La percezione degli assistiti sulla tutela della dignità in ospedale: uno studio qualitativo


RIASSUNTO
Introduzione La dignità del paziente è un valore fondamentale nell’assistenza infermieristica, ma complesso e relativo. Nella pratica gli approcci mirati a tutelarla risultano diversificati e non sempre efficaci; la soggettività del tema suggerisce la necessità di indagare la percezione degli assistiti. Data l’assenza di studi condotti sull’argomento nel nostro paese, con questa indagine qualitativa si intende esplorare il significato di dignità dell’assistito e valutare i fattori che favoriscono o ostacolano il suo mantenimento, specialmente in relazione alla pratica infermieristica, nel contesto di un ospedale italiano.
Materiali e metodi L’indagine è stata condotta, mediante interviste semistrutturate della durata di circa 20 minuti, su un campione di convenienza formato da 30 pazienti ricoverati presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano nel luglio 2011.
Risultati Le interviste raccolte indicano che la dignità è percepita prevalentemente in due varianti, attiva e passiva. Sono state individuate tre componenti generali che possono promuovere o ledere la dignità del paziente: fattori legati all’assistito, all’ambiente o al personale sanitario.
Conclusioni Dall’analisi dei dati emerge maggiormente la percezione passiva di dignità; l’assistito tende ad affidarsi all’altro. Sul mantenimento della dignità influisce soprattutto il comportamento del personale: l’assistito considerato persona si sente “a casa”.
Parole chiave: dignità del paziente, assistenza infermieristica, percezioni degli assistiti


Patients’ perception of dignity in the hospital setting: a qualitative study

ABSTRACT
Introduction Patients’ dignity is an essential value in nursing, but the notion of dignity is complex and relative. In everyday practice the approaches aimed at promoting dignity are different and not always effective; the subjectivity of the concept suggests the need of paying attention to patients’ perspectives. Given the lack of studies conducted on the topic in our country, the purpose of this qualitative survey was to explore the meaning of patient dignity and to assess the factors which facilitate or hinder its maintenance in the context of an Italian hospital, particularly in relation to nursing care.
Materials and methods The survey was conducted in July 2011 on a convenience sample of 30 patients at the Ospedale Maggiore Policlinico of Milan, using semi-structured interviews lasting approximately 20 minutes.
Results The data collected show that dignity was perceived mainly in two forms, active and passive. The analysis of the interviews identified three general components that may promote or diminish dignity: factors related to the patient, to the physical environment or to the hospital staff.
Conclusions Respondents appeared to perceive mostly the passive aspect of dignity; patients tend to rely on the others. Staff attitudes and behavior greatly influence the preservation of dignity: the patient treated as a whole person feels “at home”.
Key words: dignity in care, nursing, patients’ perception


 

INTRODUZIONE
Il rispetto per la dignità del paziente è un concetto fondamentale nell’assistenza infermieristica (Stievano, 2008). L’ultima stesura del Codice deontologico degli infermieri italiani (Federazione Nazionale Collegi IPASVI, 2009) sottolinea la dignità dell’assistito (articoli 3 e 5) e l’infermiere si impegna a rispettarla nel Patto infermiere-cittadino (Federazione Nazionale Collegi IPASVI, 1996). Anche la Carta europea dei diritti del malato (Active Citizenship Network, 2002) garantisce all’assistito 14 diritti, di cui il sesto (diritto alla privacy e alla confidenzialità) è riconducibile alla tutela della sua dignità.
Il tema è stato esaminato da diversi autori. Per Macklin la dignità sembra un concetto privo di significato al di là di ciò che è già implicito nel principio di etica medica (Macklin, 2003); al contrario, Griffin-Heslin afferma che mantenere la dignità del malato in un contesto di cura è essenziale per permettergli di sentirsi potente in un momento vulnerabile della sua vita e per migliorare la sua autostima (Griffin-Heslin, 2005). Anche secondo Gallagher la dignità conta per gli assistiti, le famiglie e i professionisti; se le persone non si sentono apprezzate, sono propense a sentirsi sminuite, imbarazzate o umiliate (Gallagher, 2011). Come sostengono Matiti e Trorey, salvaguardare la dignità è un dovere per tutti coloro che sono coinvolti nei processi di cura. Queste restano però parole senza senso se non vengono identificati i bisogni dei pazienti, con piani d’azione per andare incontro alle loro esigenze e soddisfare le loro aspettative; per facilitare il raggiungimento di tali obiettivi possono essere sviluppati strumenti specifici (Matiti, Trorey, 2008).

Definizione
Il termine dignità deriva dal latino dignitas, che significa valore, meritevole di rispetto (Stievano et al., 2009). Lennart Nordenfelt descrive quattro forme di dignità: di merito, morale (o di statura esistenziale), di identità e Menschenwürde (dignità universale umana). La prima forma è proporzionale alla posizione che la persona occupa nella società; la seconda è correlata ai pensieri e alle azioni della persona secondo regole morali. La dignità identitaria è insita in noi stessi come persone autonome; ha maggior significato in contesti quali la malattia o l’invecchiamento e può essere intaccata da eventi o comportamenti esterni. Queste tre varianti costituiscono una dignità estrinseca, perché possono mutare nel corso della vita dell’individuo; differente è la Menschenwürde: un tipo di dignità posseduta da tutti gli esseri umani senza differenze finché in vita (Nordenfelt, 2004).
Per Mairis (1994) la dignità consiste nella capacità di comportamenti della persona e nel modo con cui è trattata, quando è a suo agio sia fisicamente, sia in termini psicosociali. Haddock (1996) aggiunge l’essere apprezzati e ritenuti importanti anche in condizioni non favorevoli; tesi accolta anche da Baillie (2009) in base all’esame delle percezioni di assistiti e infermieri. Jacelon e collaboratori ribadiscono che la dignità è una caratteristica intrinseca dell’uomo, che può essere intesa come un attributo e manifestarsi nel rispetto reciproco (Jacelon et al., 2004). È in linea anche la definizione di Shotton e Seedhouse (1998), derivata dalle loro personali esperienze e descritta in negazione: disagio, senso di inadeguatezza e vulnerabilità determinano mancata dignità. Una delle definizioni più recenti sta alla base della campagna Dignity, lanciata in Gran Bretagna nel giugno 2008 dal Royal College of Nursing, valida per qualsiasi individuo che diventa persona assistita. Tre sono i fattori principali che possono influenzare la promozione o la violazione della dignità: l’ambiente fisico, le persone e i processi. La presenza o assenza di dignità può condizionare il benessere dell’assistito; il rispetto della dignità si applica indistintamente e ugualmente per tutti, anche verso chi manca di autonomia, di capacità di scelta o di volontà, fino a dopo la morte (Royal College of Nursing, 2008).
Oltre alle definizioni riportate, dalla nostra revisione bibliografica sono emersi studi qualitativi – nessuno dei quali condotto in Italia – che hanno valutato le percezioni di assistiti e infermieri riguardo alla dignità del paziente e alle modalità con cui tale diritto viene promosso e/o violato durante la degenza in strutture di cura. Questi studi indicano come per gli assistiti la salvaguardia della dignità dipenda in maniera sostanziale dall’approccio e sensibilità del personale sanitario e dall’interazione terapeutica. Per molti pazienti è fondamentale mantenere un senso di controllo, di partecipazione alle cure e di indipendenza; è importante inoltre essere informati e difendere la privacy del corpo (Baillie, 2009; Gallagher, Seedhouse, 2002; Henderson, 2007; Lin et al., 2011; Matiti, Trorey, 2004; Walsh, Kowanko, 2002). Per gli infermieri la componente prioritaria è la privacy del corpo, ma sono rilevanti anche il coinvolgimento nelle cure e la comunicazione sensibile (Baillie et al., 2009; Heijkenskjod, 2010; Lin, Tsai, 2011; Walsh, Kowanko, 2002). Per entrambi, l’ambiente facilita la tutela della dignità se confortevole e riservato (Baillie, 2009; Baillie et al., 2009; Gallagher, Seedhouse, 2002).
Secondo Haddock, considerando la soggettività del concetto di dignità – da cui derivano approcci diversificati nella pratica e non sempre efficaci per la sua salvaguardia – sarebbe utile studiare in modo più dettagliato, tramite indagini fenomenologiche, l’esperienza vissuta dell’assistito (Haddock, 1996). Anche Gallagher insiste sulla necessità di ampliare la ricerca in tale settore, per capire che cosa contribuisce ai deficit di dignità nelle cure e cercare di porre rimedi. Questa dovrebbe essere una priorità per chi opera in materia di etica sanitaria (Gallagher, 2011). Data l’assenza in letteratura di studi sull’argomento condotti nel nostro paese, con questa indagine ci siamo proposte di investigare le percezioni degli assistiti sul significato di dignità e sui fattori che possono favorire od ostacolare il suo mantenimento, particolarmente in relazione alla pratica infermieristica, nel contesto di un ospedale italiano.

MATERIALI E METODI
Per il campionamento, di convenienza e fino a saturazione, sono stati coinvolti degenti nelle Unità Operative di Cardiologia, Broncopneumologia, Chirurgia generale e toracica e nel Centro trapianti di rene e fegato dell’IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. I criteri di inclusione prevedevano che gli assistiti fossero ricoverati da almeno 24 ore nei reparti citati, fossero in condizioni stabili, senza funzioni vitali compromesse, che fossero maggiorenni, in grado di comprendere ed esprimersi in lingua italiana, e avessero dato il loro consenso alla rilevazione e al trattamento dei dati.
Come strumento si è utilizzata un’intervista semistrutturata face to face suddivisa in due parti. La prima includeva la raccolta di dati socioanagrafici quali età, sesso, nazionalità e professione. Inoltre, veniva chiesto al paziente da quanti giorni si trovasse in ospedale e quanti ricoveri avesse sostenuto prima di quello attuale. La seconda parte consisteva in domande aperte che riproponevano i quesiti della ricerca; l’assistito poteva rispondere liberamente facendo riferimento alla degenza in corso o a eventuali ricoveri precedenti, interrompendo il colloquio quando lo desiderava. Le domande erano poste in base alla direzione che prendeva il colloquio; se l’assistito aveva già descritto alcuni aspetti si evitavano domande non più necessarie. Le interviste, della durata di circa 20 minuti, sono state audioregistrate e poi trascritte oppure, in caso di mancato consenso alla registrazione, trascritte direttamente chiedendo conferma all’assistito durante la verbalizzazione.
La rilevazione dei dati è avvenuta nel luglio 2011. A ogni intervista è stato associato un codice identificativo: una lettera seguita da un numero. L’analisi dei dati si è articolata in tre fasi. Nella prima, le interviste sono state lette più volte indipendentemente dalle due autrici, per acquisire familiarità con i contenuti. La seconda lettura aveva lo scopo di individuare e classificare concetti chiave e idee ricorrenti. Nella terza e ultima fase sono stati raggruppati gli elementi comuni, descritti in una sintesi finale con le citazioni più significative del vissuto degli assistiti, esemplificative per l’esposizione dei risultati. Nella sezione successiva ogni citazione viene riportata con il codice identificativo corrispondente all’intervista da cui è stata tratta.

RISULTATI
Tabella 1.Caratteristiche degli intervistatiSono state condotte 30 interviste; le caratteristiche generali dei partecipanti all’indagine sono illustrate nella Tabella 1. I dati raccolti sono stati classificati raggruppando gli elementi comuni rispetto al significato di dignità e ai fattori che influiscono sul suo mantenimento nel quadro di una degenza ospedaliera.

Significato di dignità
Emergono due varianti di dignità percepite; tutti i pazienti intervistati sono consapevoli dell’esistenza di entrambe le sfaccettature, ma alcuni ne percepiscono prevalentemente l’aspetto intrinseco o personale (dignità attiva), mentre altri l’aspetto estrinseco o sociale (dignità passiva).
La dignità attiva riconduce all’indipendenza psicofisica e alla libertà personale: è una caratteristica esclusiva del soggetto e della sua condizione, indipendente dal comportamento di altri. Tale forma di dignità è essenzialmente rappresentata dal rispetto e dal senso di autodeterminazione. Un assistito la definisce così: “Ha a che fare con il fatto di oltrepassare un limite… Credo sia il limite in cui il soggetto sente di non essere più in potere di dirigere la sua esistenza dove vuole, quindi essere completamente in potere di altro… Che può essere la malattia, oppure altre persone, oppure le circostanze… E questo crea un senso… Una sensazione, un’emozione di perdita della dignità…” (M3).
La dignità passiva, chiamata in causa più spesso, viene solitamente percepita come un qualcosa di acquisito. Secondo alcuni come dono da un’entità superiore per religione o credenze: “Ogni essere umano che viene al mondo ha la sua dignità…” (C19); per altri come diritto in un contesto socialmente evoluto: “È… Un diritto che una persona dovrebbe avere nei confronti degli altri, e dagli altri…” (C14). In entrambi i casi emerge la dipendenza dal comportamento di altre persone; confrontando le situazioni riferite, si possono individuare quattro aspetti fondamentali della dignità passiva: considerazione, attenzione per la persona, rispetto della corporeità e della privacy. I primi due sono stati i più citati: “Essere considerato come persona e non come un pezzo di salame buttato lì…” (M1); “Non è la precisione della cura farmacologica o l’attenzione nella medicazione… Sì ci sono infermieri che lo fanno meglio e chi meno, ma è il rapporto…” (C27).

Fattori coinvolti
Per quanto riguarda le componenti che influenzano il mantenimento della dignità, sono stati identificati tre ordini di fattori: legati all’assistito, all’ambiente e al personale (principalmente infermieristico). Ogni area è descritta includendo ciò che concerne sia la promozione della dignità, sia la sua violazione (Tabella 2).

Tabella 2.Componenti coinvolte nel mantenimento della dignità del paziente

L’unico fattore che promuove la dignità riconducibile all’assistito è l’essere autosufficiente: l’individuo conserva la propria dignità quando mantiene l’indipendenza, la capacità e la possibilità di badare a se stesso. Si deduce che gli elementi favorenti correlati al paziente rappresentino la dignità attiva integra, soprattutto per chi percepisce prevalentemente tale variante: finché è indipendente ha dignità. La perdita di dignità percepita in tale ambito è molto sentita e temuta. Ciò è collegato allo stato patologico, alle condizioni critiche o all’età avanzata: situazioni che rendono l’assistito più vulnerabile, particolarmente se sommate alla perdita di autonomia sia nell’agire, sia nello scegliere. Il tutto è ben riassunto dalle parole di una paziente: “Se riesco a essere autosufficiente ecco che la mia dignità è salva… La mia dignità la perdo quando sono costretta a dipendere da altre persone…” (C20).
Seppure in minima parte, incide anche l’ambiente. Per alcuni le strutture accoglienti possono essere piacevoli ma non rendono un trattamento più dignitoso, se mai più umano o confortevole. Anche in loro assenza, la dignità percepita sarebbe la stessa. Tuttavia, da molti è avvertita positivamente la presenza di camere comode, pulite, dotate di servizi e di spazi per i pazienti. Alcuni si soffermano anche sulla possibilità di disporre di oggetti d’uso comune nelle stanze. Un’assistita infatti ribadisce: “Perché anche quelle cose lì possono essere di aiuto… Noi qua, già è piccola, perché le camere sono proprio piccole… Però abbiamo la tele, abbiamo il microonde, abbiamo il frigorifero…” (M4). Elementi negativi sono la mancanza di pulizia, di alcuni servizi, di comfort, il cibo scadente e a orari insoliti; ma specialmente le camere con più letti e il bagno in comune, come segnala un altro paziente: “Avere il bagno in camera è già un’altra cosa… Perché insomma, sei autonomo… Se sei in due ti metti d’accordo… Ma quando sei in venticinque e vai tutti nello stesso bagno… Non riesci nemmeno a rispettare i bisogni…” (C13). Tra le righe si può leggere che un ambiente simile costringe gli assistiti a subire una minore riservatezza e privacy, ponendo allo stesso tempo un accento maggiore sui loro handicap temporanei o sulle diminuite capacità di movimento.
I fattori più rilevanti e più citati sono comunque quelli legati al personale: atteggiamenti e comportamenti che fanno percepire all’assistito di essere considerato come persona sono alla base della promozione della dignità. Quasi tutti gli intervistati riferiscono di sentirsi rispettati quando viene riconosciuto che dietro al malato c’è la persona, con l’insieme delle sue caratteristiche, sottolineando l’importanza di instaurare rapporti umani e di essere trattati con equità.
Alle interazioni con lo staff ospedaliero, in particolare infermieristico, viene attribuito un ruolo centrale: “I rapporti interpersonali umani… Che vanno oltre le cure… Nel senso che a volte basterebbe una parola o un gesto, comunque si ha un appoggio… Per far magari dimenticare i problemi… A volte secondo me una parola spesa in più per una persona che magari non attraversa un periodo positivo può sicuramente allietare… E dare dignità…” (M30). Un approccio che manifesta empatia, disponibilità, attenzione, tempestività e gentilezza garantisce dignità perché l’assistito si sente seguito: “E poi credo che anche il fatto che entrano e ti chiedono ‘Posso fare, posso dire…’ Penso sia un modo per mantenere la dignità” (M8). Molti avvertono il bisogno della “vicinanza” del personale infermieristico; la percezione di essere centro dell’attenzione rassicura l’assistito: “Per me la vicinanza del personale all’ammalato… Per me vuol dire tanto… Cioè tante volte basta entrare, fare un saluto… ‘Tutto bene?’…” (C12). Alcuni segnalano l’importanza di sorrisi, battute, di un’atmosfera informale e positiva; ma anche di una comunicazione efficace, di un dialogo che preveda la possibilità di parlare di altri argomenti oltre alla malattia, alle cure, al ricovero.
Gli assistiti paragonano un ospedale in cui la loro dignità è mantenuta a una casa; secondo una paziente, il malato conserva infatti la sua dignità “… Se trova persone a modo, per bene… Con delle attenzioni, che lo fanno sentire… A casa sua…” (C11). Inoltre, molti descrivono la relazione assistito-infermiere con termini che richiamano la sfera familiare e che indicano l’esigenza di essere presi in considerazione, a cuore: “Se vengo trattata umanamente, come farebbe… Non so, un fratello, una sorella, un amico… Ecco, io mi sentirei… Bene…” (C21). Frasi di questo tipo sono frequentemente usate dagli intervistati: la famiglia e/o la casa sono metafora di un luogo in cui la dignità è garantita.
Al contrario, a compromettere la dignità sono comportamenti del personale che fanno sentire l’assistito “un numero”, “un oggetto”, soltanto “un malato”. La minaccia più evidente e frequente è la percezione di spersonalizzazione. A volte ciò deriva direttamente dall’atteggiamento del personale, da un’assistenza sbrigativa, da approcci privi di professionalità e compassione; in altri casi dal contesto ospedaliero in sé, con cui gli stessi operatori devono fare i conti. Qualunque sia la causa, il riscontro è estremamente negativo: “Tu entri la mattina… Hanno 10.000 casi in un giorno… Però non sei più ‘xy’, sei un numero… 107, e per tutto il giorno sei il 107… E uno si sente un numero… Una parte meccanica…” (C13). L’assenza di empatia porta a non comprendere che cosa sta vivendo l’assistito, restando indifferenti o superficiali, e a ostacolare la sua relazione con il personale (incluso quello di supporto): “L’infermiere che non si mette nei panni del paziente e quindi tende a chiedere quel qualcosa che forse il paziente non può dare in quel momento…” (C17). Comunicazioni poco chiare o assenti, risposte brusche o arroganti, toni alterati o seccati e modi di fare privi di umanità ed educazione diminuiscono ulteriormente la dignità dell’assistito: “Ci vorrebbe anche un minimo di approccio… Devi sapere come ci si comporta… Puoi essere il più bravo del mondo… Però se non ti sai rapportare con gli altri… Diventa una tortura… Per gli altri…” (C13).
L’assistito è già consapevole del suo stato di inferiorità; se tale disparità viene fatta notare e pesare dal personale (soprattutto medico), provoca nell’assistito una sensazione descritta come disagio, soggezione o vergogna: “Poi quando arrivano i dottori che ti guardano dall’alto verso il basso… Ecco lì magari la figura del paziente… Ti porta a essere in soggezione… Cioè una lo sa, non ha un rapporto alla pari… Però se uno lo fa pesare di più… Mentre uno di meno…” (C13). Incidono negativamente anche la fretta e l’eccessiva veemenza dei modi; alcuni riferiscono episodi in cui un compagno di camera veniva trattato in maniera a loro giudizio offensiva. Ciò che è certo e su cui molti intervistati concordano è che situazioni simili non aiutano a creare un ambiente disteso, accogliente e sicuro. L’assistito che avverte l’altrui dignità compromessa, sente come compromessa la propria: “Con persone che non erano autosufficienti… Maltrattarle… Cioè sbatterli di qua e di là quando dovevano accudirli…” (C20).
Un altro fattore potenzialmente lesivo della dignità è lo scambio di informazioni tra il personale e l’assistito: quando avviene senza riservatezza davanti ad altri pazienti, oppure quando si verifica in maniera poco esaustiva, dando adito a dubbi e perplessità, o non avviene affatto. In particolare, viene percepito molto negativamente il fatto di lasciare un paziente in attesa senza alcuna spiegazione: “Uno aspetta, passano due ore… Però se poi mi spieghi che le due ore sono causate da impegni precedenti, allora qui cade tutto e la dignità rimane quella che è. Le informazioni, il modo… Poi nel mio caso ho trovato sempre persone disponibili e gentili…” (C26). È importante ricevere spiegazioni esaurienti, fornite evitando termini tecnici complicati, e avere il tempo di capirle e rielaborarle; tempi e modi a misura dell’assistito fanno sì che quest’ultimo possa comprendere ed essere rassicurato su eventuali dubbi: “Anche le informazioni mi sono state date in un linguaggio semplice… Mi hanno spiegato in parole semplici quello che ho fatto, ecco… Positivo…” (M5).
Problema citato da pochi, ma di grande impatto per chi l’ha vissuto, è limitare l’esposizione del corpo. La nudità, seppure inevitabile in certi frangenti, fa sentire il paziente a disagio, impotente, con una forte sensazione di imbarazzo e umiliazione. L’esposizione del proprio corpo, specialmente se associata alla mancanza di indipendenza, incide tanto da azzerare la dignità: “Tu non sei niente e loro devono andare avanti per te…” (C19). Quando la dignità può essere compromessa dalla nudità, l’infermiere ha totalmente il potere di far percepire all’assistito una dignità integra: “Per esempio quando c’è da lavarsi… C’è quella che lo fa giusto perché lo deve fare… E l’altra invece ‘Signora, stia tranquilla, non ci faccia caso, noi siamo abituati’… Ecco, è quello…” (C23). Ancora una volta, le note di alcuni intervistati fanno capire quanto pesino nel promuovere la dignità del paziente l’approccio e la professionalità del personale sanitario: l’agire con competenza, serietà e correttezza, ma anche con passione e dedizione.
Da ultimo, se la metafora per un ospedale in cui la dignità è salvaguardata è la casa, richiamando il ricordo del servizio militare l’ospedale in cui la dignità viene lesa è invece assimilato a una caserma, come immagine che riassume spersonalizzazione, disparità di ruoli e mancanza di empatia: “Pensavo di essere tornato al militare… Nel senso non in un ospedale…” (M30).

DISCUSSIONE
Lo studio ribadisce la complessità del concetto di dignità, che si riflette nella difficoltà di riassumerlo in un’unica definizione (Haddock, 1996; Matiti, Trorey, 2004; McSherry, 2010). Con le proprietà individuate e classificate nelle due tipologie, è possibile un confronto con le varianti delineate da Nordenfelt (2004): la dignità attiva è sovrapponibile alla dignità identitaria che si esplicita con l’autonomia e l’indipendenza, mentre la dignità passiva richiama la Menschenwürde. Tuttavia, mentre Nordenfelt si focalizza sull’intoccabilità, in generale gli intervistati sottolineano la dipendenza dalla condotta di altre persone; emerge quindi maggiormente la percezione “passiva” di dignità, in cui la persona tende prevalentemente ad affidarsi all’altro.
Riguardo ai fattori influenti sul mantenimento della dignità, quello legato all’assistito è un aspetto meno menzionato e che non include il coinvolgimento attivo nel processo di cura, a differenza di quanto descritto in altri studi (Baillie, 2009; Lin, Tsai, 2011; Lin et al., 2011). L’influenza esercitata dall’ambiente appare in linea con ciò che riporta la letteratura (Baillie, 2009; Baillie et al., 2009; Gallagher, Seedhouse, 2002), anche se si discosta rispetto alla disponibilità di oggetti d’uso comune nella stanza.
Per la tutela della dignità appare notevole l’impatto attribuito all’atteggiamento del personale ospedaliero. Sarebbe utile riflettere in chiave positiva e propositiva su questa “responsabilità” che l’assistito conferisce all’infermiere (e ad altri operatori sanitari), ripensando alle modalità di approccio e di comunicazione che infermieri o altre figure adottano nei confronti dei pazienti. Infatti condotte umane ed empatiche promuovono la dignità, così come indifferenza e mancanza di professionalità la compromettono (Baillie, 2009; Gallagher, Seedhouse, 2002; Henderson, 2007; Lin et al., 2011; Matiti, Trorey, 2008; Walsh, Kowanko, 2002). Si ritiene inoltre molto importante evitare l’esposizione del corpo, che genera considerevole imbarazzo e umiliazione nell’assistito; questo aspetto risulta peraltro meno citato che in letteratura (Gallagher, Seedhouse, 2002; Matiti, Trorey, 2008; Walsh, Kowanko, 2002).

CONCLUSIONI
Ciò che emerge in particolare dall’indagine è il paragone di un ospedale in cui la dignità è mantenuta con una casa: un clima familiare e informale con il personale, che mette a proprio agio, dà sicurezza e fa percepire considerazione. L’immagine opposta, la caserma, indica spersonalizzazione, distacco empatico e quindi una dignità lesa.
La speranza che i risultati ottenuti possano sensibilizzare gli infermieri sulla tematica è affiancata dal desiderio di ampliare le ricerche in tale ambito nel contesto dei nostri ospedali, ricerche per le quali questo studio vuole essere solo uno spunto e un punto di partenza.
 

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