La pratica assistenziale nei pazienti oncologici terminali: studio osservazionale retrospettivo in una unità di Medicina Interna


RIASSUNTO
Introduzione Pur nella crescente offerta di alternative, quali la rete delle cure palliative territoriali e gli hospice, la maggior parte dei pazienti oncologici muore in reparti ospedalieri che non sono specificamente strutturati per offrire loro cure ottimali. Con lo scopo di individuare i possibili ambiti di miglioramento dell’assistenza al morente, abbiamo condotto uno studio osservazionale retrospettivo volto a descrivere la pratica assistenziale nei malati oncologici terminali in una unità di Medicina Interna.
Materiali e metodi Sono state analizzate le cartelle cliniche di 82 pazienti oncologici deceduti nel biennio 2007-2008 nel reparto di Medicina Interna del Presidio Ospedaliero di Castelfranco Veneto (Treviso), raccogliendo i dati relativi alle ultime 48 ore di vita.
Risultati L’esame di questi dati rivela che in molti casi i segni/sintomi tipici della terminalità (come dolore, dispnea, agitazione) non erano adeguatamente controllati. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a qualche tipo di terapia e/o a procedure invasive, mentre solo l’8,5% è stato valutato da uno specialista in terapia antalgica. Per tutti i pazienti sono stati inoltre applicati protocolli standard di mobilizzazione, gestione delle lesioni da decubito e igiene. Gli aspetti comunicativi si esaurivano con l’informazione data ai familiari circa la gravità della situazione clinica e l’imminenza del decesso, documentata nel 43,9% dei casi.
Conclusioni I risultati ottenuti, conformi a quelli della letteratura, ribadiscono la scarsa appropriatezza delle cure spesso erogate al paziente oncologico morente nei reparti di Medicina Interna, e la necessità di attuare percorsi assistenziali maggiormente orientati ai reali bisogni dell’ultima fase di vita.
Parole chiave: morire in ospedale, cure di fine vita

 


End-of-life care of hospitalized cancer patients: a retrospective observational study in an Internal Medicine unit

ABSTRACT
Introduction Despite the increasing availability of alternatives, such as the regional network of palliative care and hospices, the majority of cancer patients die in hospital settings not specifically structured to provide them with optimal care. In order to improve care for the dying patient, we conducted a retrospective observational study to describe the practice of care for terminal cancer patients in an Internal Medicine ward.
Material and methods We analyzed the clinical records of 82 cancer patients who died in the Internal Medicine Unit of the Presidio Ospedaliero of Castelfranco Veneto (Treviso) in the years 2007-2008, collecting data regarding the last 48 hours of their life.
Results These data show that in many cases the signs/symptoms of terminality (including pain, dyspnea, agitation) were not adequately controlled. All patients underwent some type of therapy and/or invasive procedures, while only 8.5% was assessed by a pain therapist. All patients were also treated following standard protocols for mobilization, pressure relief and hygiene. According to the medical records information (regarding only the severity of the clinical situation and the imminent death) were provided to patients’ families in 43.9% of cases.
Conclusions Our results, which are in line with those reported in the literature, confirm the lack of appropriateness of the care often provided to cancer patients dying in Internal Medicine wards, and emphasize the pressing need for care pathways more focused on the real needs of these patients in the terminal phase of their life.
Key words: dying in hospital, end-of-life care

INTRODUZIONE
Nella maggior parte dei paesi con sistemi sanitari avanzati, nonostante lo sviluppo di hospice e reti di cure palliative territoriali, un consistente numero di pazienti oncologici continua a morire in ospedale (Beccaro et al., 2006). In Italia la percentuale stimata è del 34,6% su scala nazionale, ma sale al 60,2% nelle regioni nordorientali (Beccaro et al., 2007) e al 78,6% in Veneto (Regione Veneto, Coordinamento regionale per le cure palliative e per la lotta al dolore, 2006).
Paradossalmente, la letteratura scientifica e l’esperienza pratica ci dicono che i malati terminali prediligono condurre le fasi finali della loro vita presso il proprio domicilio, circondati dagli affetti familiari (Beccaro et al., 2007), e che le cure ricevute in ospedale non sempre si dimostrano appropriate. In molti casi l’assistenza fornita comporta infatti la prosecuzione di trattamenti invasivi che risultano disagevoli per i malati e che producono scarsi benefici (Toscani et al., 2005). Inoltre i sintomi tipici della terminalità – quali dolore, agitazione, dispnea, incontinenza o stipsi – che maggiormente contribuiscono alla sofferenza percepita da pazienti e familiari, ricevono spesso un’attenzione insufficiente. A ciò si aggiunge l’incapacità e l’istintiva resistenza ad affrontare esplicitamente il tema della morte, che impediscono una corretta comunicazione tra i vari soggetti in campo (Beccaro et al., 2006) e contribuiscono a togliere qualità alle cure terminali.
Queste problematiche reclamano lo sviluppo di modelli di cura e assistenza alternativi, che stentano però ad affermarsi nell’ambito ospedaliero (Bailey et al., 2005; Ellershaw, Ward, 2003). Con il presente studio abbiamo voluto percorrere una ricognizione sulle caratteristiche delle cure erogate ai pazienti oncologici terminali ricoverati in una unità operativa di Medicina Interna, come sforzo propedeutico al miglioramento della pratica clinica e all’ideazione di un percorso assistenziale specifico per il paziente morente.

MATERIALI E METODI
Questo studio osservazionale è stato condotto attraverso un’analisi retrospettiva della documentazione clinica relativa alle ultime 48 ore di vita di 82 pazienti con diagnosi principale di neoplasia, deceduti nel biennio 2007-2008 presso il reparto di Medicina Interna del Presidio Ospedaliero di Castelfranco Veneto. Sono state analizzate le seguenti variabili: dati anagrafici, diagnosi, durata del ricovero, segni/sintomi presenti, pratiche terapeutiche attuate, procedure diagnostiche richieste, impiego di dispositivi medici, pratiche assistenziali relative all’igiene e alla mobilizzazione, aspetti legati alla comunicazione con pazienti e familiari.

RISULTATI
Gli 82 pazienti con diagnosi principale di neoplasia, oggetto di questo studio, hanno rappresentato il 20% del totale dei decessi avvenuti all’interno della nostra unità operativa nel biennio preso in considerazione. Nel gruppo esaminato 49 pazienti erano di sesso maschile, 33 di sesso femminile; l’età media era di 74 anni (range 37-99 anni).

Nella Tabella 1 è riportata la distribuzione di frequenza dell’età (in decadi) secondo il sesso.

Caratteristiche demografiche dei paziente

La Figura 1 mostra invece la distribuzione delle neoplasie secondo la loro sede di origine, con prevalenza della sede polmonare (20,7% dei casi). La durata media del ricovero è stata di 11 giorni (range 1-49 giorni).

Sede principale di neoplasia

La maggior parte dei pazienti, nelle ultime 48 ore di vita, presentava uno o più sintomi tipici della fase terminale; i sintomi riscontrati con maggiore frequenza erano dolore (59,7%), incontinenza urinaria (32%), dispnea (28%), agitazione (25,6%) e rantolo (24%), come riportato nella Figura 2.

Sintomi presenti nelle ultime 48 ore di vita
Dal punto di vista terapeutico, tutti i pazienti sono stati sottoposti a qualche forma di trattamento farmacologico. A 72 pazienti (87,8%) è stata somministrata una terapia infusionale endovenosa, 68 (82,9%) hanno ricevuto analgesici, 24 (29,2%) antibiotici, 2 (2,4%) amine; per 71 pazienti (86,5%) il trattamento comprendeva la somministrazione di più farmaci associati (diuretici, gastroprotettori, cortisonici, folati o altro); 53 pazienti (64,6%) sono stati sottoposti a ossigenoterapia, 3 (3,6%) a nutrizione parenterale totale, uno (1,2%) a nutrizione enterale con sondino nasogastrico e uno (1,2%) a emotrasfusione. Per 17 pazienti (20,7%) si è fatto ricorso all’impiego di dispositivi medici; in particolare sono stati posizionati 9 cateteri venosi centrali (10,9%), 7 sondini nasogastrici (8,5%) e un drenaggio toracico (1,2%) (Figura 3).

Trattamenti e dispositivi applicati nelle ultime 48 ore di vita

Nessun paziente è stato sottoposto a manovre rianimatorie al momento del decesso.
Dal punto di vista diagnostico, le procedure richieste nelle ultime 48 ore sono riportate nella Tabella 2.

Indagini diagnostiche attuate nelle ultime 48 ore di vita dei pazienti.

Prelievi per esami ematochimici sono stati eseguiti in 48 pazienti (58,5%), stick glicemici in 31 (37,8%), elettrocardiogrammi in 12 (14,6%), visite specialistiche in 12 (14,6%), indagini radiologiche in 6 (7,3%), toracentesi e/o paracentesi in 3 (3,7%); 3 pazienti (3,7%) sono stati sottoposti ad altre procedure invasive (2 prelievi bioptici e una resezione endoscopica di papilla duodenale). Sono state richieste 7 consulenze dello specialista in terapia antalgica, pari all’8,5% dei pazienti.
Per quanto riguarda le procedure infermieristiche, per tutti i pazienti sono stati attuati di routine i protocolli di igiene, di mobilizzazione e di prevenzione e cura delle lesioni da decubito; solamente in 9 casi (10,9%) è documentata la cura del cavo orale.
Infine, per quanto riguarda gli aspetti comunicativi, in 36 casi (43,9%) il diario medico e infermieristico riporta note che attestano le informazioni fornite ai familiari circa la gravità della situazione clinica e l’imminenza della morte; non risulta invece documentata la discussione con il paziente e/o con la famiglia in merito alla prospettiva di vita, al piano di cura, alle volontà espresse dal paziente rispetto alla rianimazione o ai bisogni psicologici dei familiari durante l’assistenza al malato e dopo il decesso.

DISCUSSIONE
I risultati del nostro studio indicano come, durante le ultime ore della loro vita, tutti i pazienti neoplastici terminali considerati siano stati sottoposti, invariabilmente, a un qualche tipo di intervento diagnostico-terapeutico. Tutti hanno comunque ricevuto terapie di vario genere (antibiotica, cardiocinetica, nutrizionale enterale o parenterale) in continuità con i giorni precedenti o ex novo; la maggior parte è stata sottoposta a esami diagnostici strumentali, e un numero non trascurabile al posizionamento di dispositivi sanitari e/o a visite specialistiche. Anche per quanto riguarda gli interventi prettamente infermieristici, i pazienti hanno continuato a ricevere in modo routinario le procedure standardizzate relative alla mobilizzazione, alla gestione delle lesioni da decubito e all’igiene completa, mentre la cura del cavo orale è riportata solo in pochi casi.
L’esasperato orientamento alle prestazioni si scontra con il mancato controllo dei sintomi presenti nelle ultime ore di vita dei pazienti. Particolarmente insoddisfacente nella nostra casistica è il dato riguardante il controllo del dolore, ottenuto nella minoranza dei casi, nonostante la somministrazione di analgesici risulti effettuata in oltre l’80% dei pazienti. Questo può essere la conseguenza di una mancata misurazione metodica del sintomo, di un trattamento basato su interventi al bisogno, piuttosto che sulla somministrazione pianificata di analgesici, e dello scarso ricorso allo specialista in terapia antalgica.
Questi dati confermano quanto emerge dalla letteratura internazionale. Lo studio SUPPORT (1995), che si riferisce alla realtà nordamericana, rileva che meno della metà dei pazienti terminali riceve una terapia del dolore adeguata, ed enfatizza come questo tipo di pazienti e i loro familiari desiderino una migliore qualità di vita piuttosto che un suo prolungamento. In uno studio riguardante 40 ospedali italiani del centro-nord, Toscani e collaboratori (2005), attraverso la testimonianza di medici e infermieri e l’analisi delle cartelle cliniche di 370 pazienti deceduti a causa di diverse patologie, mostrano come, nonostante nella maggioranza dei casi il decesso fosse ampiamente “previsto”, nelle ultime ore di vita si sia continuato a somministrare liquidi e nutrizione parenterale, ad attuare trattamenti impattanti (come la chemioterapia e la dialisi), a posizionare dispositivi sanitari e a ricorrere a indagini diagnostiche, in pazienti che in più del 40% dei casi presentavano disturbi severi quali dolore e dispnea.
Il controllo del dolore e dei sintomi in generale, oltre alla vicinanza dei propri cari, rappresenta uno dei temi principali nelle cure di fine vita sia dal punto di vista del paziente sia per i suoi familiari; infatti, “How people die remains in the memories of those who live on” – come le persone muoiono resta nei ricordi di chi vive (Meyer, 2000). Tale assunto riconosce la famiglia come unità di cura e sposta l’asse della valutazione della qualità dell’assistenza dalle prestazioni al controllo dei sintomi, e in particolare del dolore, che rappresentano il vero carico di sofferenza vissuto dai pazienti e dai loro familiari (Singer et al., 1999).
Un altro aspetto rilevante riguarda la comunicazione con il paziente e la famiglia, che nel nostro studio risulta scarsamente documentata e ridotta a colloqui sporadici e non strutturati con i familiari circa la gravità clinica contingente. Si tratta di momenti comunicativi che si collocano per lo più in prossimità del decesso, quando lo stato di coscienza della maggior parte dei pazienti non permette loro di comprendere e di esprimersi. Risulta quindi evidente il vuoto nel rapporto comunicativo/relazionale, che dovrebbe invece instaurarsi fin dall’arrivo del paziente in reparto e che la durata media del ricovero può garantire.
In questi casi la comunicazione non dovrebbe essere finalizzata unicamente a informare il morente e la famiglia della gravità della malattia e della prossimità del decesso; dovrebbe soprattutto permettere di maturare la consapevolezza della situazione e dare modo al paziente di decidere come affrontare la sua ultima fase di vita. La mancata chiarezza comunicativa rende difficile mettere in atto gli interventi più idonei ad accompagnare il malato, mentre si corre il rischio di privilegiare gli aspetti tecnici e le prestazioni con indagini, consulenze e procedure invasive che possono creare false aspettative e confusione, specialmente nei familiari, e che provocano disagio e sofferenza ai pazienti (Bordin et al., 2010).
Nonostante la professione infermieristica abbia da sempre dimostrato uno specifico orientamento verso gli aspetti della cura del paziente in tutte le fasi della vita, anche gli interventi infermieristici, nel “turbinio” delle attività di un reparto internistico, finiscono con l’essere spesso distolti dalla cura della persona e dai reali bisogni del morente e della sua famiglia. Passano così in secondo piano le azioni rivolte a garantire comfort, sostegno psicologico e supporto spirituale; i familiari non sono messi in condizione di partecipare all’assistenza del proprio caro come desiderano (Murphy, Ellershaw, 2008), mentre non vengono considerate le loro necessità dopo il decesso. Lo studio ISDOC (Beccaro et al., 2006) rileva che solo il 18% dei familiari dichiara di essere riuscito a parlare con un operatore sanitario dopo la morte del proprio caro, come se gli operatori considerassero concluso il proprio mandato con il decesso.
Nel loro insieme, questi dati confermano come esista una certa inerzia medica e infermieristica nel perseverare a trattare i malati neoplastici, prescindendo dall’eventualità della morte imminente, ed esimendosi dal tentare di identificare tale imminenza. In altri termini, si tende a mantenere un’alta standardizzazione delle cure in un contesto assistenziale in cui, invece, sarebbe necessario rimodulare gli interventi sulla base di una pianificazione personalizzata, con l’esplicitazione di obiettivi che mirino soprattutto a garantire comfort e qualità di vita (Grubich et al., 2008). Infatti, nel paziente morente anche le procedure che vengono definite “di routine” nei setting per acuti – come l’esecuzione di prelievi di sangue, l’incannulazione venosa, la prescrizione di indagini radiologiche, il posizionamento di sondini nasogastrici, la mobilizzazione o le medicazioni per le lesioni da decubito – non fanno altro che aggiungere, piuttosto che togliere sofferenza (Middlewood et al., 2001). Un’analisi della reale appropriatezza delle cure esulava dallo scopo del nostro studio; d’altra parte, è indiscutibile che il ricorso a terapie o procedure invasive nell’imminenza del decesso configuri un oggettivo, quantunque non intenzionale, accanimento, e rispecchi l’incapacità generale di adattare le scelte cliniche al contesto dei bisogni della persona giunta al termine della vita.

CONCLUSIONI
Nonostante i limiti dello studio, basato sull’analisi retrospettiva della documentazione clinica e quindi sulla qualità e quantità delle informazioni riportate in cartella, quanto emerso sottolinea l’urgenza di rivedere le pratiche assistenziali erogate al paziente morente ricoverato in un reparto di Medicina Interna.
Visto l’elevato numero di pazienti terminali che ancora continuano a morire in ospedale, diventa prioritario prevedere anche nei reparti per acuti l’implementazione di modelli tipici delle cure palliative. Le implicazioni per la pratica possono essere rappresentate dalla necessità di:

  • attuare interventi formativi affinché medici e infermieri, culturalmente orientati alla guarigione e al supporto vitale, e quindi alla messa in atto di procedure mirate al prolungamento della vita, acquisiscano competenza nel riconoscere e gestire i bisogni del paziente morente;
  • definire chiaramente gli obiettivi di cura per il paziente terminale ricoverato in ospedale, con forte accento sul controllo dei sintomi, sulla palliazione, sul comfort, sugli aspetti comunicativi e sul sostegno psicologico;
  • predisporre un apposito percorso assistenziale con specifica documentazione clinica, che espliciti gli obiettivi e guidi il personale sanitario nel loro raggiungimento.

     

 

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Bibliografia

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