Alla ricerca della salienza. Analisi fenomenologica del disagio etico


Ecco il racconto di Elisa, una giovane infermiera in servizio presso un’Unità operativa di Urologia.

  • Mi sento schiacciata dal suo sguardo (Elisa)
    Ho conosciuto Mario quando sono rientrata dal giorno di riposo dopo le notti, un sabato pomeriggio dei primi giorni di gennaio. È giunto in reparto proveniente dal Pronto Soccorso accompagnato dal padre. Mario è tranquillo ma dolorante: “si tratterà di una colica renale”, dice al telefono alla moglie a casa con le figlie. Durante l’accertamento mi racconta della sua famiglia, lui ha 38 anni, è sposato con Alice e hanno due bimbe di cinque e sette anni. Racconta delle vacanze di Natale in montagna, proprio vicino a dove sono nata io e così chiacchieriamo dei posti più belli, della cucina e della passione che abbiamo in comune: lo sci. Mario è una persona molto cordiale, piena di vita, e spesso durante il pomeriggio mi chiede quanto dovrà rimanere ricoverato, vuole tornare a casa a godersi le sue bimbe perché durante l’anno tra lavoro e scuola si ha sempre poco tempo. […]

    Lunedì Mario viene sottoposto ad una serie di indagini diagnostiche, nel primo pomeriggio il primario si reca in camera e comunica che non si tratta di una colica renale ma di una neoplasia renale che ha infiltrato i tessuti limitrofi e con metastasi. Il medico spiega a Mario che faranno di tutto per cercare di allungare il tempo di sopravvivenza, ma che la prognosi è infausta. Il contenuto della conversazione viene annunciato dal medico durante le consegne chiedendo la massima collaborazione al team e chiedendo di creare un ambiente quanto più favorevole per il paziente: predisporre una camera singola, nessun limite agli orari di visita …
    Mario nei giorni successivi conclude l’iter diagnostico e chiede di essere operato. Quando entro in stanza per somministrare la preanestesia c’è anche Alice; Mario sorridendo mi dice “altro che colica renale… spero almeno di sopravvivere all’intervento e quando sarò sveglio di ricordarmi chi sono…”. Alice ha le lacrime agli occhi, li lascio soli prima di far entrare il barelliere. Mario dopo l’intervento trascorre alcuni giorni in terapia intensiva, in realtà la situazione è più complessa rispetto al previsto e la malattia, già in fase avanzata, ha prodotto un’insufficienza multi organo. Mario rientra in reparto, ad aspettarlo tutti i familiari, è a tratti disorientato, ma li riconosce subito; passano i giorni, Mario fatica a riprendersi, non riusciamo a mobilizzarlo, lamenta sempre più dolore, è sempre più debole.
    Un giorno Alice mi chiede di andare a bere un caffè, mi spiega di aver compreso che per Mario è una questione di giorni, ma che ha un pensiero che la logora e che non riesce a prendere una decisione perché in questo momento non ha la forza e la lucidità per decidere. Mi chiede come gestire le due figlie che sanno che il papà è ricoverato in ospedale ma niente di più, non sanno dell’intervento, di quali sono le sue condizioni ora e non sanno che il papà non tornerà più a casa. Mi chiede “cosa è giusto fare in questi casi”… io fisso il caffè nel bicchiere, non ho mai visto un caffè così nero… non riesco a guardare Alice negli occhi… e ho una domanda che non dà tregua al mio cervello: che cos’è giusto? E poi: perché proprio a me questa domanda? Io non ti conosco, come posso decidere una cosa così importante? Alice mi dice di non sapere cosa fare, vede che Mario peggiora di giorno in giorno, ormai è “così gonfio che non sembra più lui”. Io sono in silenzio e lei mi guarda… mi sento schiacciata dal suo sguardo, vorrei capire qual è la risposta giusta, qual è la risposta che lei si aspetta da me, per sollevarla un pochino da questo peso, mi sento in difficoltà, continuo a chiedermi qual è la risposta giusta, mi chiedo cosa vorrei io, ma io non so niente di questo, non ho figli, cos’è il bene per loro, e cos’è il bene per Mario, le bimbe da grandi potranno soffrire per non aver visto il papà o si ricorderanno solo le cose belle, Mario sarà più sereno dopo averle viste o starà male, e Alice cosa pensa? … non vorrei mai essere andata e bere quel caffè, vorrei non essere lì, io non ho gli elementi per dire cosa è giusto fare forse è meglio non prendere una posizione, perché rischia di essere una posizione forzata, preferisco dire ad Alice la verità…la guardo e le dico che non so qual è la scelta giusta in questi momenti e che non saprei cosa consigliare…Leggo negli occhi di Alice la delusione, o forse leggo in me la delusione, non l’ho aiutata quando lei mi ha chiesto aiuto.
    Le bimbe sono andate a trovare il papà un sabato mattina a fine gennaio, una bellissima giornata di sole. Mario non le ha riconosciute e loro non hanno riconosciuto il loro papà. Mario è morto alle 16.30 di quel sabato pomeriggio.

La ragione di questo studio è cercare di esplorare le modalità con le quali si determinano per gli infermieri situazioni di disagio etico. Non vogliamo svolgere un’analisi esterna del racconto di Elisa, piuttosto svolgere un’indagine del vissuto e, quindi, assumere uno sguardo interno a questo racconto: non chiederci che cosa è stato detto, ma perché è stato detto; non “che cosa mi sta dicendo” questo racconto o “è giusto? è vero?”, ma piuttosto: “perché l’hanno raccontato?” (Bruner, 1988; Todorov, 1985).
Chiedersi il perché vuol dire porsi sul piano dei significati in alternativa a quello dell’analisi razionale, dei dati analitici e delle valutazioni di principio, adottando un approccio di tipo squisitamente fenomenologico (Benner, 1994; Denzin & Lincoln, 2000). Seguendo la lezione di Platone, significa mettersi alla ricerca della misura interna delle cose raccontate (métrion), quella che lui chiamava la “giusta misura” riferita all’adeguatezza e alla qualità interiore di una totalità vivente, piuttosto che della misura esterna quantitativa e oggettiva (métron) (Platone, Politico, 3-284E, 283C 10).
Perché sentiamo il bisogno di raccontare alcune esperienze della nostra clinica? Come avviene che – nella situazione – ci si accorge che qualcosa di importante sta avvenendo nella relazione con l’altro? Come avviene che ne percepiamo il significato e siamo in grado di accoglierlo e di integrarlo nel processo decisionale con cui ci prendiamo cura della salute dell’altro? Come avviene invece che, in altre situazioni, questo non accada e l’infermiere percepisce un senso di disagio etico, di incomprensione o di delusione dalla relazione con il paziente?
Il Codice deontologico dell’infermiere italiano (Federazione Nazionale IPASVI, 2009) non aiuta a dare risposta a questi quesiti dal momento che indica principi e valori sotto forma di “indicazioni di rotta”, che tuttavia richiedono necessariamente di essere incarnati, qui ed ora. Il racconto di Elisa mostra che in ogni situazione di cura i protagonisti contribuiscono a costruire una relazione significativa nella misura in cui si lasciano coinvolgere e partecipano alla ricerca di un senso condiviso a quello che succede. Come nel gioco dei due specchi che si riflettono l’uno nell’altro: per intraprendere questo percorso occorre che entrambi i protagonisti accettino di mettersi in gioco allo stesso livello di profondità.

Background
La costruzione dei significati nell’assistenza infermieristica
Per Wittgenstein il significato è “l’uso che facciamo dei segni” (Wittgenstein, 1958; Harré & Gillett, 1994). Ogni segno che giunge alla nostra attenzione – parola, immagine, gesto eccetera – non significa nulla di per sé stesso. Siamo noi – con la nostra cultura, la nostra storia e la nostra esperienza personale – che attribuiamo al segno il significato che ci colpisce e ci fa commuovere, arrabbiare, arrossire e altro ancora (Bruner, 1992; Harré & Gillett, 1994).
L’assistenza infermieristica è una pratica relazionale basata sulla co-costruzione dialogica dei problemi assistenziali dei pazienti e sulla loro risoluzione nel contesto della situazione data. La progressiva costruzione di significato che si crea nella relazione assistenziale agisce su entrambi i protagonisti della cura e influenza in modo determinante le decisioni e l’esito della cura (Benner & Wrubel, 1989; Benner, 1994; Mortari, 2006). Che l’assistenza sia una questione di significati è noto da tempo: la novità più recente è che stiamo iniziando a comprendere come questi significati agiscano in noi nella relazione di cura e come influenzino le nostre decisioni e i nostri comportamenti.
Un punto cruciale del percorso di co-costruzione dei significati nell’assistenza è stato recentemente indicato da alcuni autori nella ricerca della salienza di ogni situazione assistenziale. Con questo termine si intende “un crescente e differenziato senso delle priorità nella pratica infermieristica” (Benner et al., 2010, p. 94), ovvero la capacità dell’infermiere di giudicare quali sono i fatti più rilevanti della situazione in quel momento (Benner & Tanner, 1987). La percezione della salienza è una competenza avanzata fortemente contesto-dipendente ed è altrettanto determinata dalla capacità del singolo di reagire – con le proprie conoscenze, esperienze e capacità interpretative – a ciò che avviene nella situazione. Sviluppare la salienza della cura corrisponde a sviluppare nel professionista “l’abilità ad usare le conoscenze per aumentare la sua comprensione di ciò che significa quella particolare situazione di pratica clinica e rendere più facile le sue riflessioni sul contesto [situated cognition], così come il pensiero in azione” (Benner et al., 2010, p. 94). Tutte le forme di conoscenza che sostengono le competenze di cura sono quindi implicate e coinvolte nella situazione: quelle esplicite e quelle tacite, quelle formali e quelle informali, quelle scientifiche e quelle umanistiche, quelle razionali e quelle affettive. Nella situazione di cura – dice qualche autore – siamo implicati con tutto ciò che siamo, “con tutto noi stessi” (Kittay, 1999; Benner, 2000; Mortari, 2006; Zannini, 2008).
Un modo immediato per comprendere il nostro grado di coinvolgimento in una situazione di cura è ascoltare le proprie emozioni. Infatti, le emozioni non spiegano nulla di ciò che accade, ma dicono qualcosa di essenziale su come noi stiamo in quella determinata situazione: “non ti informano su ciò che vedi, ma su come guardi” (Sclavi, 2003, p. 63; cfr. Harré & Gillet, 1994; Nussbaum, 2001). Allenarci preventivamente a prestare attenzione a ciò che accade significa compiere il primo, fondamentale passo verso la comprensione dell’altro. Occorre – come dice Edith Stein – imparare a guardare il mondo “con occhi spalancati” e a “pensare con il cuore” (Stein, 1998). Occorre educare una coscienza preliminarmente sensibile all’alterità dell’altro (Gadamer, 1960). L’empatia che ne deriva, allora, non sarà la parziale e fugace conoscenza esterna degli stati emotivi dell’altro, ma sarà l’atto mediante il quale l’essere umano si costituisce attraverso l’esperienza di incontro con l’altro (Stein, 1989).

Accoglienza affettiva e percezione dei problemi etici
Gli infermieri prendono quotidianamente decisioni di tipo morale. La letteratura è unanime nel rilevare che la pratica riflessiva che accompagna le decisioni cliniche degli infermieri include di continuo gli aspetti etici della cura (Bishop & Scudder, 1990; Benner et al., 1994; Hargreaves, 1997; Moody Fairchild, 2010; Park, 2012). Nella pratica infermieristica le competenze etiche accompagnano e completano quelle cliniche, relazionali e tecniche, in quanto i valori e i principi etici dei professionisti giocano un ruolo significativo nella loro decisioni cliniche (Jormsri et al., 2005).
Goethals et al. (2010) sostengono che molti degli studi che indagano il ragionamento etico descrivono la personale relazione tra gli infermieri e i loro pazienti; questa relazione di cura forma il contesto per la valutazione etica. Guidati dall’ideale di cura e con lo scopo di “fare il bene” del paziente, gli infermieri accolgono la storia personale del paziente, i sentimenti, i desideri, le intenzioni. Dato che il ragionamento etico è immerso nella relazione personale tra un paziente e un infermiere, le qualità personali di entrambi influenzano il processo decisionale etico. Gli infermieri sono fortemente guidati da valori (Vogel Smith, 1996; Dierckx de Casterlè et al., 1997; Rodney et al., 2002; Varcoe et al., 2004; Monterosso et al., 2005), religione, educazione e formazione (Vogel Smith, 1996), dalle loro intuizioni, sentimenti, riflessioni etiche (Lützen & Nordin, 1993; Aström et al., 1995) e dalle precedenti esperienze personali e professionali (Vogel Smith, 1996; Dierckc de Casterlé et al., 1997; 2008; Varcoe et al., 2004; Monterosso et al., 2005).
Molti studiosi insistono nel sottolineare la distanza tra la decisione etica ideale ed il comportamento etico reale (Sherblom et al., 1993; Raines, 2000; Kim et al., 2007). Alcuni studi illustrano come gli infermieri abbiano difficoltà ad implementare le loro decisioni nella pratica, sottolineando la rilevanza dei fattori contestuali come limitanti le capacità degli infermieri a mettere in pratica le loro decisioni o ad agire in accordo ai loro valori (Dierckc de Casterlé et al., 1997, 2008; Raines, 2000; Rodney et al., 2002; Varcoe et al., 2004; Kim et al., 2007).
Quando la complessità morale di una situazione non conduce ad una qualche soluzione, l’infermiere avverte una sorta di disagio morale, definito da Corley et al. (2005) come uno stato emotivo che esprime inconsapevolmente tale situazione. Varcoe et al. (2012) distinguono le cause di disagio morale tra fattori sistemici e situazioni specifiche del paziente. I primi includono intensità delle cure ed eccessivo carico di lavoro, la propria incompetenza o quella degli altri operatori tali da sfociare in cure inadeguate. La sensibilità etica [ethical sensitivity] è l’elemento necessario per acquisire la consapevolezza dell’esistenza dei problemi etici, e rende possibile interpretare una data situazione e decidere quali opzioni vadano favorite. La sensibilità etica richiede all’infermiere di prestare attenzione e di interpretare indizi verbali, non verbali e comportamenti al fine di identificare i bisogni del paziente; può essere influenzata dall’etnia, dal genere, dai valori spirituali, dall’orientamento sessuale, dalla cultura, dalla religione, dall’educazione, dalla formazione e dall’età (Kim et al., 2005; Schluter et al., 2008).
Il disagio etico presuppone quindi accoglienza affettiva e sensibilità etica da parte dell’infermiere ed è correlata a variabili sia esterne sia interne all’operatore, che conducono all’incapacità di assumere o di attuare decisioni eticamente fondate (Benner, 1994; Corley et al., 2005; Schluter et al., 2008; Pavlish et al., 2011; Lazzarin et al., 2012; Huffman & Rittenmeyer, 2012; Varcoe et al., 2012).

Risultati
Elisa è una giovane infermiera con due anni di esperienza clinica. Il suo racconto copre un lasso temporale di circa quattro settimane e riferisce esclusivamente situazioni vissute in prima persona. Siamo in un reparto di urologia di un grande ospedale universitario e la descrizione degli spazi è minima: la camera di degenza di Mario e l’area ristoro del reparto collocata in una zona marginale dell’Unità operativa.
La dimensione corporale nel racconto è minima. Sin dall’inizio, l’ambiente di cura di Mario sembra protetto e favorente. Le situazioni relazionali descritte dal racconto sono il dialogo tra Elisa e Mario durante l’accertamento; la comunicazione del primario circa la prognosi; l’assistenza immediatamente prima e dopo l’intervento; il dialogo tra Elisa e Alice al distributore del caffè.
Due sono i grandi grappoli di significato del racconto di Elisa: il primo riguarda la progressiva elaborazione del dramma da parte di Mario, di Alice e degli altri familiari. Il secondo, che per attinenza al tema della ricerca è stato il vero oggetto della nostra indagine, riguarda la progressiva partecipazione di Elisa all’esperienza di Mario e di Alice.
L’analisi testuale mostra come la partecipazione personale di Elisa alla vicenda di Mario ed Alice è stata favorita sin dall’inizio dalla giovane età sia del paziente sia dell’infermiera, ed emerge dal livello personale che la relazione raggiunge già durante l’accertamento iniziale. Un secondo dato testuale del coinvolgimento di Elisa si verifica il giorno dell’intervento, quando Elisa entra nella stanza per somministrare a Mario la pre-anestesia e questi “sorridendo […le] dice ‘altro che colica renale…”. La partecipazione di Elisa le permette di cogliere la triste ironia di Mario e l’emozione negli occhi di Alice. Elisa in questa situazione non dice nulla, ma intuisce che è un momento delicato e li lascia soli “prima di far entrare il barelliere”.
Un terzo elemento di questo grappolo di significati è la richiesta di Alice di una pausa per un caffè. Alice confida ad Elisa una serie di riflessioni che mostrano il suo grado di consapevolezza e di elaborazione di ciò che sta accadendo. Alice ha compreso “che per Mario è una questione di giorni”, ma confessa anche di avere “un pensiero che la logora”. Alice non sa se e che cosa dire alle due bambine circa le reali condizioni del papà; le bambine “non sanno dell’intervento, di quali sono le sue condizioni ora e non sanno che il papà non tornerà più a casa”. Alice è combattuta, incerta su come comportarsi e “non riesce a prendere una decisione perché in questo momento non ha la forza e la lucidità per decidere”. Ecco la vera ragione della pausa caffè: Alice chiede ad Elisa “che cosa è giusto fare in questi casi…”.
Alice la incalza ed Elisa resta in silenzio: “Io sono in silenzio e lei mi guarda… mi sento schiacciata dal suo sguardo”. Questa terza sezione è il vero tòpos del racconto, ed è quindi utile presentare separatamente ed in sequenza il testo che narra le azioni ed i pensieri di Elisa, con accanto il significato emotivo che i ricercatori ipotizzano possa aver provato Elisa durante questi pochi secondi di dialogo. Quest’analisi (Tabella 1) è frutto di un lavoro prima individuale e poi di gruppo tra i ricercatori e di un successivo incontro con Elisa stessa (member checking) (Silvermann 2000).

Tabella 1Analisi testuale delle azioni e del vissuto di Elisa (righe 29-43)

Azioni

Pensieri

Emozioni sintesi

  • fisso il caffè nel bicchiere

  • non ho mai visto un caffè così nero…

  • non riesco a guardare Alice negli occhi…

  • senso di vuoto, imbarazzo

  • disagio, paura di essere giudicata, vergogna

  • ho una domanda che non dà tregua al mio cervello: che cos’è giusto?

  • inquietudine, disorientamento, tensione al compito

  • paura di deludere

  • E poi: perché proprio a me questa domanda?

  • Io non ti conosco, come posso decidere una cosa così importante?

  • irritazione, senso di inadeguatezza, desiderio di distacco

  • io sono in silenzio e lei mi guarda…

  • mi sento schiacciata dal suo sguardo

  • inadeguatezza, senso di colpa, vergogna

  • vorrei capire qual è la risposta giusta

  • qual è la risposta che lei si aspetta da me, per sollevarla un pochino da questo peso

  • senso del dovere, desiderio di aiuto

  • frustrazione, debolezza, senso di inefficacia

  • mi sento in difficoltà

  • continuo a chiedermi qual è la risposta giusta

  • mi chiedo cosa vorrei io, ma io non so niente di questo, non ho figli

  • [mi chiedo] cos’è il bene per loro, e cos’è il bene per Mario, le bimbe da grandi potranno soffrire per non aver visto il papà o si ricorderanno solo le cose belle, Mario sarà più sereno dopo averle viste o starà male

  • insicurezza, paura di deludere

  • disorientamento

  • senso di impotenza, ansia

  • senso di tristezza e di inefficacia

 

  • e Alice cosa pensa? …

  • non vorrei mai essere andata e bere quel caffè

  • vorrei non essere lì

  • incertezza, impotenza, angoscia

  • senso di inefficacia e di inadeguatezza

  • paura di essere giudicata

  • preoccupazione, risentimento

  • desiderio di trovare una soluzione

  • desiderio di fuga

  • io non ho gli elementi per dire cosa è giusto fare

  • forse è meglio non prendere una posizione, perché rischia di essere una posizione forzata

  • preferisco dire ad Alice la verità…

  • bisogno di giustificarsi

  • la guardo e le dico che non so qual è la scelta giusta in questi momenti e che non saprei cosa consigliare…

  • Leggo negli occhi di Alice la delusione, o forse leggo in me la delusione, non l’ho aiutata quando lei mi ha chiesto aiuto

  • insoddisfazione e delusione

  • frustrazione

  • senso di fallimento

  • senso di colpa

Il racconto si conclude con l’epilogo della tragica storia di Mario. Le bambine vanno a trovarlo in “una bellissima giornata di sole”. Non si riconoscono, ma Mario sembra che abbia aspettato proprio il loro saluto per congedarsi dalla vita.

Analisi strutturale e discussione dei risultati
Il racconto di Elisa narra un episodio di disagio etico in una situazione ai margini di quello che in genere è considerato il lavoro dell’infermiere italiano: esso racconta di una situazione assistenziale non clinica, ma puramente relazionale, non centrata sul paziente, ma su un familiare, in un contesto non sanitario, ma neutro, come possono esserlo appunto le aree ristoro dei reparti.
Questa marginalità permette di focalizzare meglio l’attenzione sul processo di pensiero che accompagna le azioni di Elisa: non ci sono linee guida evidence-based che possono aiutarla; non esistono protocolli operativi di reparto, né tanto meno articoli del Codice deontologico che indicano come occorre comportarsi in una situazione simile. Come Elisa ha detto nell’intervista in profondità, in quella situazione si è sentita “insicura e debole”, “abbandonata a sé stessa” e ai propri pensieri, “ruminando i propri interrogativi” alla ricerca della soluzione “giusta” per il problema posto da Alice.
In queste situazioni, non così infrequenti come potrebbe sembrare, gli infermieri sono sprovvisti della “copertura” decisionale offerta dagli strumenti organizzativi e clinici standardizzati e si può meglio indagare il processo di pensiero che sostiene l’agire infermieristico. Nella parte topica del racconto di Elisa nessuna delle due protagoniste, prese singolarmente, ha la soluzione del problema. La soluzione, se c’è, sta alla fine di un percorso di comprensione reciproca e di co-costruzione dei significati di volta in volta diagnostici (sul problema da affrontare, nel nostro caso la visita delle figlie di Mario al loro papà), terapeutici (sulle soluzioni migliori, più efficaci o appropriate per loro, quale ad esempio il senso di questa visita per ognuno dei familiari, con relative riflessioni su rischi e benefici) ed educativi (sulle fatiche e sulle risorse di coping che questa famiglia può mettere in campo per affrontare e gestire il dramma che sta vivendo). Appare evidente che nel dialogo tra Alice ed Elisa questo percorso di ricerca di una soluzione condivisa non è avvenuto.
Quando ci si propone di cercare insieme al paziente la soluzione migliore per lui ai problemi che lui sta vivendo, ci poniamo necessariamente in un’ottica costruttivista o ancora meglio, partecipativa (Lincoln & Guba, 2000). Ma un tale percorso implica una capacità meta-riflessiva da parte dell’infermiere, che deve potersi astrarre dal proprio ragionare per accogliere la riflessione dell’altro e per dialogare con lui. Occorre che l’infermiere riesca a “pensarsi pensare” per poter cogliere che cosa gli stia accadendo e che cosa sia davvero importante in ciò che gli sta accadendo (Benner, 1994; Mortari, 2009). Se è vero, come sostengono Benner e Wrubel (1989, p. XI), che la prassi infermieristica è “una pratica di cura la cui scienza è guidata dall’arte morale e dall’etica dell’assistenza e della responsabilità”, capire su che cosa esercitare questo primato dell’etica e della responsabilità non è sempre facile. La scoperta di ciò che è saliente, primario ed essenziale in una situazione non è immediata né scontata: richiede molta esperienza e capacità riflessive perspicue per non essere soggiogati dalle emozioni e dai conflitti che possono nascere nelle situazioni assistenziali (Dierckc de Casterlé et al., 1997, 2008; Erlen & Sereika, 1997; Benner et al., 2010;).
L’analisi strutturale dell’episodio topico del racconto mostra che Elisa non è stata in grado di governare il flusso di pensieri e di emozioni che l’hanno investita. Come mostra la Tab.1, il pensiero esplicito e le azioni di Elisa sono state sostanzialmente accompagnate da un progressivo senso di smarrimento. Una domanda “non dà tregua” ad Elisa: la ricerca di una risposta “giusta”. La difficoltà, o l’impossibilità, di fornire ad Alice una soluzione definitiva al suo quesito suscita in Elisa un senso di inadeguatezza e di irritazione crescente che mostra il suo grado di impreparazione ad affrontare situazioni simili. Concetrata sulla ricerca solitaria della risposta “giusta” da dare, Elisa ha perso di vista l’importanza di rendersi disponibile ad Alice per un percorso di ricerca condiviso di una risposta possibile.
Tre sembrano gli elementi fondamentali che si sono potenziati a vicenda nel determinare il disagio etico finale descritto da Elisa: il suo legame ad un pensiero logico-formale orientato al problem solving, l’impreparazione a leggere e governare le proprie emozioni all’interno di relazioni ad alta emotività e, infine, l’inadeguatezza nel trovare la salienza nelle situazioni di cura.

Il potere del pensiero logico-formale
Rimuginando continuamente la domanda su “che cosa sia giusto dire” ad Alice, Elisa mostra di essere legata alla forma di pensiero prevalente nel ragionamento clinico, quella scientifica o logico-formale. La formazione professionale che abbiamo ricevuto ci ha insegnato quali fenomeni ricercare e valutare e quali invece scartare, a seconda di ciò che vogliamo. Per far questo, abbiamo sviluppato nel tempo un pensiero logico-formale che ci aiuta a classificare, scegliere, ponderare le alternative e trovare la soluzione migliore da un punto di vista razionale e probabilistico. Ma non è detto che questa forma di pensiero risolva la totalità dei problemi affidati agli infermieri. Anzi, a volte si ha l’impressione che le cose “veramente importanti” dell’assistenza siano altro rispetto a quelle coperte dal ragionamento tecnico (Kikuchi, 1992; Dunlop, 1994; Blondeau, 2002). I quesiti etici suscitati dalla pratica clinica, ad esempio, non possono essere risolti esclusivamente tramite percorsi logico-formali (Rubin, 1994; Benner et al., 2010), i quali, se usati senza la dovuta accortezza, rischiano di essere limitanti.
Anche gli infermieri, come altri professionisti, sono legati ad una epistemologia della pratica professionale che li lascia incapaci di spiegare, o persino di descrivere, competenze alle quali attualmente attribuiscono estrema importanza (Schön, 1983; Schön, 1987). Queste epistemologie tradizionali si rifanno ad un modello di ‘razionalità tecnica’ che, secondo Schön, è ormai insufficiente a spiegare le dinamiche di scelta in situazioni di rischio ed incertezza nelle quali il professionista si trova ad agire. La stessa formazione del professionista sanitario gli insegna a diffidare del sentire affettivo nella situazione (Good, 1994; Schön, 1987; Charon, 2006).
Dal un punto di vista della razionalità tecnica, la pratica professionale è un processo di soluzione di problemi. Formare un infermiere ad essere un “problem solver” amplifica la dimensione interventista a discapito di quella dell’ascolto e della condivisione delle scelte assistenziali. Per Schön (1983) questa enfasi sulla soluzione del problema ci allontana da una corretta impostazione del problema medesimo. Nella realtà della pratica, i problemi non si presentano al professionista come dati di fatto neutri rispetto al processo con il quale sono stati ricercati, ma come elementi che devono essere costruiti a partire dai materiali presenti nella situazione.

Il potere delle emozioni nel processo decisionale
Certamente noi possiamo in qualche misura “scegliere” a che livello di profondità essere coinvolti a seconda delle situazioni che affrontiamo (Stein, 1989): ma è precisamente a partire da questa scelta che precondizioniamo l’eticità ed il valore morale delle nostre azioni di cura. Non tutte le situazioni assistenziali richiedono all’infermiere il medesimo grado di coinvolgimento personale o la stessa intensità di partecipazione emotiva all’esperienza dell’altro; ma, in una situazione come quella vissuta da Elisa, sembra evidente la necessità di essere in qualche modo preparati prima di essere coinvolti nella relazione.
La cartina di tornasole del livello di profondità della relazione di cura è il suo effetto emotivo su ciascuno di noi. La conoscenza personale, scrive De Monticelli, “è sempre anche conoscenza di sé, attraverso quella di un altro individuo” (De Monticelli, 1998, 144; cfr. Zannini, 2008, 7). Elisa appare totalmente assorbita dalla ricerca della “risposta giusta”, e dietro l’incalzare delle proprie emozioni – di cui non appare del tutto consapevole – decide di non esporsi, di rimanere senza risposta. La dinamica tra i pensieri espliciti e i vissuti emotivi (Tab.1) non mostra traccia di un pensiero meta-riflessivo che consenta ad Elisa di staccarsi dal pensiero logico-formale e di pensare che cosa queste emozioni le stavano dicendo e come avrebbe potuto utilizzarle nella relazione con Alice. Nessuno aveva preparato Elisa a legittimare tali emozioni, ovvero a riconoscerle come tali senza dar loro una valutazione morale, e ad utilizzarle come dati informativi essenziali per la valutazione di ciò che sta avvenendo su di sé, sul suo stare in quella situazione (Benner et al., 2010). Vuole “dire ad Alice la verità”, ma in realtà quello che comunica ad Alice è solo una parte della verità: non riesce ad esprimere i suoi pensieri, i suoi dubbi ed il suo senso di insufficienza ed impreparazione. Vorrebbe sinceramente aiutare Alice, ma, non trovando una risposta certa e non riuscendo ad esprimere ad Alice il proprio senso di incertezza ed il proprio disagio, sceglie di non compromettersi ulteriormente ponendo un limite al dialogo: “non saprei cosa consigliare…”. Ciò che esprime ad alta voce è il dato di fatto che non esiste una risposta “giusta in assoluto”, ma, così facendo, non offre una sponda a un dialogo che, pur nell’incertezza e nell’indeterminatezza, potrebbe configurarsi come una ricerca condivisa di una risposta che sia valida per Alice e per la sua famiglia.
Elisa percepisce un senso di delusione per aver interrotto questa ricerca, un senso di colpa “per non aver aiutato [Alice] quando lei me l’aveva chiesto”. Se Elisa fosse riuscita ad elaborare consapevolmente i suoi pensieri e le sue emozioni e avesse trovato il modo di esprimerle ad Alice in modo adeguato, l’esito di questa relazione e l’epilogo della storia di Mario avrebbero potuto essere diversi? Non sarebbe stato questo stesso atteggiamento di ammissione del proprio limite e del conseguente imbarazzo un punto di riferimento per continuare la ricerca di una soluzione appropriata per Alice e la sua famiglia? Di certo, avrebbe mantenuto aperto il dialogo, alleviato la solitudine di Alice e ricostruito un senso di adeguatezza e di identità personale e professionale per Elisa stessa.
Per un tale lavoro di ricerca interiore, i sanitari devono invertire il pensiero logico-formale imparato a scuola e utilizzare il pensiero narrativo visitando e curando non solo il corpo fisico del paziente (Körper), ma il corpo vitale (Leib) di entrambi i protagonisti, mettendo a frutto le informazioni che nascono dal corpo stesso del professionista (Good, 1994; Greenhalgh & Hurwitz, 1998). Rita Charon definisce narrative knowledge quella competenza dell’operatore sanitario che lo affranca dal rischio di appiattire e di spersonalizzare la consultazione, permettendogli invece di rivolgersi al proprio paziente con rispetto, attenzione, discrezione e creatività (Charon, 2006). Altri autori definiscono tale caratteristica dell’operatore “sensibilità etica” (moral immagination) (Scott, 1998). Secondo Martha Nussbaum, l’immaginazione narrativa è una delle capacità distintive essenziali per coltivare l’umanità nel mondo attuale: senza la capacità di pensare creativamente eventi e situazioni verosimili a partire dalla situazione data, non è nemmeno possibile provare empatia e compassione per gli altri (Nussbaum, 1999).
Come sostiene Patricia Benner (Benner et al., 2008):

  • Lo sviluppo dell’abilità di riflettere criticamente del clinico dipende da ciò su cui ha imparato a prestare attenzione: ricercare la salienza significa guadagnare la capacità di accorgersi e di comprendere ciò che è rilevante in una data situazione e dalla capacità di rispondervi. Il senso della salienza di un clinico in ogni situazione dipende dalle passate esperienze e dalle evidenze scientifiche correnti. La riflessione critica è una competenza cruciale del professionista, ma non è l’unica abilità di ragionamento o di logica clinica richiesta. L’abilità di pensare criticamente utilizza la riflessione, l’induzione, la deduzione, l’analisi, l’assunzione del rischio e la valutazione del dato e delle informazioni guida del processo decisionale.

Se quindi l’attenzione alla salienza è il primo passo della comprensione, l’anima dell’attenzione è l’accogliere affettivo, che è la precondizione essenziale al sentire e al giudicare etico. Per De Monticelli questa attenzione “del cuore” dovrebbe essere posta “a fondamento di tutta la filosofia morale” (2004, p.18; 2003), perché, se viviamo davvero a partire da livelli di profondità differenti, come dice Edith Stein, ciò avviene da un lato secondo la profondità propria di un certo avvenimento, e dall’altro, “secondo la nostra disponibilità ad accoglierlo al ‘giusto’ livello di profondità” (De Monticelli, 2004, p.173-174). La precondizione all’esperienza di cura del paziente è l’apertura all’altro, a ciò che ha da dirmi. Questa “attenzione del cuore” ha il suo polo estremo in quello che potremmo semplicemente chiamare “bontà”, “poesia” o “amore” (Watson, 1996; Kittay, 1999), o “umanità” (Nussbaum, 1999; 2001) mentre trova l’estremo opposto nella disattenzione, insensibilità o insipienza dei frivoli e dei superficiali e, potremmo anche dire, nell’irresponsabilità e nel “silenzio del giudizio” dei duri di cuore (Arendt, 1963).
Nel racconto di Elisa questa prima essenziale precondizione ad ogni espressione etica – cioè l’accoglienza affettiva – è ben presente ed è dimostrata dall’insieme delle emozioni scatenate dalla situazione; ciò che è mancato è stata la capacità o l’esperienza per orientare tali energie nel sostenere un dialogo con Alice nella costruzione di una soluzione condivisa (Dierckc de Casterlé et al.,1997; 2008).

Alla ricerca della salienza
Elisa è stata affettivamente attenta a ciò che avvenne quel giorno alla macchinetta del caffè; da brava infermiera era genuinamente orientata alla ricerca del bene per Mario e Alice (Goethals et al., 2010), eppure questa ricerca è stata infruttuosa e eticamente insoddisfacente. L’orientamento al pensiero logico formale e l’impreparazione a gestire le proprie emozioni nella situazione specifica sono forse state le cause principali di tale insuccesso, unitamente all’impreparazione ad assumere la salienza di ciò che stava accadendo. Se la cura è cura della vulnerabilità dell’altro (Nortvedt, 2001; Edwards, 2001), Elisa si è mostrata sostanzialmente impreparata ad un percorso che richiedeva l’esposizione e il confronto con la sua stessa vulnerabilità. Forse, dietro alla mancanza di competenze professionali, scopriamo in Elisa una mancanza nella capacità di aver cura di sé stessa, dei suoi sentimenti e dei suoi valori quando esposti a ciò che la situazione le richiedeva (Varcoe et al., 2012; Mortari, 2009).
A volte, come nel caso raccontato da Elisa, nella situazione di cura non è possibile seguire uno schema preordinato, ma occorre anzi allontanarsene, variare il nostro approccio alla situazione, modellare noi stessi per accedere al mondo dell’altro per ricercare e negoziare con l’altro la soluzione del problema, quella per lui più significativa e appropriata: in questo senso, la cura è essa stessa ricerca (Ellis, 1969; Henderson & Nite, 1968; Evans, 1980; Mortari, 2006). In alcune situazioni di cura, tutta la nostra persona è implicata nella situazione, e siamo in grado di prenderci cura degli altri solo quando siamo in grado di coinvolgere tutta la nostra persona – la nostra razionalità, sensibilità, affettività e corporeità – nella ricerca di ciò che di saliente sta accadendo al paziente e a noi stessi.
In questi particolari percorsi di cura lo strumento da perfezionare non è l’oggetto (la malattia, la diagnosi infermieristica, la cura come trattamento eccetera), ma la persona stessa del professionista inserito nella situazione di cura (Mortari, 2009). Seguendo ancora una volta Patricia Benner, l’eccellenza degli infermieri ha origini percettive, nel senso che la consapevolezza dei propri sentimenti e delle proprie percezioni costituisce una parte importante del giudizio clinico (Benner, 1984, 3; Benner, 2011). La narrazione, quindi, non solo permette di avvicinarsi alla questione etica, ma è la stessa questione etica che con il suo carico di pensieri e di emozioni permane a lungo nella memoria e nel cuore dei protagonisti, cambiandone il modo di pensare e di sentire, e preme per essere narrata.
Vari studi fenomenologici mostrano come il giudizio professionale degli esperti assomigli molto alle categorie filosofiche della “saggezza pratica”, della “prudenza” e dell’ordo cordis cui si accennava sopra; si è altresì visto che gli infermieri possono capitalizzare queste attitudini mettendo a frutto nel tempo le riflessioni sulla pratica favorite dalla narrazione (Scott, 1998, 152; Benner et al., 1999; 2010, 165ss; 2008; Zannini, 2008, 74; De Monticelli, 2003). Ogni incontro tra infermiere e paziente è quindi l’inizio di un percorso di ricerca della salienza nel quale la “soluzione migliore” va costruita a partire dalle categorie e dalle indicazioni offerte dalla scienza, quando disponibili, onde poi superarle. La soluzione migliore è quella che tiene conto del potere decisionale del paziente e dell’infermiere, entrambi consapevoli dei valori in gioco nella situazione, consapevoli, come dice Bachtin, che “il criterio della profondità della comprensione [è] uno dei criteri supremi della conoscenza nelle scienze umane” (Bachtin, 1986, p. 127).

Conclusioni
Abbiamo esplorato il processo attraverso il quale si determinano situazioni eticamente deludenti per gli infermieri coinvolti in una situazione di cura. La percezione del disagio etico è un segnale che qualcosa nella relazione di cura ha colpito la nostra sensibilità: allenarsi alla salienza permette in questi casi di attivare un vero e proprio percorso di ricerca interiore elaborando significati co-costruiti tra tutti i protagonisti della situazione di cura. Come aveva intuito Henderson (1966, 69), possiamo dire che l’infermiere, con tutto se stesso, è una variabile indipendente del percorso di cura. Se ancora non possiamo misurare in termini scientifici il peso “dell’etica dell’assistenza e della responsabilità” (Benner & Wrubel, 1989, p. ix) negli esiti dell’assistenza infermieristica, stiamo tuttavia iniziando a capire come questo avvenga.
La ricerca della salienza in ogni situazione di cura potrebbe essere un valido esercizio per allenare il giudizio prudenziale degli infermieri. Come scrive Ricoeur (1996, 29-30), il giudizio medico segue infatti tre livelli. Il primo è quello prudenziale (altrimenti detto della saggezza pratica, o phrónesis, la prudentia dei latini); il secondo è quello deontologico (nel senso dell’etica) e il terzo è quello riflessivo (nel senso della morale). Nel giudizio prudenziale, infatti, il “sentire” e il “giudicare”, il “comprendere” e lo “spiegare” hanno la caratteristica dell’immediatezza e, come abbiamo visto nel racconto di Elisa, quella di coniugare i principi generali con i casi particolari (Aristotle, Nicomachean Ethics, 1142). È per questo che il giudizio dei clinici, prima ancora di essere oggetto di riflessione “deontologica” o “morale”, è essenzialmente prudenziale: esso indica la “giusta misura” del coinvolgimento personale del professionista, la sua capacità di tessere insieme il pensiero logico-formale e quello affettivo e di riconoscere che la soluzione migliore al quesito etico – così come significata dal paziente – non è estranea al processo che l’ha costruita. Nella cura, come nella saggezza pratica, il fine è la bontà stessa dell’azione (Aristotele, Nicomachean Ethics, 1140b; Gadamer, 1960; Benner, 2000; Blondeau, 2002) e non già quella delle sue conseguenze.
Ciò spiega perché gli infermieri amano raccontare storie di assistenza. Raccontano perché sanno che i resoconti scientifici e le teorie formali non raccolgono il valore reale di quello che passa loro tra le mani. Raccontano perché sentono l’urgenza di riflettere su gesti apparentemente umili che hanno in sé il potere terapeutico della cura, nonché su situazioni che hanno avuto il potere di cambiare il loro modo di sentire e di agire. Raccontano perché avvertono che, in certi casi, la soluzione ‘migliore’ sfugge alle indicazioni operative dettate dai protocolli evidence-based o alle indicazioni comportamentali dei Codici deontologici, nascondendosi piuttosto nell’attenzione ai particolari, perché come diceva un’infermiera: “è dietro ai particolari che si nasconde la persona”.

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