L’infermiere nelle serie televisive: mediatizzazione delle pratiche infermieristiche e dell’immagine degli infermieri


Infermieri e media ieri
Se pensiamo alla rappresentazione mediatica degli infermieri di qualche anno fa, ci accorgiamo che i temi fondamentali descritti offrivano immagini negative della professione. In generale emergeva un forte stereotipo di infermiere con competenze limitate alle attività alberghiere e che lavorava all’ombra del medico, l’unico a cui apparteneva il sapere clinico (Mapelli, 2002).
Poiché le conoscenze sulla professione infermieristica derivano non solo da esperienze vissute in prima persona, ma anche da informazioni trasferite da altri soggetti, queste immagini perpetuavano gli stereotipi, modificando e alterando anche le numerose positive esperienze. Quasi venti anni fa (nel 1998), Trinceri su un campione di 219 persone (62% uomini, 38% donne) presso l’Azienda Ospedaliera San Carlo Borromeo di Milano, raccolse la percezione della professione: il percorso formativo, l’aggiornamento, la ricerca e la docenza, il codice deontologico, i profili professionali, il mansionario e gli ambiti di competenza. Per farlo utilizzò un questionario costituito da 24 domande a risposta multipla: dai risultati si delineava una professione priva di proprie responsabilità e di autonomia.
Qualche anno più tardi, nel 2004, Lo Monaco utilizzando un questionario composto da 15 domande a risposta multipla e coinvolgendo 10 Aziende Ospedaliere distribuite uniformemente sul territorio (Trento, Milano, Alessandria, Ferrara, Parma, Bologna, Roma, Reggio Calabria, Caltanissetta, Caltagirone), condusse una survey nazionale. Furono distribuiti dieci questionari per ogni unità operativa in modo da ottenere un campione composto da almeno 200 persone. I risultati della ricerca evidenziarono che su 273 pazienti, il 49,4%, considerava l’infermiere un professionista parzialmente dipendente da altri, solo il 14,6 %, invece, un professionista autonomo. Circa l’80% degli intervistati, riteneva che il rapporto tra medico e infermiere fosse di tipo collaborativo. Il 62% affidava all’infermiere il compito di assistenza nei momenti di maggiore difficoltà: si registrava un primo cambiamento rispetto al 1998. 

Oggi invece…
Più recentemente nel 2012, la Fondazione Censis documentò come la situazione sia nettamente modificata rispetto al 2004. Le interviste furono condotte sull’intero territorio nazionale attraverso il sistema CATI (Computer Assisted Telephone Interviewing). Furono giudicate migliori, tra i vari aspetti che caratterizzavano l’attività degli infermieri, le capacità tecnico-professionali (il 55,6%), di relazionarsi con i pazienti e i familiari (51,2%) e la cortesia e la gentilezza (44,7%). A seguire, abilità nel gestire attrezzature medicali (17,3%), rispetto delle norme igieniche (14,3%), capacità di dare informazioni su terapie, patologie (13, 6%). Quasi il 60% dichiarava che di fronte a richieste di informazioni su patologie, terapie, aspetti organizzativi e altro, gli infermieri tendevano a rispondere quando erano in grado di farlo mentre era solo il 10% circa a ritenere che gli infermieri non fossero in grado di dare risposte adeguate (Censis, 2012).
Sempre nel 2012 sulla rivista statunitense BMJ (British Medical Journal) fu pubblicata una ricerca in cui diversi autori verificarono la soddisfazione e la qualità delle cure in 12 paesi europei e negli Stati Uniti.  I pazienti furono intervistati in 210 ospedali europei e 430 ospedali degli Stati Uniti (California, Pennsylvania, Florida e New Jersey), 11.318 pazienti in Europa e 120.000 pazienti negli Stati Uniti per indagare sulla correlazione tra l’organizzazione sanitaria adeguata e il lavoro svolto dagli infermieri. La ricerca confermava che le caratteristiche dell'ambiente di lavoro ospedaliero erano associate a risultati positivi ottenuti a seguito delle cure rivolte ai pazienti grazie all’intervento degli infermieri negli ospedali. Uno studio condotto in Canada e pubblicato sugli Annals Of Family Medicine (Lau et al, 2012), indicava come i pazienti, soprattutto se anziani, preferivano gli infermieri ai medici. Facendo una revisione di 77 studi, i ricercatori canadesi verificarono che in qualsiasi malattia l’aderenza al trattamento dei pazienti era direttamente proporzionale al contatto umano con il personale infermieristico.

Considerando questi risultati abbiamo preso in analisi quattro serie televisive (due statunitensi, Nurse Jackie; E.R. Medici in prima linea e due italiane, Medicina generale e Terapia d’urgenza) mandate in onda in un periodo compreso tra il 1994 e il 2009. Ogni serie televisiva è stata analizzata secondo una traccia di osservazione suddivisa in due aree di interesse: valutazione della conformità delle pratiche infermieristiche individuate e l’analisi del profilo dell’infermiere ossia l’immagine rappresentata, il profilo deontologico e la soddisfazione dei pazienti. Delle pratiche infermieristiche visualizzate in ciascuna puntata delle quattro serie televisive è stata valutata la conformità alle linee guida specifiche di riferimento e attraverso l’ausilio di manuali di infermieristica.

Analizzando il profilo degli infermieri rappresentati nelle serie televisive emerge che solo in una serie su quattro agli infermieri è stato assegnato il ruolo di protagonista, mentre nei due telefilm italiani emerge un ruolo di supporto. In una delle due serie statunitensi, invece, agli infermieri è stata attribuita la stessa importanza data ai medici. Nelle due serie italiane 8 sono gli infermieri osservati e mediamente 13 quelli statunitensi. Analizzando il ruolo svolto dagli infermieri nelle serie televisive descritte è emersa una partecipazione totalmente attiva nelle due serie statunitensi che vede gli infermieri lavorare in equipe con le diverse figure sanitarie, una partecipazione mediamente collaborativa in Medicina generale e di totale “sudditanza” al medico in Terapia d’urgenza.

Attraverso la ricerca della presenza di quegli stereotipi già individuati in passato, abbiamo riconosciuto, lì dove sono presenti, gli aspetti negativi degli infermieri rappresentati che, ancora una volta ripropongono una situazione analoga al passato. Gli stereotipi di cui abbiamo sinora parlato risultano essere totalmente assenti nelle serie statunitensi ma presenti nelle due serie italiane dove gli infermieri si contraddistinguono per incompetenza e per indolenza.

Le pratiche di pertinenza infermieristica osservate sono state 68 divise poi in tre categorie: assistenza di base; esame obiettivo; emergenza. Per ciascuna di queste è stato conteggiato il numero di volte che compaiono nelle quattro serie tv e successivamente, valutata la conformità delle procedure eseguite rispetto alle vigenti linee guida. Separando i risultati ottenuti dalle serie televisive è emerso che sul totale del campione (68 pratiche infermieristiche registrate in tutte le quattro serie televisive), il 57% delle pratiche infermieristiche visualizzate nelle due serie statunitensi risulta essere conforme alle linee guida, il 38% non conforme e il 5% conforme/non conforme. Nelle serie italiane sul totale del campione rilevato, il 44% delle pratiche, risulta essere conforme alle linee guida, il 52% non conforme e il 4% conforme/non conforme. 

Alcune considerazioni
Il profilo degli infermieri che è emerso dalla ricerca si allontana quasi del tutto da quelle descrizioni anacronistiche di personaggi rozzi, sottomessi o di infermiere impegnate in storie sentimentali con i medici. L’espressione “quasi del tutto” sta a indicare una sostanziale differenza emersa tra gli infermieri descritti nelle serie statunitensi e in quelle italiane. Riferendoci e confrontando i dati ottenuti con le ricerche sulla percezione dei pazienti ospedalizzati, non abbiamo rilevato una sostanziale differenza tra l’infermiere italiano rappresentato dai media e quello reale, al contrario invece di quello che avviene nelle serie statunitensi dove alcuni aspetti analizzati non combaciano con ciò che abbiamo studiato di questa realtà. I produttori di Medicina generale, seppur non eludendo qualche inefficienza di troppo, hanno creato un contesto di verosimiglianza con la realtà sanitaria italiana non riguardante soltanto episodi di mala sanità che imperversano nei vari programmi di approfondimento, ma anche di quella volontà di migliorarsi e di cambiare il modo di lavorare. Per quanto riguarda le serie statunitensi dobbiamo fare una distinzione tra la serie E.R. e Nurse Jackie dove il tipo di rappresentazione risulta essere più un tentativo pubblicitario a favore della professione, piuttosto che una descrizione obiettiva della realtà. La ricerca volta ad analizzare il giudizio dei pazienti sulle cure infermieristiche, ci ha permesso di verificare se la scelta registica sia basata sulle reali percezioni di chi è stato a stretto contatto con gli infermieri o se sia dovuta a informazioni ottenute da altre fonti. In tutte e quattro le serie televisive non abbiamo trovato corrispondenza con tali dati.

Le ultime ricerche condotte dal Censis evidenziavano un giudizio positivo sull’operato degli infermieri negli ospedali italiani e di totale fiducia, soprattutto perché in grado di attivare un ascolto empatico e di garantire un supporto costante. Nelle serie televisive invece, soprattutto in Medicina Generale, emergono continue situazioni di contrasto che non consentono di instaurare un rapporto infermiere-paziente basato sulla fiducia reciproca. Nella realtà sanitaria statunitense i pazienti fanno emergere numerosi aspetti negativi della professione sia da un punto di vista tecnico che relazionale, mentre nei telefilm è riprodotto un rapporto idilliaco e basato su una totale fiducia reciproca. Rispetto al passato l’immagine distorta degli infermieri è però stata superata.

L’infermiere appare come un professionista competente il cui sapere è notevolmente cresciuto, come dimostrato nella serie “ER, Medici in prima linea”. Il problema emerso dalla nostra indagine è che l’infermiere mediatizzato ancora oggi fatica a imporsi come professionista con competenze tecniche oltre che attinenti alla sfera umana. I tempi di ripresa brevi non permettono la completa visualizzazione delle procedure e quello che si riesce a vedere non è curato nei dettagli. La scelta di realizzare “mondi possibili” nelle serie statunitensi dove non sempre si rispetta la realtà sanitaria, e i “mondi reali” descritti dalle serie italiane dove si riorganizza in forma simbolica la nostra quotidianità, non esclude la possibilità di impegnarsi allo stesso modo per diffondere, seppur in maniera differente, un’immagine positiva della figura dell’infermiere. I dati confermano complessivamente la presenza di rapporti positivi con i pazienti, con i colleghi e i medici; l’infermiere appare come un professionista autonomo e con capacità tecniche evidenti.
La comunicazione mediatica rappresenta uno strumento strategico per rispondere efficacemente al cambiamento culturale del mondo sanitario, ma un’immagine positiva non potrà mai durare a lungo se non sorretta e continuamente rafforzata dal “saper essere” e “saper fare” della professione stessa.
 

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