi epilettiche, dolore. Altra modalità per fuggire dal carcere è il fenomeno dell’autolesionismo (ferite da taglio, ingestione di corpi estranei, inalazione di gas, contaminazione delle ferite, tentativi di impiccagione, omissione volontaria di assunzione di farmaci salvavita, ingestione volontaria di farmaci in dosi tossiche, sciopero della fame e/o della sete) (Borri, Patriarca, 2010).
Uno studio del 2014 è stato realizzato per valutare i livelli di burnout tra gli infermieri che lavorano nelle carceri (De Oliveira Cruz Mendes et al., 2014). Lo studio è stato condotto in Portogallo e ha coinvolto un campione di 95 infermieri. I risultati ottenuti hanno evidenziato che il 31.57 % degli infermieri mostrava esaurimento emotivo, fisico e cinismo; il 6.32% dichiarava un senso di scarsa efficacia professionale (De Oliveira Cruz Mendes et al., 2014).
Da una revisione di letteratura è emerso che lavorare all’interno delle carceri può influenzare l’identità personale e professionale dell’infermiere (Choudhry, Armstrong, 2017). Gli infermieri devono fare i conti con attività che sembrano andare contro il loro ruolo professionale e allo stesso tempo provvedere alle cure per i pazienti-detenuti con bisogni di salute complessi. Tuttavia, l’infermiere che lavora all’interno delle carceri sembra sviluppare, nel corso del tempo, competenze specifiche che gli permettono di fornire cure appropriate al paziente-detenuto. Queste competenze possono condurre ad un cambiamento di identità professionale, permettendo all’infermiere stesso di lavorare efficacemente negli istituti penitenziari (Choudhry, Armstrong, 2017). In ogni caso, le conclusioni dello studio suggeriscono che sarebbe opportuno garantire idonei processi di orientamento per i nuovi infermieri, unitamente ad un’adeguata formazione (Choudhry, Armstrong, 2017).
Uno studio qualitativo implementato in Italia ha messo in evidenza come la contrapposizione tra sicurezza carceraria e priorità dell’assistenza infermieristica generi problemi di carattere etico e disagio tra gli infermieri, determinando alti tassi di turnover, con un impatto negativo sul continuum assistenziale e sulla relazione terapeutica tra pazienti e infermieri (Sasso et al., 2018).
Da quanto sopra (considerando la normativa vigente e gli studi analizzati), emerge l’utilità di concentrare l’attenzione sugli infermieri operativi nelle carceri. Data l’importanza dell’argomento, il presente studio si propone di esplorare i vissuti degli operatori che quotidianamente vivono la professione all’interno degli istituti penitenziari, come base di partenza per la proposta e l’implementazione di congrui progetti di miglioramento.

MATERIALI E METODI
Per rispondere ai quesiti “Quali sono i vissuti esperienziali degli infermieri che lavorano all’interno degli istituti penitenziari? Quali sono le criticità prevalenti, le aree di miglioramento e i punti di forza dell’esercizio professionale in carcere?”, è stato implementato uno studio qualitativo fenomenologico (fenomenologia trascendentale) (Giorgi, 2007, Giorgi, 2012). Nella fenomenologia trascendentale la finalità è quella di ottenere una descrizione pura delle esperienze individuali. Questo approccio si concentra sulla comprensione di come i fenomeni si presentano alla coscienza, attraverso la descrizione dell’essenza stessa del fenomeno (Giorgi, 2007, Giorgi, 2012). L’esplorazione dell’esperienza vissuta in sé (essenza) e della sua struttura generale e invariante, ha consentito la scoperta della realtà degli infermieri. Infatti, in questo approccio i ricercatori mettono da parte le loro esperienze e conoscenze, in modo da assumere una prospettiva nuova verso il fenomeno e per scoprire, appunto, la vera essenza delle esperienze vissute (Creswel, 2013).
Sono stati intervistati infermieri operativi in un carcere per adulti da almeno un anno, all’interno di un istituto penitenziario afferente ad un’azienda sanitaria del centro Italia, che hanno scelto di partecipare volontariamente all’indagine e desiderosi di raccontare la loro esperienza (campionamento propositivo) (Fain, 2004). Non sono stati applicati ulteriori criteri di inclusione/esclusione per il coinvolgimento dei partecipanti, allo scopo di effettuare un campionamento omogeneo ma basato sul principio della massima variazione (Sandelowski, 2000, Teddlie, 2007).
Gli infermieri sono stati reclutati con il supporto dell’infermiere coordinatore del carcere, che ha organizzato gli spazi e i tempi per la condivisione dell’indagine da parte dei ricercatori e per l’effettuazione delle interviste.
Le interviste sono state realizzate in una stanza all’interno dell’istituto penitenziario. Durante l’intervista è stata garantita la privacy. Per ogni intervistato sono stati messi a disposizione una bottiglia di acqua e un bicchiere.
Le interviste sono state effettuate nel 2018 da un singolo autore, estraneo al contesto e che non aveva precedenti rapporti di conoscenza con i partecipanti. Prima dell’effettuazione delle interviste il ricercatore ha eseguito il bracketing (Creswel, 2013). Nello specifico, il ricercatore ha raggruppato le proprie conoscenze e opinioni sull’assistenza sul lavoro negli istituti penitenziari e le ha appuntate su un quaderno, allo scopo di entrare in contatto in modo genuino col fenomeno e di descriverlo fedelmente, così com’è stato percepito dai soggetti. (Richards, Morse, 2009). Le interviste in profondità sono state realizzate faccia a faccia e audio-registrate. Il ricercatore ha invitato la persona a presentarsi (fase di riscaldamento e accoglienza) e a raccontare la propria esperienza lavorativa attuale (open question “Lavorare in carcere…”). Sulla base dei vissuti al momento toccati dalla persona e attraverso domande (key questions “Le maggiori difficoltà…”; “I punti di forza…”), sono stati indagati i sentimenti provati e le percezioni vissute durante il percorso lavorativo all’interno dell’istituto penitenziario.
Durante l’intervista il ricercatore si è limitato ad osservare la congruenza tra quanto dichiarato dal partecipante e il suo atteggiamento non verbale (postura, mimica facciale, tono della voce, enfasi data alle espressioni, ecc.) e la presenza/assenza di manifestazioni comportamentali di disagio, stress o ansia eccessivi rispetto al preciso momento. Al termine dell’intervista il ricercatore ha puntualizzato e ripetuto gli aspetti espressi dalla persona, al fine di avere conferma degli elementi salienti emersi (assessment of the credibility). Il ricercatore ha intervistato soggetti fino alla saturazione dei dati (Fain, 2004), cioè fino a quando i dati raccolti non fornivano più nessuna nuova informazione e risultavano ridondanti, non suscitando più nuove intuizioni (Blasi, 2010).
Tutte le audio-registrazioni sono state trascritte su un foglio elettronico in formato .doc creando un distinto documento per ogni intervista (primary documents). Ogni intervista è stata codificata mediante l’attribuzione di un numero da 1 a 14.
Le trascrizioni hanno riportato fedelmente tutto il “parlato” emerso durante l’intervista.
Per un supporto nell’analisi dei dati narrativi è stato utilizzato il programma ATLAS.TI. (Atlas.ti_ The Qualitative data analysis & Research Software, https://atlasti.com).

Modalità di analisi dei dati
L’analisi dei dati è stata condotta da due autori, previa effettuazione del bracketing. I dati sono stati letti più volte da due autori individualmente, uno dei quali aveva condotto le interviste.
Successivamente, i dati narrativi sono stati analizzati secondo passaggi analitici, consistenti nell’individuazione dei temi ricorrenti (Creswel, 2013). Nello specifico, le trascrizioni sono state lette più volte da due autori individualmente.
Ogni autore ha generato delle etichette (code), dopo aver selezionato citazioni esemplificative per illustrarle (frasi espresse dai partecipanti). In seguito, i code sono stati raggruppati in temi in base al loro significato e alla loro relazione.
Ogni tema è approfondito e sostenuto da almeno due code. Successivamente, i due autori si sono confrontati per giungere ad un accordo comune sulle etichette, sui temi e sulla loro denominazione (triangolazione dell’analisi dei dati) (Chiari et al., 2014). Tra i temi individuati dai due autori singolarmente non ci sono state discordanze.
Dopo l’elaborazione dei dati, è stato effettuato il member check (Chiari, Mosci et al., 2014) ossia, il ricercatore ha esposto ai partecipanti, individualmente, le tematiche emerse e i code, chiedendone la conferma o la smentita rispetto ai vissuti personali.
I partecipanti hanno dichiarato il loro accordo su quanto presentato (si sono “trovati” nelle tematiche e nei code esposti).
I risultati vengono riportati mediante presentazione della tematica e con inclusione dei relativi code (in grassetto) che la sostengono. Per ogni code sono riportate alcuni frasi dette direttamente dai partecipanti durante le interviste con relativa codifica (almeno una frase per ogni code), a garanzia della fedeltà dei risultati stessi.

Aspetti etici e confidenzialità
L’indagine è stata realizzata dopo approvazione della direzione aziendale e dopo acquisizione del parere favorevole da parte del Comitato Etico Locale (forniti il 26.09.2017).
Tutti i partecipanti hanno manifestato il loro consenso in forma scritta. Il consenso è stato richiesto al momento in cui è stata proposta la partecipazione all’intervista presentando verbalmente l’indagine. L’identità dell’intervistato è conosciuta dal solo intervistatore. L’indagine ha rispettato i parametri previsti per la riservatezza delle informazioni secondo l’art. 13 del D. L.vo 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche e integrazioni.

RISULTATI
Sono stati intervistati 14 infermieri, 4 maschi e 10 femmine, con un’età media di circa 39 anni. Alcuni dipendenti dell’azienda sanitaria e la maggior parte assunti tramite cooperativa, prevalentemente assegnati al settore giudiziario (dove sono detenute le persone in attesa di giudizio). La media degli anni di lavoro in carcere è di 8,64 (DS±9,73) (Tabella 1). I dati narrativi ottenuti sono stati analizzati allo scopo di portare alla luce gli aspetti salienti dell’esperienza e dei vissuti relativi all’operatività all’interno del carcere, evidenziando la comunalità dei vissuti e delle percezioni, ma allo stesso tempo sottolineando le differenze. Le interviste hanno avuto una durata media di 40 minuti. Durante le interviste i partecipanti sembravano a loro agio e non hanno manifestato comportamenti che orientassero il ricercatore a ipotizzare uno loro stato di ansia o stress. Sono emerse 5 tematiche fondamentali, con un totale di 13 code correlati (Tabella 2).

Variabili N*_ media (±DS), range**
Sesso M 4*

F 10*

Età 39,64 (11,97), 26-62**
Anni di lavoro in carcere 8,64 (9,73), 1-34**
Settore assegnazione Giudiziario

Penale Assistiti

Accoglienza

 

6*

3*

3*

2*

Dipendenti AUSL

Dipendente cooperativa

4*

10*

Tabella 1. – Caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti.

TEMATICA CODE (ETICHETTE)
Il lavoro in carcere come “scelta-non scelta” e come solo “auspicato” momento di passaggio La NON scelta di lavorare in carcere
Necessità di cambiamento
 

L’approccio con il detenuto e gli ostacoli alla relazione di cura

La conoscenza del reato commesso e il pregiudizio
Approccio da tenere con il detenuto
Barriera linguistica e culturale
Lo scambio/spaccio tra detenuti come ostacolo alla cura
 

Il problema della sicurezza

Gli     infermieri    spesso     vittime    di     violenza

(Aggressioni fisiche, Insulti e offese, Minacce)

La polizia penitenziaria e i problemi di sicurezza
 

 

Le peculiarità del lavoro in carcere

Il peso del carico emotivo
L’importanza     della      coesione      del      team infermieristico
Necessità di formazione specifica, esperienza e

supporto organizzativo

 

L’Identità professionale in carcere

Alti standard di assistenza offerti
La soddisfazione per il proprio operato, grazie all’impegno nel portare avanti “la professione”

Tabella 2. –Tematiche emerse e relativi code.

TEMATICA 1: Il lavoro in carcere come “scelta- non scelta” e come solo “auspicato” momento di passaggio
Tra gli intervistati, soltanto un’infermiera ha deciso consapevolmente di lavorare in carcere, per fare una nuova esperienza dopo diversi anni di lavoro in ambito territoriale (assistenza domiciliare), chiedendo un trasferimento dal luogo dove lavorava in precedenza. Tutti gli altri in qualche maniera ci si sono trovati, da qui la NON scelta di lavorare in carcere: “Non è stata una mia scelta lavorare qui.”(5); “Venni a lavorare in carcere per caso, in attesa di una stabilità, la presi come un’esperienza.” (3); “È stata l’agenzia a cui mi ero affidato a mandarmi in carcere, non è stata una mia scelta.” (4); “Non ho iniziato a lavorare qua per scelta, ma per caso.” (9).
Quando si entra a lavorare in carcere si scopre un vero e proprio mondo, un mondo che non si può capire se non entrandovi a “farne parte”. Tutti gli infermieri intervistati, ad eccezione di una sola persona (la stessa che ha scelto consapevolmente di lavorare all’interno del carcere), hanno espresso la forte necessità di cambiamento, il desiderio di chiudere questo spaccato di vita professionale, la voglia di concludere quest’esperienza e ricominciare un nuovo cammino: “<em>Se avessi la possibilità me ne andrei, questa era un’esperienza, vorrei provare e vedere altro. Ho voglia di chiudere questo capitolo lavorativo e voltare pagina.” (1); “Io penso che quella che inizialmente chiamavo esperienza, sia stata fatta vorrei andare via, me ne andrei subito, il carcere non è il mio posto.” (3); “Se mi proponessero di andare via me ne andrei, dopo tanti anni sembra che fai anche tu la galera, con la differenza che ritorni a dormire a casa.” (13). Invece, l’infermiera che ha scelto di lavorare in carcere ha espresso la volontà di rimanere: “Non andrei via, ci sono tante cose che ho ancora voglia di fare, di migliorare, vorrei estendere i nostri progressi fatti qui anche in altre carceri, che purtroppo sono molto arretrate rispetto a questa realtà.” (2).

TEMATICA 2: L’approccio con il detenuto e gli ostacoli alla relazione di cura
In carcere ci sono persone che hanno commesso un reato, ciascuna con una propria storia, con le proprie esperienze, speranze, timori; ogni persona è un caso a sé. Tuttavia, gli infermieri ammettono che la conoscenza del reato commesso e il pregiudizio generino delle emozioni che potrebbero compromettere l’approccio con il detenuto stesso:
“(…) son pur sempre delinquenti. (…). Io non so chi ho di fronte e quale reato hanno commesso, perché saperlo influisce tanto, a volte lo sai perché sono casi eclatanti, altre volte sono loro stessi che te lo raccontano (…).” (8). Nonostante ciò, la maggior parte degli infermieri ha imparato a non far prevalere il pregiudizio sul proprio operato: “Ho imparato a comportarmi in maniera ‘normale’, ho imparato a non giudicare cosa hanno fatto, il mio compito è quello di valutare soltanto il loro stato di salute.” (4); “(…) Per me il rispetto è la prima cosa nella vita, nei rapporti interpersonali, in tutto, per cui non gli ho mai mancato di rispetto pensando agli errori commessi da loro o pensando che non meritavano qualcosa. Sono del parere che ci pensa la legge e che quello che gli spetta è giusto che gli venga dato” (5).
Fare l’infermiere in ambito detentivo è più complesso di quanto si pensi, la metodologia adeguata di lavoro si acquisisce con il tempo, con l’esperienza. Secondo gli intervistati, occorre trovare ed inventare un modo nuovo per approcciarsi, perché i detenuti hanno commesso un reato, ma non sono fotografie bensì persone, “storie” proprio come tutti noi. Dunque, quale approccio da tenere con il detenuto? Per garantirgli adeguata assistenza occorre soprattutto considerarli pazienti, seppur mantenendo nei loro confronti le opportune distanze: “All’inizio è stato parecchio incosciente il mio modo di pormi, ero molto giovane, non mi ponevo nessun problema ad essere tranquilla ed aperta con loro.” (5); “Il rapporto con i detenuti l’ho impostato sulla disponibilità, sul venirsi incontro, sul capire le loro necessità e soprattutto sull’educazione, però allo stesso tempo ho impostato una certa autorità.” (8); “(…) l’importante è porre dei limiti ed esser bravo a non superarli.” (1); “(…) con alcuni detenuti inevitabilmente si instaura, una sorta di fiducia che ti fa abbassare un pochino le difese, ma mai totalmente.” (5); “L’approccio con i detenuti è complicato e difficile, devi cercare di capire quali sono i loro reali bisogni, non devi respingerli mai, ma allo stesso tempo non devi mai superare certi limiti” (13).
Gli infermieri hanno espresso le loro difficoltà nell’instaurare una relazione di cura, spesso legate alla forte barriera linguistica e culturale soprattutto con i detenuti nord africani, arabi, rumeni e albanesi. Spesso è difficile comprendere questi pazienti nei loro bisogni fisici ed emotivi sia per la lingua che per un’incapacità di “decodificare culturalmente” i comportamenti o le situazioni: “La difficoltà maggiore sta nel relazionarti con i pazienti che non parlano l’italiano, nonostante io sappia parlare un po’ di inglese, di spagnolo e di francese, qualcuno di loro non comprende proprio quello che gli dici, nonostante cerchi in tutti i modi di spiegarglielo, vuoi per un tipo di cultura diversa, vuoi per un tipo di educazione diversa, non capiscono. Circa l’80% dei nostri pazienti sono nord africani, il 10% sono rumeni ed albanesi e quello che rimane sono italiani. C’è un livello di difficoltà di comunicazione altissimo.” (1); “La difficoltà che incontro tutti i giorni è la lingua, quando ti chiedono qualcosa e non li capisci è brutto, si prova con i gesti, ma spesso non li capisci lo stesso, non sai come aiutarli. Diventa ancora più difficile quando si tratta di pazienti rumeni, georgiani, albanesi, non si sforzano, proprio non capiscono.” (6). Talvolta, la visione della detenzione, da parte del detenuto stesso, varia proprio in relazione alla sua etnia: “(…) Qui di italiani ce ne sono pochissimi, non è facile rapportarsi alle altre culture. Alcuni l’arresto lo sottovalutano, altri non comprendono bene cosa gli stia succedendo (…)” (3).
Inoltre, dalle interviste è emerso che i detenuti tentano di accumulare la terapia, richiedendone sempre dosi maggiori, per utilizzarla come oggetto di scambio/spaccio. La sera i detenuti, per un paio di ore, hanno la possibilità di socializzare tra loro ed è proprio in questo momento che avviene “il mercato”, cioè lo scambio di qualsiasi cosa (di solito il bottino più ambito sono le sigarette). La difficoltà che riscontrano medici ed infermieri, è quella di riuscire ad interpretare il vero bisogno di salute (lo scambio/spaccio tra detenuti come ostacolo alla cura): “C’è un ‘mercanteggiare’ continuo da parte dei tossicodipendenti, vogliono sempre di più, chiedono sempre tanta terapia, non è semplice gestirli.” (2); “La maggior parte spaccia le pasticche, fanno finta di assumerle… poi ti volti e le sputano per conservarle, oppure richiedono dosi maggiori.” (4); “Per esempio, se c’è un detenuto che ha qualche soldo in più perché magari lavora, fa la spesa sia per lui che per l‘altro detenuto e quest’ultimo deve procurargli antidolorifici, antipsicotici e antidepressivi. Le compresse di Tavor se le giocano a carte. Anche una penna può essere il bottino del giorno.” (5); “All’interno del carcere c’è un vero e proprio mercato (…)” (10); “Esiste uno spaccio degli psicofarmaci in compresse (…)” (11).

TEMATICA 3: Il problema della sicurezza
Le aggressioni, le minacce, le offese e gli insulti sono elementi che caratterizzano le giornate di chiunque lavori in questo contesto (gli infermieri spesso vittime di violenza).
Quasi tutti gli infermieri che sono stati intervistati hanno preso parte ad un processo oppure hanno denunciato l’accaduto ed aspettano di essere chiamati in tribunale. Non è semplice non reagire a determinate parole e a determinate situazioni contingenti: il coinvolgimento emotivo è molto alto, ma occorre riuscire a mantenere la calma.
Tanti sono i casi segnalati di aggressioni fisiche: “Potrei iniziare a citarti una caffettiera lanciata fino ad arrivare alle aggressioni in infermeria. C’era un detenuto che disturbava gli agenti, cercava in tutti i modi di farsi picchiare e qualcuno ha reagito perché aveva davvero esagerato, a quel punto è impazzito, aveva ottenuto quello che voleva, ha iniziato a fingere di sentirsi male, è stato portato in infermeria ed ha distrutto tutto, ha lanciato qualsiasi cosa, urlava come un pazzo.” (1); “Ho subito un’aggressione, mi hanno lanciato una bomboletta incendiata.” (8); “Una mattina mentre facevo il giro della terapia un paziente aveva delle mele verdi, ha iniziato a lanciarle addosso a me ed al poliziotto senza un motivo.” (13); “Mi ha colpito sul polso con la sua mano e per fortuna non con la lametta che aveva nell’altra mano.” (4); “Ho ricevuto anche una sedia in testa.” (6).
Le aggressioni verbali, come insulti e offese mettono a dura prova, al punto di spingere l’infermiere all’eventualità di licenziarsi o, al contrario, a non farci più caso: “C’era un detenuto che mi aveva presa di mira, mi aggrediva verbalmente, mi offendeva, veniva sempre in infermeria quando c’ero io e quindi l’avevo presa male, mi veniva l’angoscia quando dovevo venire a lavorare, volevo andare via, volevo licenziarmi poi mi hanno consigliata di denunciare l’accaduto, l’ho fatto e sono ancora in attesa del processo.” (3); “Ricevo infiniti insulti quasi tutti i giorni, ma io non ci faccio più caso (…). Non sono offese belle: ‘puttana, sporca, negra’, ma oramai non ci resto neanche male, sono talmente abituata, tanto da considerare gli insulti come il mio caffè: come la gente beve il caffè io ricevo le offese.” (13). Molto più difficile sembra abituarsi a subire Minacce, infatti, molte denunce sono legate proprio a queste: “Ho avuto un processo, per minacce di morte: ti ammazzo, quando esco di qui non immagini quello che ti succede”. (1); “Ti verrò a cercare fuori, ti mando al pronto soccorso, ti uccido, uccido te e tutta la tua famiglia, ti dovrebbero mettere sulla sedia elettrica.” (12).
Tutti gli intervistati si lamentano della scarsa sicurezza che li circonda, anche a causa dell’inesperienza o della distrazione degli agenti di polizia penitenziaria nella gestione dei detenuti; come ad esempio il mancato avviso all’infermiere dei detenuti mandati in infermeria, la mancata perquisizione dei detenuti prima dell’ingresso in infermeria, la disattenzione nella tutela della riservatezza degli infermieri (la polizia penitenziaria e i problemi di sicurezza): “Ci sono agenti molto giovani che hanno iniziato da poco a lavorare in questo contesto e non sanno gestirlo, non sanno gestire i detenuti, valutano poco.” (4); “Dipende tutto dall’agente che trovi in turno quel giorno, se è coscienzioso e sa fare il suo lavoro, non ti lascia mai da sola.” (5); “Quando entri nel reparto, in base all’agente che c’è, sai come potrebbe andare il turno. (…). Una cosa negativa è che non accompagnano quasi mai i detenuti in infermeria, li mandano e noi ce li ritroviamo senza sapere nulla.” (6); “(..) Mi è capitato di fare medicazioni a detenuti che si erano tagliati ed in una mano avevano ancora la lametta, devi stare lì a discutere per fargliela buttare, poi alla fine ti ascoltano, ma non dovrebbe essere nostro compito.” (8); “A livello di sicurezza, sono tranquilla in base a chi c’è in turno (…).” (11).

TEMATICA 4: Le peculiarità del lavoro in carcere
Agli infermieri che lavorano in carcere talvolta accade che il peso del carico emotivo impedisca di svolgere al meglio il proprio lavoro; con il passare del tempo si tende a cedere, a perdere la concentrazione e a volte persino a perdere di vista gli obiettivi principali del piano assistenziale.
Prendere parte a situazioni come suicidi, gesti autolesionisti o essere succubi di continue aggressioni e minacce incide sul rendimento lavorativo.
Il pesante carico emotivo unitamente al carico di lavoro mettono a dura prova quotidianamente: “Secondo me, prima di entrare in questo posto, tutti dovremmo fare un corso [test] psicologico e rifare delle valutazioni man mano che restiamo a lavorare qui.” (4); “È un contesto particolare, ti forma, ti dà molto coraggio, forse ti forma il carattere. Il mio primo intervento l’ho dovuto fare su una paziente che si era impiccata, l’ho dovuta rianimare, mi ci è voluto un po’ di tempo prima di superarlo a livello psicologico.” (3); “Noi qui non facciamo solo il lavoro di infermieri, noi siamo il loro psicologo, le loro educatrici, la loro spalla a volte.” (6); “Il carico e la mole di lavoro sono tanti, un singolo paziente ti toglie tanta energia, il carico psicologico è alle stelle, se vuoi fare le cose per bene c’è bisogno di tempo (…).” (7).
Tra gli infermieri intervistati emerge l’importanza della coesione del team infermieristico, alcuni ritengono che la squadra che si è formata sia stata in qualche modo la loro ancora di salvezza, il punto di forza: “Le cose vanno meglio se hai la fortuna di collaborare con un gruppo come il mio che è abbastanza coordinato, siamo umili ed uniti. Prima di essere bravi professionisti, sono brave persone, siamo una squadra e so che questa cosa non è semplice da riscontrare.” (7); “Dopo il primo periodo, che io chiamo ‘di adattamento’, ho iniziato a trovarmi bene e la maggior parte di questo merito va ai miei colleghi che mi hanno aiutata e supportata, ora siamo un bel gruppo.” (9).
Altri, invece, percepiscono che il team infermieristico non sia coeso. Questi avvertono la mancanza di fiducia tra i membri del gruppo, che mette scompiglio, crea disguidi e che non fa respirare un clima sereno: “(…) Noi non siamo un gruppo coeso secondo me, ognuno a modo suo cerca di fare il meglio, ma non abbiamo tanti punti d’incontro.” (1); “Svolgo bene il mio lavoro, vorrei che fossimo più uniti, dobbiamo migliorare.” (4).
Gli infermieri hanno portato alla luce le necessità di formazione specifica, esperienza e supporto organizzativo. Una formazione specifica in ambito universitario, in merito all’operatività degli infermieri negli istituti penitenziari, è la prima proposta da parte di ogni intervistato. Inoltre, gli infermieri ritengono che il carcere sia un ambito in cui si deve lavorare dopo aver acquisito una certa esperienza professionale: “Se penso alla mia formazione, nessuno mi ha mai spiegato cosa fosse un carcere in tre anni di corso.” (8); “Il mio punto di forza è senz’altro l’esperienza.” (10); “Il tipo di formazione di base che ho fatto non contempla l’ambito penitenziario.” (1); “A mio favore gioca tanto la mia età e la mia esperienza.” (2).
Porsi degli obiettivi da raggiungere, cercare sempre nuove motivazioni o progetti, il sentire il dovere di “dare” ancora tanto, è ciò che spinge gli infermieri a cercare di creare quello che potrebbe essere definito un “microcosmo” migliore.
Gli infermieri hanno concentrato la loro attenzione su proposte di miglioramento rispetto ad alcune abilità individuali e su elementi logistici e organizzativi: “Proporrei di rivalutare lo zaino delle emergenze perché è troppo grande e pesante, considerando che devi trasportarlo insieme alla bombola dell’ossigeno, al defibrillatore e all’aspiratore, per i lunghi corridoi che dividono una sezione dall’altra, soprattutto per una donna, non è semplice sopportare quel peso.” (4); “Si dovrebbe migliorare sul fatto che noi infermieri avremmo bisogno di più stanze a disposizione per lavorare, dovremmo essere più numerosi in base ai bisogni assistenziali che ci sono.” (7); “La mia proposta sarebbe la realizzazione di una cella con tutti i presidi ed i dispositivi per detenuti con handicap (…) Non abbiamo bagni per disabili Ho dei pazienti emiplegici, anche solo per lavarli è un problema, devo farlo a letto ed il cambio delle lenzuola qui c’è due volte a settimana, la doccia non posso fargliela perché i bagni sono inutilizzabili, c’è il gradino, non ho il materiale, non ho gli strumenti (…).” (10).

TEMATICA 5: L’identità professionale in carcere
Grazie alla riforma della medicina penitenziaria (DPCM 1/04/2008), che ha determinato il passaggio della competenza in materia di salute dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, molto è cambiato dal punto di vista organizzativo. Sono migliorate le condizioni di vita del detenuto ed anche l’assistenza sanitaria garantita è di qualità. All’ingresso, ogni detenuto viene sottoposto ad un inquadramento globale, ad un percorso infettivologico, a vaccinazioni e ad una presa in carico con accertamento infermieristico.
I detenuti sono seguiti e curati nel migliore dei modi, hanno a disposizione specialisti e farmaci, i presidi sanitari sono più che sufficienti e i servizi erogati adeguati, con alti standard assistenziali offerti: “Tutte le mattine, in infermeria, ci sono i medici che fungono da medici di famiglia, quindi tutti i giorni i detenuti possono segnarsi alla visita medica e vengono ad esporre i propri problemi. Ci sono i medici che fanno servizio 24 ore su 24, abbiamo il servizio infermieristico in tutti i reparti (…). Gli specialisti che accedono al carcere sono: l’infettivologo due volte alla settimana, il chirurgo generale, il chirurgo vascolare e l’urologo una volta al mese, il dermatologo, l’ortopedico e il cardiologo una volta alla settimana, l’otorino, il neurologo e l’oculista ogni quindici giorni, il dentista che presta servizio cinque giorni su sette ed in fine ci sono le sedute di radiologia e di ecografia tre volte alla settimana. Abbiamo un servizio di CUP per le visite esterne che non si possono effettuare qui, tipo la gastroscopia e la colonscopia.
Quando entrano i detenuti, attuiamo un inquadramento globale, iniziamo dalle vaccinazioni, indaghiamo sulle malattie infettive (Epatiti, le più comuni), sulle malattie sessualmente trasmissibili (HIV) e facciamo un accurato controllo anche sulla tubercolosi.” (5); “I servizi erogati sono tanti, il livello che si offre è alto.” (10)
.
Il punto di forza comune degli intervistati è quello di non arrendersi mai e negli ultimi anni hanno vissuto tanti cambiamenti positivi, tra cui una graduale acquisizione di autonomia professionale.
Da tutte le interviste emerge una forte crescita umana e professionale, nonostante nel quotidiano si presentino difficoltà. La soddisfazione per il proprio operato grazie all’impegno nel portare avanti la “professione” è il punto cardine e si rispecchia nei numerosi e buoni servizi offerti nel setting carcerario mediante gli sforzi congiunti, sia della direzione sanitaria che infermieri operativi: “Insieme ad alcune delle mie colleghe, abbiamo impiantato il CUP [Centro Unico per le Prenotazioni] all’interno del carcere, facciamo l’accettazione dei prelievi, abbiamo l’etichettatrice, sono tutti progressi che io ho vissuto. Il mio punto di forza è quello di guardare sempre avanti, è la perseveranza del voler a tutti i costi migliorare e mettere in pratica la nostra professione. Creare un accertamento infermieristico, che un tempo era impensabile, per me è un punto d’arrivo, è stato tutto fortemente voluto da noi infermieri, abbiamo trovato il modo di elevare sempre più la nostra professione e crearci un nostro spazio dirigendo autonomamente il nostro lavoro.” (5); “Le cose sono cambiate, fino ad arrivare ad oggi che svolgo la mia professione in autonomia, decido tutto quello che devo fare e posso farlo!” (6).

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
Il presente studio ha esplorato l’esperienza di lavoro di un gruppo di infermieri all’interno di un istituto penitenziario italiano. I risultati indicano che gli tutti infermieri ad eccezione di una, si sono trovati a lavorare in carcere come prima occupazione (subito dopo la laurea o il diploma regionale di infermiere professionale) e senza una propedeutica preparazione specifica. Ciò può essere considerato una criticità dal momento che la maggior parte dei partecipanti ha espresso le difficoltà incontrate inizialmente e la voglia di cambiare setting lavorativo. Questo è in linea con studio italiano di Lazzari et al. (2020), che evidenzia come per gli infermieri lavorare in ambito penitenziario sia correlato all’intenzione di lasciare il posto di lavoro (Lazzari et al., 2020).
Allo scopo di superare tali problematiche ed in considerazione dell’importanza del ruolo di caregiver primario che l’infermiere assume nell’ambiente carcerario, poiché solitamente è il primo ad avvicinarsi al detenuto con problemi di salute ed è colui che governa l’accesso a tutti gli aspetti del sistema sanitario (La Cerra et al., 2017), risulta importante prevedere interventi educativi specifici (Sasso et al., 2018).
Un percorso di formazione mirato post-base sarebbe auspicabile unitamente all’inserimento, all’interno degli attuali corsi di laurea, di eventi informativi- formativi sull’assistenza infermieristica negli istituti penitenziari (Borri, 2015).
Una preparazione adeguata permetterebbe di prevenire lo sviluppo del disagio morale e, probabilmente, di ridurre anche la carenza di infermieri in quest’area (Lazzari et al., 2020). Inoltre, competenze specifiche sono indispensabili per fornire assistenza ai detenuti, che sono spesso pazienti difficili e manipolatori (Carnevale et al., 2018). Nel presente studio tutti gli infermieri hanno espresso il loro disagio conseguente alla difficoltà nell’instaurare una relazione terapeutica con il paziente-detenuto (Borri, Pusceddu 2004; Sasso et al 2018). Sono stati evidenziati diversi aspetti ostacolanti, tra cui le differenze culturali, la barriera linguistica e lo spaccio di sostanze. Queste sfide che gli infermieri si trovano ad affrontare sono simili a quelle evidenziate nello studio di Feron et al. (2008). I medici considerano questo fenomeno come un uso improprio del loro ruolo clinico e come un qualcosa che genera sfiducia, con difficoltà a riconoscere i buoni pazienti (quelli che hanno davvero bisogno) da quelli che “trafficano” (Feron et al., 2008). Feron et al. concludono che la comprensione dei reali bisogni dei pazienti-detenuti sia fondamentale e che anche la multiculturalità in carcere (specialmente legata alla barriera linguistica), unitamente alle richieste devianti e ai comportamenti opportunistici, renda estremamente difficile questa comprensione (Feron et al., Pestiaux et al. 2008).
D’altra parte, l’uso di sostanze stupefacenti nella popolazione carceraria è un grave problema di sanità pubblica. Infatti, già al momento dell’ingresso in carcere molti detenuti sono dipendenti da sostanze. Anche per questo motivo occorre un’ampia conoscenza del fenomeno da parte della polizia penitenziaria e degli infermieri, allo scopo di implementare adeguati interventi di gestione (Rezza et al., 2005).
Tutti i partecipanti coinvolti nell’indagine vivono il problema della “mancanza di sicurezza” (Borri, Pusceddu 2004; Norman, Parrish, 1999, Dean, 2017, Norman, Piper 2017, Sasso et al., 2018) e sono stati almeno una volta vittime di aggressioni verbali o fisiche.
Nel presente studio gli infermieri si ritengono co- autori soddisfatti delle migliorie organizzative avvenute nel carcere, degli alti standard assistenziali offerti e hanno trovato lo spazio, durante le interviste, per proporre ulteriori aspetti per il miglioramento (relativamente allo zaino per l’emergenza, alla supervisione da parte di personale esterno, all’adeguamento logistico per i detenuti disabili) (Pernazza, 2014). Inoltre, gli infermieri ritengono che l’esperienza professionale acquisita gli consenta di gestire i casi complessi (Choudhry, Armstrong 2017). L’importanza della coesione del team infermieristico è stata riconosciuta da tutti gli intervistati, ma la percezione dell’esistenza di un gruppo coeso e funzionante non è stata univoca. Per cui, questo sembra essere un aspetto sul quale focalizzarsi per rafforzare la motivazione, gestire il carico emotivo e migliorare l’efficacia dell’assistenza erogata.
Gli infermieri hanno dichiarato le loro strategie nell’approccio con i pazienti-detenuti, che consistono essenzialmente nel portare rispetto, nel cercare di capire i veri bisogni della persona e allo stesso tempo di non dare mai “confidenza”, non superare i confini. La conoscenza del reato e il pregiudizio influenzano l’approccio, per cui occorre concentrarsi sui loro bisogni di salute e non sui crimini che hanno commesso (Dhaliwal, Hirst, 2016).
Tutti gli infermieri intervistati si sentono impegnati nel “portare avanti la professione” all’interno del carcere e, nonostante il desiderio prevalente di cambiare setting lavorativo, ammettono che grazie a questa esperienza sono cresciuti a livello sia professionale (Patriarca, Borri 2011, Barbati, 2014; Borri, 2003) che personale.

Limiti dello studio
I risultati ottenuti non possono essere generalizzati all’intera popolazione rappresentata dagli infermieri operativi nelle carceri italiane. Per il presente studio non è stato condotto un audit trail (Creswel, 2013). Un approccio fenomenologico interpretativo consentirebbe una profonda comprensione dei significati dell’esperienza, unitamente all’espressione della creatività dei ricercatori (Sasso et al., 2015, Pringle et al., 2011).
Ulteriori studi con metodi misti e diverse tipologie di raccolta dati dovrebbero essere implementati al fine di esplorare nel dettaglio le condizioni psico-emotive e fisiche degli infermieri operativi nelle carceri. Ulteriori studi dovrebbero essere condotti per esplorare il punto di vista degli infermieri rispetto alle richieste di assistenza specifica dei pazienti-detenuti. Potrebbe essere utile esplorare i vissuti della polizia penitenziaria e implementare progetti di Action- Research sui fenomeni della sicurezza e del gruppo di lavoro. Sarebbe interessante comparare i vissuti degli infermieri che prestano servizio negli istituti penitenziari per adulti con quelli che prestano servizio nelle carceri minorili.

Implicazioni per la pratica clinica
I risultati del presente studio suggeriscono che gli infermieri dovrebbero poter scegliere consapevolmente di lavorare in carcere e dopo aver acquisito esperienza professionale e una formazione mirata, perché all’interno delle carceri questi possono vivere diverse criticità, che possono essere in buona parte gestite grazie all’esperienza professionale maturata e alla formazione specifica.
È importante potenziare la coesione del team infermieristico, che rappresenta un’enorme risorsa per fronteggiare il pesante carico emotivo e le impegnative attività da svolgere.
Gli infermieri che lavorano in carcere dovrebbero conoscere gli aspetti salienti delle varie culture e potenziare le loro competenze relativamente al nursing interculturale.
Per gli infermieri dovrebbe essere garantito un sostegno emotivo e il supporto da parte dell’organizzazione, specialmente per quanto concerne la sicurezza.
Sembra necessario implementare momenti strutturati per il confronto tra infermieri e polizia penitenziaria, in modo da discutere sulle criticità presenti specialmente legate alla sicurezza degli operatori. È auspicabile lo sviluppo di strumenti condivisi (come ad esempio procedure e protocolli) per facilitare l’operatività quotidiana e garantire la sicurezza degli operatori.

Conflitto di interessi
Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Finanziamenti
Gli autori dichiarano di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.

Ringraziamenti
Si ringrazia l’Infermiera Laura Diana per la collaborazione.

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