INTRODUZIONE
La compassione (dal latino cum patior, soffrire con), è definibile come “il sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla” (Volpicelli, 1978) e rappresenta l’unica condizione umana in grado di generare un’azione volta al sollievo del dolore altrui (Nussbaum, 1996, Shantz, 2007, Goetz et al, 2010). La compassione chiede di andare dove fa male, di entrare nei luoghi del dolore, di condividere la rottura, la paura, la confusione e l’angoscia, permettendo il dispiegarsi di atti compassionevoli grazie ai quali, citando le parole di Mortari (2013a), “il dolore dell’altro, non resta altro”.
La motivazione ad alleviare le sofferenze altrui rappresenta l’elemento centrale del sentimento di compassione e “chi prova compassione percepisce la forza di questa condivisione e della connessione con l’intero genere umano e subito sente sollievo”. (Zighetti, 2016).
Per Shantz (2007), la compassione risulta essere il bene più prezioso dell’assistenza infermieristica e la prestazione di cure compassionevoli è più di un mandato professionale o un attributo di un modello espresso in termini teorici: è il risultato di un legame autentico tra infermiere e paziente (Burnell, 2009), capace di generare profonda gratificazione (Sacco e Copel, 2017). Sinclar e colleghi (2017) specificano infatti che l’azione compassionevole genera conseguenze positive nei pazienti, rendendoli maggiormente partecipi al percorso di cura e in grado di percepire positivamente la qualità dell’assistenza fornitagli, e sviluppa nei curanti gratitudine e accrescimento della motivazione all’aiuto.
Tuttavia, l’espressione del sentimento di compassione espone gli infermieri ad un alto rischio di affaticamento emotivo, definito dalla letteratura “compassion fatigue” (Coetzee e Klopper, 2010, Sacco e Copel, 2017, Peters, 2018), ovvero uno stato prevenibile di esaurimento che si manifesta come un declino di energie fisiche ed emotive – derivante dall’esposizione cronica alla sofferenza degli altri – e con rabbia, impotenza, disagio ed elevato stress (Peters, 2018).
La pandemia di Covid-19, che ha coinvolto in modo profondo il nostro Paese, ha messo di fronte gli infermieri ad uno scenario di estrema sofferenza, causato sia dai numeri imponenti del contagio e dalle restrizioni imposte, sia dall’incertezza clinica e organizzativa che ha accompagnato particolarmente il picco epidemico durante la prima ondata.
In Italia, nei mesi di marzo e aprile 2020, si è assistito infatti ad una richiesta enorme di cura e di assistenza alle persone contagiate e con sintomi gravi, che si sono riversate nelle strutture di ricovero e cura impegnate a riorganizzarsi – per riuscire a sostenere l’impatto sull’intero sistema – attraverso il potenziamento delle terapie intensive, la creazione di reparti dedicati e il convogliamento di tutte le risorse professionali nella cura dei pazienti positivi. (Spina et al., 2020).
Gli infermieri hanno lavorato con ritmi di lavoro frenetici, nel rigoroso rispetto delle faticose procedure di vestizione (Nacoti et al. 2020, Bagnasco et al, 2020, Liu et al, 2020, Nie et al., 2020, Carr, 2020), convivendo con la paura del contagio e con quella di diventare essi stessi vettori di infezione per i propri cari (Chiang et al., 2007; Bagnasco et al., 2020; Nacoti et al., 2020).
In aggiunta, i professionisti hanno vissuto un’esperienza di disagio e di impotenza correlata allo stretto contatto il dolore, con la sofferenza e con la solitudine dei pazienti, divenendo il loro unico punto di riferimento (Arcadi et al. 2020; Sun et al., 2020a; Liu et al, 2020).
La pandemia, infatti, ha costretto i pazienti alla distanza, alla solitudine e all’isolamento dai propri affetti (Harden et al., 2020), otre all’impossibilità di essere degnamente accompagnati nel momento della morte (Pattison, 2020, Schroeder et al, 2020). La pandemia è diventata presto non più solamente un’emergenza sanitaria, ma una vera e propria emergenza relazionale, nella quale l’infermiere ha rivestito un ruolo cardine, bussola nell’orientare il paziente nel buio dell’incertezza e della paura provati a seguito del contagio (Zhang et al., 2020).
Si è creato un parallelismo sinergico tra pazienti ed infermieri, costringendo spesso quest’ultimi a vivere nella stessa condizione di solitudine degli assistiti, lontani dai propri affetti familiari (Turale, 2020). Tale situazione ha provocato un forte affaticamento emotivo e psicologico che ha determinato un aumento di stati d’ansia, disturbi del sonno, stress e sintomi depressivi (Barello et al, 2020, Huang & Zhao, 2020; Jackson et al., 2020; Kang et al., 2020; Lai et al., 2020; Simonetti et al., 2020; Usher, Durkin, & Bhullar, 2020; Zhang et al., 2020). Nonostante tale disagio percepito, gli infermieri hanno manifestato una forte capacità di coping, anteponendo lo spirito di servizio al soddisfacimento dei propri bisogni e benessere psico-fisico (Kang et al., 2018; Fernandez et al., 2020; Sun et al., 2020), e facendo emergere atti di compassione, coraggio e resilienza nell’assistenza ai pazienti contagiati (Legido-Quigley et al., 2020; Liu et al., 2020; Smith et al., 2020).
Gli studi effettuati fin ora non si sono però addentrati nelle modalità con le quali si sono manifestate le azioni compassionevoli, e mancano studi nel contesto italiano.
Data l’importanza della condizione umana di compassione nell’assistenza infermieristica, in tutta la sua essenza, risulta pertanto necessario indagare primariamente come essa si sia manifestata nel vissuto degli infermieri impegnati nell’assistenza ai pazienti affetti da Covid-19 nel nostro Paese.
Scopo del presente studio è dunque quello di esplorare il sentimento di compassione nel vissuto degli infermieri impegnati nella prima ondata di pandemia di covid-19 in Italia, al fine di evidenziarne gli attributi fondamentali.
MATERIALI E METODI
Disegno di studio
Studio qualitativo descrittivo
Campione
È stato utilizzato un campionamento propositivo secondo criterio (Polit e Beck, 2014). Sono stati arruolati infermieri operanti in strutture ospedaliere e territoriali, pubbliche e private, presenti sul territorio italiano. Sono stati inclusi nello studio infermieri che hanno lavorato continuativamente nell’assistenza diretta a pazienti con diagnosi di Covid-19 nei mesi di marzo e aprile 2020; il periodo scelto coincide con il picco pandemico descritti nel background. Sono stati esclusi infermieri risultati positivi al SARS CoV-2 nel periodo considerato, poiché tale elemento avrebbe potuto influenzare il vissuto relativo al tema di indagine. Il campionamento si è protratto fino al raggiungimento della saturazione dei dati (Della Porta, 2014).
Raccolta dati
La raccolta dei dati è stata effettuata nei mesi di giugno e luglio 2020.
I dati sono stati raccolti mediante intervista in profondità realizzata con sistema di videochiamata a scelta dell’intervistato. In accordo con la legislazione vigente in merito al trattamento dei dati sensibili ed il rispetto dell’anonimato, prima dell’effettuazione di ogni intervista, ciascun partecipante ha fornito il proprio consenso verbale all’audio registrazione, previa lettura dello stesso da parte dei ricercatori.
Le interviste vertevano sulle seguenti domande:
In base alla sua esperienza professionale e personale, cosa significa per lei il termine “compassione”?
Può raccontarmi una o più situazioni in cui ha vissuto la compassione nell’assistenza ai pazienti affetti da Covid-19?
Per ogni intervista sono state redatte le note di campo, riportate sotto forma di brevi commenti.
Per garantire l’affidabilità dello studio eseguito è stata realizzata un’intervista di pilota con lo scopo di perfezionare il metodo e gli strumenti utilizzati per la raccolta dei dati (Weiss, 1995).
Analisi dei dati
Le interviste effettuate sono state audio registrate e successivamente trascritte integralmente attribuendo un codice identificativo a ciascuna intervista.
L’analisi dei dati si è condotta seguendo il metodo della Qualitative Content Analysis (Graneheim e Lundman, 2004), e praticando il bracketing in tutte le fasi (Fain, 2004). Si è proceduto all’individuazione di unità di significato presenti in ciascuna intervista, ovvero frasi significative o parole chiave per il contenuto espresso rispetto all’argomento di studio, avvalendosi di un approccio selettivo. Le differenti unità di significato sono state raggruppate tra loro per similitudine di significati espressi e dall’accorpamento delle stesse sono emerse una serie di sottocategorie differenti tra loro. Successivamente le sottocategorie sono state condensate per affinità di contenuti in categorie le quali, infine, sono state catalogate dando origine alle tematiche principali (Weiss, 1995).
Per garantire l’affidabilità dell’intero percorso di ricerca, l’analisi e la codifica delle trascrizioni è stata condotta in forma indipendente dai ricercatori ed è stata successivamente effettuata una validazione consensuale.
Non è stato usato un software per l’analisi dei dati.
L’analisi si è conclusa al raggiungimento della saturazione dei dati.
Considerazioni etiche
La partecipazione allo studio è avvenuta su base volontaria.
È stato chiesto a tutti i partecipanti un consenso scritto alla registrazione audio delle interviste. Per garantire l’anonimato della persona, ciascuna trascrizione dell’intervista è stata codificata numericamente in ordine crescente. La ricerca si è svolta secondo le linee guida di Helsinki.
RISULTATI
Sono stati intervistati 20 infermieri, prevalentemente di sesso femmine, (n = 13, pari al 65%), con età media di 39,7 anni (DS = 7,86).
I principali dati socio-demografici sono riportati nella tabella 1.
La durata media delle interviste è stata di 40 minuti (la più breve è durata 30 minuti, la più lunga 60 minuti). L’analisi dei dati ha permesso di ricavare 27 sottocategorie.
Dalla condensazione delle sottocategorie per similitudine di contenuto, sono state evidenziate 11 categorie, sintetizzate in 4 temi principali.
Genere | Età | Area lavorativa in relazione al periodo covid | Anni di esperienza lavorativa | Regione di provenienza | |
001 | Femmina | 29 | Area critica | 5 | Lombardia |
002 | Femmina | 45 | Degenza covid | 21 | Toscana |
003 | Maschio | 35 | Area critica/territorio | 10 | Emilia-Romagna |
004 | Femmina | 31 | Degenza covid/territorio | 9 | Lombardia |
005 | Femmina | 35 | Area critica | 12 | Lombardia |
006 | Femmina | 38 | Area critica | 14 | Basilicata |
007 | Femmina | 45 | Degenza covid | 26 | Lombardia |
008 | Maschio | 27 | Degenza covid | 4 | Campania |
009 | Femmina | 37 | Servizi territoriali (ADI) | 14 | Lombardia |
010 | Femmina | 31 | Area critica | 8 | Lombardia |
011 | Femmina | 45 | Area critica | 20 | Lombardia |
012 | Femmina | 38 | Terapia sub-intensiva | 15 | Lazio |
013 | Femmina | 54 | Area critica | 7 | Liguria |
014 | Maschio | 41 | Area critica | 17 | Lazio |
015 | Maschio | 34 | Area critica | 6 | Emilia-Romagna |
016 | Femmina | 49 | Degenza covid | 30 | Emilia-Romagna |
017 | Femmina | 47 | Degenza covid | 22 | Veneto |
018 | Maschio | 54 | Area critica | 23 | Lombardia |
019 | Maschio | 36 | Area critica | 9 | Lombardia |
020 | Maschio | 43 | Area critica | 20 | Veneto |
Tabella 1. – Caratteristiche socio demografiche partecipanti.
La tabella sottostante (Tabella 2) rappresenta le sottocategorie, le categorie ed i temi emersi dall’analisi dei dati.
Fattori che hanno generato il sentimento di compassione
Dalle parole narrate sono emersi alcuni fattori che, più di altri, hanno fatto scaturire il sentimento di compassione negli intervistati. In primo luogo, la condizione di solitudine nella quale versavano i pazienti ha determinato un vissuto di estrema sofferenza negli infermieri. La mancata vicinanza degli affetti nella quotidianità, e in particolar modo nel momento drammatico della morte, ha suscitato un dolore emotivo capace di esitare in azioni compassionevoli. In ogni attimo della relazione di cura la solitudine diveniva manifesta attraverso il pianto, la verbalizzazione della mancanza del focolaio domestico, gli sguardi smarriti ed impauriti, come citato in questo stralcio: “la solitudine che hanno provato, secondo me, non è paragonabile (…), il pensare alla loro solitudine mi ha fatto provare compassione, mi ha fatto iniziare a capire che forse dovevamo rimettere in gioco un po’ anche quel sentimento” (intervista 001) e anche nelle parole di questo collega: “Le persone che ho visto morire, in quel momento, era come se mi dicessero attraverso il loro sguardo: non mi lasciare, non mi abbandonare, almeno tu!” (intervista 008).
L’intero processo del morire è stato vissuto come alterato, e tale da muovere a compassione i partecipanti allo studio. Una morte improvvisa, inaspettata, e spogliata della sua dignità: queste le parole ricorrenti nelle interviste effettuate.
“dovevamo prendere un bidone con 1L di candeggina e 9L di acqua ed immergervi le lenzuola con le quali avremmo avvolto la salma completamente nuda (…), questa preparazione mi ha devastata [si commuove], dove sta la dignità in tutto questo?” (intervista 013).
Nella prima ondata pandemica, infermieri e pazienti sono stati accomunati dallo stesso sentire; fattore, quest’ultimo, che ha facilitato l’espressione di atti compassionevoli e di spinta all’aiuto. Dalle interviste, infatti, è emersa una completa identificazione nei pazienti, data dalla consapevolezza di vivere il medesimo rischio di contagio, la stessa condizione di solitudine e la comune misconoscenza della malattia e delle sue conseguenze.
“Pensavi sempre che non fossi immune dal covid-19, poteva succedere anche a te di essere contagiato essendo una persona normale (…) in quel caso ho provato maggiormente questo sentimento perché immaginavo come sarebbe stato dall’altra parte, se ci fossi stato io, come avrei reagito, come l’avrei presa” (intervista 015).
“emergeva quel sentimento compassionevole nei loro confronti, perché non era una malattia a noi conosciuta, noi lottavamo con armi giocattolo, con armi lego” (intervista 006).
TEMI | CATEGORIE | SOTTOCATEGORIE |
Fattori che hanno generato il sentimento di compassione | Percezione della solitudine come maggior sofferenza generante dolore emotivo | · Mancanza degli affetti nella quotidianità
· Morte priva della vicinanza di un famigliare |
Alterazione del processo di morte | · Morte improvvisa e inaspettata
· Mancata dignità nella preparazione della salma |
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Identificazione dell’infermiere nel paziente | · Medesimo rischio di contagio
· Medesima condizione di solitudine · Medesima mancanza di conoscenza della malattia |
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Fattori che hanno ostacolato il manifestarsi del sentimento di compassione | Fattori personali
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· Distacco emotivo come forma di protezione e autodifesa
· Distacco fisico dettato dalla paura del contagio e di contagiare |
Fattori relazionali
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· Criticità dell’assistito e mancata comunicazione verbale
· Dispositivi di protezione individuali come barriere limitanti la manifestazione dei gesti di corporeità |
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Fattori sistemici, organizzativi | · Mancanza di tempo
· Numerosità degli assistiti · Riorganizzazione assistenziale · Mancanza di cure personalizzate |
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Attributi della compassione | Desiderio intimo di alleviare l’altrui sofferenza
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· Espressione di vicinanza mediante gesti di corporeità
· Espressione di vicinanza mediante valorizzazione del dialogo · Volontà di soddisfare i bisogni espressi |
Approccio empatico nella relazione di cura | · Partecipazione attiva alle videochiamate con i famigliari
· Comprensione attraverso lo sguardo |
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Conseguenze della manifestazione del sentimento di compassione | Affaticamento emotivo
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· Fattore protettivo del gruppo come supporto, aiuto e condivisione
· Spinta motivazionale altruistica · Pianto e sentimento di impotenza come espressione dell’affaticamento emotivo · Pensiero costante al paziente e alla sua sofferenza |
Potenziamento del ruolo di advocacy
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· Unico riferimento per il paziente
· Ruolo di interconnessione con la famiglia |
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Sentimento di gratificazione intrinseca | · Rapporto di cura più profondo
· Sollievo della sofferenza percepita dai pazienti |
Tabella 2. – Temi, categorie, sottocategorie.
Fattori che hanno ostacolato il manifestarsi del sentimento di compassione
Le testimonianze raccolte ci consegnano alcuni vissuti di fatica che hanno reso difficile l’espressione della compassione. Gli infermieri narrano infatti di un distacco emotivo, agito come forma di protezione ed autodifesa necessaria per evitare l’eccessivo coinvolgimento, e come meccanismo di difesa dal forte carico emozionale subito.
“Parlerei un po’ di autodifesa. In alcuni momenti ho dovuto difendermi da quello che c’era intorno a me (…) questo è stato uno stacco che ho proprio voluto io perché stavo crollando e quindi avevo bisogno di distaccarmi mentalmente da quella tragedia” (intervista 006).
Il distacco dal paziente si è manifestato anche a livello fisico, a causa della paura del contagio e di diventare vettori dell’infezione nei confronti dei propri cari; il contatto fisico con il paziente viene descritto come caratterizzato da contatti fugaci e limitati nel tempo.
Ad ostacolare ulteriormente l’espressione della condizione umana di compassione degli infermieri sono stati evidenziati alcuni impedimenti causati dalle condizioni di criticità vitale dei pazienti che ne limitavano l’espressione verbale, e dalle barriere fisiche determinate dall’obbligo di dover indossare i dispositivi di protezione necessari.
“le tute protettive non lasciavano praticamente intravedere nulla e non permettevano di metterci in relazione attraverso la corporeità, attraverso gli sguardi e quindi in qualche modo toglievamo tutto ciò che c’è di bello, secondo me, nel fare il nostro lavoro, al di là della manovra tecnica” (intervista 003).
Ulteriore ostacolo all’azione compassionevole è riconducibile alla mancanza di tempo da dedicare ai pazienti, narrata dagli intervistati con sentimento di disagio. Gli infermieri raccontano di essersi sentiti travolti da ritmi di lavoro incalzanti, in un contesto organizzativo caotico e sovvertito che poco ha lasciato spazio alla personalizzazione delle cure.
“c’era un ricambio molto forte e non si aveva il tempo materiale di rendersi conto di provare compassione per un paziente (…) tanti pazienti che arrivavano venivano intubati e dopo nemmeno 24 ore morivano, non avevamo proprio il tempo di comprendere quello che stava succedendo. Per quei pochi che riuscivano a rimanere in vita, la mole di lavoro era talmente alta che non ti rendevi conto, non avevi il tempo di pensare alla compassione” (intervista 007).
Attributi della compassione
Il desiderio intimo di alleviare l’altrui sofferenza si è manifestato, nei partecipanti, con l’espressione di vicinanza mediante gesti di corporeità, con la valorizzazione del dialogo e con la volontà esplicita di soddisfare i bisogni espressi dai pazienti.
Gli atti di corporeità sono risultati il simbolo della capacità degli infermieri di oltrepassare le barriere fisiche dei dispositivi di protezione, facendo percepire all’assistito l’intimo calore del gesto di cura, manifestato attraverso la presenza, un “esserci” anche con il calore del tatto e con l’attenzione alle piccole cose del quotidiano.
“un tocco lieve con uno sguardo di presenza in ogni piccola procedura, penso abbia trasmesso tutta la mia vicinanza. Questo e solo questo potevo fare.” (intervista 015).
“Nel paziente intubato e sedato cercavo il più possibile di ridurre tutti i fattori di stress, banalmente, tenendogli i capelli legati o valorizzando il benessere in quello stare nel letto, cercavo di fare il massimo per loro (…) in quel periodo ti prendevi totalmente cura del malato e dei suoi bisogni” (intervista 019).
Dalle interviste emerge un attributo definito “il cuore della compassione”: l’approccio empatico quale chiave di lettura dei bisogni dell’altro. L’empatia era manifesta, in particolare, attraverso una “partecipazione attiva alla videochiamata con il parente”, come citato da una partecipante nell’intervista 011, che prosegue “con le videochiamate entravamo maggiormente in rapporto con la persona, entravamo nella sua vita privata, percependo i suoi sentimenti e le sue emozioni”. La comprensione empatica veniva inoltre veicolata dallo sguardo, spesso unico canale di contatto con i pazienti e capace di mettere in intima relazione gli uni agli altri, come descritto dalla seguente testimonianza: “Con Claudio era una questione di sguardi, dovevamo guardarci negli occhi, solo così lui riusciva a comunicarmi come si sentiva in quel momento (…) penso che fosse proprio più semplice guardarsi negli occhi e capirsi, per assurdo, ancor più che con il labiale, che è stato quello che poi mi ha fatto capire che quel pomeriggio poteva essere il pomeriggio giusto per fare quella videochiamata famosa, l’ultima per Claudio [piange]” (intervista 018).
Conseguenze della manifestazione del sentimento di compassione
“Sicuramente in quel periodo ho dovuto nascondere tanti sentimenti, che sono venuti fuori in un secondo momento, successivamente, quando mi sono sentita disarmata. Fino a poco prima mi sentivo come il soldato con il fucile in mano che andava in guerra, e sai, ti sembra come se non hai tempo di pensare, di ragionare sui sentimenti. Io sembravo come il soldato in missione, una volta tornata a casa ho finalmente buttato fuori tutto quello che avevo dentro” (intervista 007).
Questa similitudine dell’infermiere come soldato al ritorno da una guerra, evidenzia il forte affaticamento emotivo vissuto dai partecipanti allo studio. L’anelito degli infermieri era quello di aiutare l’assistito, in un vissuto di immersione totale nella sofferenza e nel dolore dei pazienti, che ha generato fatica. La condizione di affaticamento ha trovato infatti la sua espressione nel pianto e nel sentimento di impotenza derivante dall’impossibilità di cambiare una situazione drammatica, nonostante gli sforzi di alleviarla.
Un infermiere racconta: “Una volta tornato a casa pensavo a quello che avevo fatto durante il giorno, a quel paziente, alle sue emozioni, a ciò che stava provando in quel momento, e spesso piangevo perché mi sentivo troppo impotente” (intervista 014).
A difesa di tale affaticamento sono stati evidenziati alcuni fattori protettivi: in primo luogo, il gruppo di lavoro come supporto, aiuto e condivisione. Nella coesione di gruppo, infatti, ciascun infermiere ha trovato un luogo in cui poter condividere le proprie esperienze, le proprie emozioni e sentimenti vissuti.
“Mi ha aiutato molto il mio gruppo di lavoro, in primis, perché se non avessi avuto loro, come più volte ho ribadito, non so come sarebbe stato. Abbiamo condiviso tanto e tutt’ora lo facciamo. Anche di notte, quando abbiamo un attimo di tempo e ci ricordiamo di quella particolare situazione, ne parliamo. È stato un momento di forte supporto e condivisione da parte di tutte le figure”. (intervista 007).
Un ulteriore fattore protettivo è stato individuato nella “spinta motivazionale di aiuto per l’altro”. La consapevolezza da parte degli infermieri di poter aiutare la persona in difficoltà, di alleviare il suo dolore e la sua sofferenza, ha generato nuova motivazione, impedendo di cedere all’affaticamento emotivo. Il potenziamento del ruolo di advocacy dell’infermiere è risultato essere una conseguenza diretta della manifestazione della condizione umana di compassione nei confronti dei malati covid-19.
“Noi siamo rimasti l’unico riferimento per il paziente, che credo, a maggior ragione in questa fase, avesse bisogno di qualcuno su cui veramente appoggiarsi. Quindi secondo me cambia decisamente il ruolo del professionista sanitario all’interno del percorso assistenziale e di cura” (intervista 003).
La posizione di advocacy dell’infermiere si è potenziata in particolar modo mediante il ruolo di interconnessione con la famiglia. L’infermiere ha assunto una funzione cardine di mediatore in virtù della peculiare vicinanza fisica ed emotiva con l’assistito.
Infine, l’ultima conseguenza derivante dalla manifestazione del sentimento di compassione è stata descritta come un sentimento di gratificazione intrinseca, che ha condotto ad un rapporto di cura più profondo con i pazienti.
“Manifestando questo sentimento di compassione il rapporto umano, relazionale con il paziente, che già si aveva, è divenuto più forte” (intervista 005).
DISCUSSIONE
Questo studio ha esplorato il sentimento di compassione nel vissuto degli infermieri impegnati nella pandemia covid-19 in Italia, evidenziandone gli attributi fondamentali.
Tutti i partecipanti hanno manifestato la condizione umana di compassione nei confronti dei malati covid-19, identificando nella condizione di sofferenza vissuta il motore del desiderio di aiuto e di porre fine a quel profondo dolore percepito. Essi hanno dunque incarnato il reale significato di compassione espresso da Volpicelli e Calandra (1978).
Gli infermieri, percependo la sofferenza emotiva, si sono immedesimati negli assistiti, cogliendo totalmente la radice prima del loro dolore, in particolar modo nel tragico momento del morire (Cochinov, 2020). In accordo con quanto affermato da Pattison (2020) infatti, la morte improvvisa, inaspettata, e in completa solitudine, sovverte il normale processo del morire e accosta inevitabilmente il curante alla finitudine e alla medesima sofferenza. Secondo Singh et al. (2018), la vicinanza emotiva provata dall’infermiere risulta essere un fattore facilitante la manifestazione del sentimento di compassione nei confronti del paziente, descrivendo tale condizione come “umanità condivisa”, vero presupposto per lo sviluppo di azioni compassionevoli (Van der Cingel, 2009; Durkin et al., 2019).
Di contro, il contagio emotivo vissuto dagli intervistati ha costituito un fattore ostacolante l’agito compassionevole. In accordo con gli studi esteri (Huang e Zhao, 2020; Jackson et al., 2020; Kang L. et al., 2020; Lai et al., 2020; Usher et al., 2020; Zhang et al., 2020; Sun et al., 2020b), dai partecipanti è infatti emerso il bisogno di instaurare un meccanismo di autodifesa e di distacco dalla sofferenza percepita (Collins e Long, 2003), intrapreso – in modo conscio o inconscio – con il fine di evitare di esserne sopraffatti e legato, altresì, alla paura di diventare vettori di infezione per i propri cari, come ben rappresentato nella letteratura esaminata (Chiang et al., 2007; Bagnasco et al., 2020; Nacoti et al., 2020).
Precedenti studi hanno inoltre evidenziato il ruolo dell’organizzazione quale fattore che influenza il sentimento di compassione; in particolar modo il sovraccarico lavorativo e la mancanza di tempo da dedicare agli assistiti, più volte citata dagli infermieri intervistati, sono risultati importanti fattori ostacolanti cure compassionevoli (Valizadeh, 2016; Singh et al., 2018, Tan et al, 2020).
All’interno di tale tempo contratto, come può rendersi manifesta la condizione umana di compassione?
Apparentemente la risposta parrebbe scontata, si potrebbe infatti desumere che tutti gli infermieri nei momenti di maggior carico fisico ed emotivo percepissero il tempo tripartito di Eraclito nella sua dimensione quantitativa, quel Chronos che inesorabilmente scorre senza lasciare traccia, dettato dal ritmo progressivo delle lancette dell’orologio (Zaccaria Ruggio, 2016), e capace di trascinare gli infermieri in un vortice di eventi che si susseguono ancor più velocemente di quanto la ratio possa riempire di senso.
Nonostante ciò, le narrazioni dei partecipanti ci consegnano un tempo pieno di significato e gesti colmi di compassione; confermando che l’attributo core della compassione, ovvero il desiderio intimo di aiuto, si esprime nell’attimo, nel tempo propizio (Singh et al., 2018), affiorato nella memoria dell’incontro con la sofferenza dei pazienti e reso tangibile dai piccoli gesti e dagli sguardi capaci di superare le barriere di protezione imposte.
In accordo con Gilbert (2010) gli infermieri hanno identificato inoltre l’empatia e la partecipazione attiva (sympathy) come ulteriori attributi centrali della compassione, facendo in tal modo risuonare in modo dirompente le parole del filosofo Levinas: “nella sofferenza ci troviamo costretti all’essere” (Mortari, 2013b).
Essere infermieri compassionevoli in questo scenario non è però risultato scevro di conseguenze negative. Il disagio emotivo descritto nelle interviste, sovrapponibile a quello vissuto dai colleghi di altri Paesi (Huang e Zhao, 2020; Jackson et al., 2020; Kang L. et al., 2020; Lai et al., 2020; Liu et.al,2020, Usher et al.,2020; Sun et al., 2020a; Zhang et al., 2020) parrebbe far emergere alcuni antecedenti della compassion fatigue descritta da Peters (2018), caratterizzata da uno stato di esaurimento emotivo che non consente più di assolvere al mandato compassionevole, e che ha molte ripercussioni sulla capacità di recupero psico-fisico degli infermieri coinvolti. Tale condizione si manifesta sovente nei contesti emergenziali, in tempi di disastri e pandemie, in cui gli infermieri sono costretti a lavorare in scenari ad elevata pressione fisica ed emotiva e ad alto rischio (Alharbi et al., 2020). Nel contesto studiato, però, i partecipanti hanno individuato alcuni fattori di protezione dall’esaurimento emotivo: il gruppo di lavoro e la spinta motivazionale all’aiuto.
In accordo con Salmond et al. (2019), la coesione di gruppo è infatti un elemento fondamentale per la cura del singolo che si trova esposto alla sofferenza e che opera in un ambiente in cui le richieste fisiche ed emotive sono molto elevate.
In accordo con la letteratura esaminata (He et al., 2020; Liu et al., 2020), assolvendo al proprio dovere professionale, e percependo un’elevata responsabilità nei confronti dei pazienti, gli infermieri hanno inoltre acquisito piena consapevolezza dell’importanza cruciale della loro funzione all’interno dello scenario pandemico; in tal modo essi non hanno ceduto all’affaticamento emotivo, ma spinti da un forte altruismo nei confronti dell’altro, ne hanno ricavato nuova motivazione. Tale assunto trova riscontro negli studi sulle neuroscienze di Sprecher e Fehr, secondo i quali la compassione verso la persona sofferente risulta strettamente legata alla motivazione di aiutarla; dunque, dal provare compassione per gli altri, può derivare un sentimento positivo di ricompensa intrinseca (Zighetti, 2016, Sacco e Copel 2018). La spinta all’aiuto compassionevole, ha inoltre permesso agli infermieri di potenziare la funzione di advocacy, manifestando gli attributi propri del concetto: essere garanti dei pazienti e punto di riferimento e di interconnessione con i famigliari e l’organizzazione sanitaria (Bu e Jezewski, 2007; Choi et al., 2014).
Non solo, i partecipanti hanno vissuto un’importante senso di gratificazione derivante dal profondo rapporto di cura instaurato con gli assistiti e caratterizzato da una sincera connessione. Riferendosi all’etimologia latina della parola “compassione”, cum patior – soffro con –, si potrebbe pertanto affermare che il prefisso “cum” (con, insieme a) nel periodo pandemico si sia fatto ancor più manifesto.
I limiti del presente studio sono da riferirsi principalmente alla modalità di conduzione delle interviste effettuate. La distanza fisica imposta dai sistemi telematici potrebbe aver reso difficoltosa la piena espressione da parte dei partecipanti e limitato la possibilità di cogliere gli elementi di comunicazione non verbale utili alla comprensione esaustiva del fenomeno oggetto di studio. Inoltre, la provenienza dei partecipanti da settori prevalentemente ospedalieri, non consente di poter trasferire i risultati ottenuti in ambiti differenti da quelli esplorati.
Tuttavia, lo studio presenta molte implicazioni per la pratica infermieristica; ha messo in luce il valore dell’agito compassionevole nel contesto pandemico, e come sia fondamentale supportare gli infermieri affinché ne sviluppino gli attributi e, al tempo stesso, non vengano erosi dalla fatica insita nella manifestazione della compassione stessa, soprattutto considerando il protrarsi della situazione emergenziale nel nostro Paese e in previsione di scenari futuri.
Per tali motivi, a partire dai risultati dello studio, sarebbe utile studiare gli effetti a lungo termine dell’affaticamento vissuto dagli infermieri nella prima ondata pandemica, anche al fine di mettere in atto interventi preventivi in caso di nuovi scenari simili.
CONCLUSIONE
La compassione è un elemento fondamentale delle cure infermieristiche. Nella prima ondata della pandemia di COVID-19 in Italia, il “patire con”, nel significato originario aristotelico, pare essersi manifestato nella sua forma più autentica.
La condizione umana di compassione, infatti, richiede al professionista di fare una scelta che origina dal riconoscimento dell’altrui sofferenza: gli infermieri italiani hanno saputo pienamente cogliere l’estremo dolore emotivo provato dai pazienti contagiati, hanno incontrato non già solo numeri di un bollettino tristemente annunciato dai media quotidianamente, ma una moltitudine di persone, di volti, di vite a cui hanno donato qualità ed intenzionalità nella cura.
Il gesto compassionevole, consegnatoci dagli infermieri, è un dipinto capace di offrire agli assistiti la singolare possibilità di sentirsi pienamente compresi, e di non essere lasciati soli nell’oblio del proprio dolore.
Conflitto di interessi
Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi.
Finanziamenti
Gli autori dichiarano di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.