La “tossicità burocratica” nei luoghi di cura


Più burocratica è un’organizzazione, più grande è la misura in cui il lavoro inutile tende a rimpiazzare il lavoro utile“. (Milton e Rose Friedman)
Due economisti, marito e moglie, lui vincitore del Nobel per l’economia nel 1976. Un’ espressione, la loro, che fa molto riflettere. Detta in un tempo che non era quello di oggi in cui ancor più che in passato quando si pensa alla burocrazia le associazioni spontanee sono lungaggini, ritardi, complicazioni, linguaggio incomprensibile, incapacità di adattamento.
Non ultima, la sensazione che la burocrazia tenda a regolamentare anche la vita quotidiana.
Un’accezione dunque di fatto negativa perché in molte situazioni la burocrazia eccede la necessaria soglia regolativa che ogni organizzazione deve avere e che la rende buona, utile e praticabile.
E proprio nella sua accezione negativa, talvolta, la burocrazia è pervasiva anche nei luoghi di cura.
Indubbiamente le regole servono ma devono però accompagnare utilmente l’accesso alle cure e non sommergere chi alle cure deve accedere.
Ne abbiamo parlato con Cinzia Botter Direttore dei processi organizzativi e assistenziali Gruppo Habilita Hospital and Research SpA Bergamo, Pio Lattarulo Infermiere Dirigente delle Professioni Sanitarie ASL Taranto, Anna Giorgetti Giudice del Tribunale di Varese.

Dr.ssa Botter la burocrazia sta ai pazienti e ai caregiver come…
Tutti, prima o poi, ci siamo sentiti “come Atlante”, e abbiamo riverberato le energie negative, i nostri conflitti mentali, le paure e le ansie in concrete manifestazioni di tipo organico e funzionale. Abbiamo trasferito l’energia negativa sul nostro fisico appesantendone la situazione organica.
Quando si parla di burocrazia e soprattutto di burocrazia legata all’accesso alle cure e alla sanità in termini più generali, tutti noi cittadini avvertiamo un brivido e un senso di impotenza. Ognuno può dare il suo significato e narrare la sua storia, ma il denominatore comune rimane sempre la lungaggine nell’avere risposte e l’impotenza nel non poter accelerare la pratica intrapresa.
Questo sistema schiacciante spesso ingabbia le persone all’accesso dei percorsi di cura, le ingabbia nel proseguo dei trattamenti diagnostico terapeutici e cosa più drammatica avvelena il caregiver nell’ultimo tratto di vita del proprio familiare. Una burocrazia che provoca tanto dolore prima acuto poi cronico sia nella paziente che nel caregiver. Ecco la burocrazia viene vista e spesso vissuta come un potere assoluto che non permette nessuna deviazione alle regole rigide e ferree definite per ogni singolo processo al fine di raggiungere un obiettivo e/o un risultato.
Quanta fatica nel momento in cui una persona anziana, e mi soffermo volutamente su “persona anziana”, comincia il lungo e tortuoso percorso nella rete assistenziale per ottenere diagnosi, cure, presidi e assistenza. L’Italia è oramai risaputo che è il secondo paese al mondo con più popolazione anziana, dopo il Giappone. Magra consolazione. Si magra consolazione quando alla burocrazia si aggiunge l’informatizzazione, la digitalizzazione. Banalmente tutto ciò che riguarda la salute è a portata di clik. Basta un clik per prenotare, disdire, visionare referti e il proprio fascicolo sanitario. Ma sta proprio qui, su questo clik, il grosso problema che vive l’anziano e spesso il suo caregiver esso stesso anziano. La difficoltà dell’immediatezza, dell’utilizzo e della fruibilità di un sistema tanto snello quanto macchinoso e gravoso per chi vive con idiosincrasia tutto ciò che è a portata di “App”.
Ebbene quando una persona incappa nella malattia e in special modo nelle forme croniche di malattia, può sviluppare a volte una complessa condizione, prodotta da sofferenze di diversa origine che tuttavia coesistono e si rafforzano reciprocamente. Questa condizione viene definita “dolore totale” e comprende il dolore fisico, psichico, sociale, burocratico e spirituale.
Il dolore totale può trovare risposte, per alcuni suoi aspetti, a cure farmacologiche o a trattamenti fisici, a supporto psicologico, affettivo e/o spirituale. Ma due specifiche condizioni che imbrigliano la persona nel dolore totale, non sempre trovano accoglienza e risposta, e queste sono il “dolore sociale” e il “dolore burocratico”.
Può risultare difficile scindere ciò che rappresenta il dolore sociale da quello burocratico. Il dolore sociale trova la sua massima manifestazione nella malattia grave e durevole nel tempo come possono essere i tumori, che alterano e modificano la condizione sociale che la persona riveste con inquietudini familiari e professionali, sino al punto che la persona avverte e vive la perdita del suo posizionamento sociale che la fa sentire viva e utile. Viene quindi a sgretolarsi anche ciò che rappresenta il benessere non solo fisico ma anche economico. La situazione diventa poi inesorabilmente insostenibile per il paziente e la famiglia/caregiver, quando a questa situazione di estremo dolore si abbina il dolore burocratico, che nei pazienti oncologici arriva già al momento della diagnosi. Il paziente con la sua famiglia si trova all’improvviso nel vortice dell’avvitamento burocratico fatto di interminabili code agli sportelli di prenotazione, a lunghe attese ai numeri verdi degli uffici prenotazioni. È catapultato in un ambiente ospedaliero e di servizi che lo devono accogliere, in cui le mille porte a fatica si aprono e una volta aperte lo rimandano ad altre porte e servizi. Attese interminabili per ricevere la data per una indagine diagnostica, una visita specialistica che possa “finalmente” definire il tuo futuro. Una volta fatta la diagnosi inizia il calvario per avviare le pratiche di invalidità, di accompagnamento, di richiesta e fornitura ausili e presidi.
Quello che la famiglia e la persona vivono è un forte stato di abbandono, di solitudine sanitaria e sociale che equivale ad una cocente sensazione di “poveretto che calvario sta attraversando”. La burocrazia diviene meno opprimente se il paziente possiede un’assicurazione o ha i soldi per curarsi privatamente utilizzando l’attività intramoenia ed extramoenia in libera professione dei medici e degli specialisti.
La peggiore “solitudine burocratica” è quella di chi non è aiutato, ma prima ancora di chi non è compreso di fronte alle incertezze, alle strade chiuse, alle fatiche dello spirito e della carne. Una società che si ispira alla giustizia è quella, come scrive il filosofo francese Edgar Morin, che esercita tanta intelligenza verso i caregiver e la persona che assiste. Questa intelligenza si deve comporre della capacità di offrire tecnologia, supporto organizzativo ed economico, ma anche tanto amore, che è, prima di tutto, comprensione e ammirazione per una vita trascorsa nella faticosa donazione di sé all’altro per poter offrire tutto ciò che è umanamente e socialmente di diritto.
L’essere umano non è e non deve essere solo la sua malattia, ma è e rappresenta la persona nelle sue mille sfaccettature. “Sembra che la natura sia in grado di darci solo malattie piuttosto brevi – la medicina ha inventato l’arte di prolungarle.” (Marcel Proust)
Mi permetto solo di aggiungere che anche la burocrazia ha inventato l’arte del prolungare non tanto la malattia ma la sofferenza che questa impone.

E per i professionisti che cosa significa?
Per i professionisti della salute può significare varie cose: attenersi diligentemente alle regole oppure scavalcarle, disarcionarle, abbatterle insieme ai muri che queste alzano. Ma può significare anche personalizzare la pratica, accelerare là dove è possibile e umanamente doveroso, perché ogni pratica sanitaria e assistenziale è di per sé degna della massima attenzione del sistema.
Ma la burocrazia per un professionista della salute significa anche diligentemente compilare, stilare, certificare, documentare, lasciare traccia in mille “scartoffie” che oramai sono il fulcro dell’attività di una cura rubata al tempo che inesorabilmente scivola via.
Vedete se da una parte il professionista della salute per attivare un percorso di cura nei confronti di un assistito deve prima visionare i documenti e verificare che tutto sia in ordine, che il nominativo e la patologia che lo contraddistingue siano inseriti in quel giusto portale aziendale, dall’altra una volta accertato tutto questo, inizia una lunga analisi e raccolta dati di chi è quella persona, cercando di intendere la sua storia. Il professionista si mette in ascolto, lo accoglie, lo rende partecipe di un percorso di cura, crea una alleanza, una condivisione.
Il professionista della salute ha bisogno di stare con il suo assistito, ha bisogno di impedirne l’abbandono fisico e “burocratico”. Questo però a volte è difficile e complicato da mettere in atto laddove specialmente le organizzazioni sono strettamente ingessate nei cardini della burocrazia.
Tale abbandono matura all’ombra della crescente spersonalizzazione del rapporto infermiere-assistito: rapporto che non può nascere ed esistere nell’ovvia stesura di una documentazione sanitaria, fosse anche la più irreprensibile e meticolosa, ma che si edifica attraverso la disponibilità a ricevere e a gradire la fiducia di cui il malato è sempre sincero contribuente nei confronti dell’operatore sanitario. In questa prospettiva, ognuno di noi ha come suo primo compito quello di inquadrare la propria professione nell’ambito di una precisa concezione del significato della vita. L’operatore sanitario non sempre è in grado di affrontare in maniera sanante la malattia; sempre, invece può avvicinarsi con cura al dolore, per capirlo e condividerlo.
L’assistito altro non chiede che essere visto e curato con il giusto tempo fatto di relazione e dialogo e momenti di silenzio.
La burocrazia che travolge l’operatore sanitario impedisce che questo avvenga con la soddisfazione della persona e dello stesso operatore.
Stiamo vivendo, ma è altrettanto vero che ce lo stiamo dicendo da tanto troppo tempo, una sanità che si allontana ferocemente dal cittadino, e mentre lo diciamo ci scandalizziamo e diciamo che così non va bene e allora arrivano gli slogan dei politici, l’indignazione dello stato. Ma poi si fanno i conti con le risorse economiche, finanziarie, umane e allora ci diciamo pure o meglio ci dicono che basta riorganizzare, rigenerare, incanalare le giuste risorse nei percorsi virtuosi in cui il cittadino riceverà gli adeguati responsi e la migliore presa in carico. Muri di scartoffie sono state issate tra noi operatori e la comunità, i cittadini. Moduli da compilare, autorizzazioni da richiedere, sempre più si tiene lo sguardo sulla scrivania e sempre meno sull’uomo che ricerca i nostri occhi sfuggenti.
La riflessione da fare è quindi che l’infermiere di famiglia e comunità, la sua implementazione massiccia sul territorio, la sua capacità di essere attore di connessione tra i servizi per la comunità, deve tradursi in realtà il prima possibile. L’infermiere di famiglia e comunità che non solo accompagna le persone nel dedalo degli uffici per ricevere una prescrizione di ausili/presidi a sostegno dell’assistenza e cura, ma lui stesso ne diventa il prescrittore, ne diventa parte integrante per accelerare e dimezzare le lentezze burocratiche. Ma quante vie crucis si potrebbero evitare? Le persone hanno bisogno di persone non solo di uffici.
Il professionista può morire di burocrazia? Si, insieme al suo assistito se non si interviene concretamente permettendo al professionista della salute di mettere in pratica una giusta e doverosa presa in carico fatta di tempo, di relazione e anche al bisogno di buone pratiche burocratiche.

Dr Lattarulo la burocrazia oggi è etica o è un etichetta?
Sono quello del letto 17, e strada facendo mi sono smarrito … non ho con me una busta con le briciole e rischio davvero di non essere in grado di tornare indietro. Tornare indietro? Ma non è mica possibile! E allora continuo a scendere e salire scalini provando a leggere il modello a255 ma, alla sesta riga del dodicesimo capoverso, mi perdo come in una vertigine di Escher. Mi rialzo, in fondo è soltanto il centesimo capogiro, e allora sì che giunge rapida come una folgore l’intuizione: sono finito nel Tempio della burocrazia. Mi giro, sfuggo, mi volto freneticamente per capire e mi vedo a doppio! E’ soltanto un immenso specchio che permette l’immediato rimbalzo di un quesito nella mia mente: sarò vestito adeguatamente?
Non saprei dire, neppure a posteriori, quali sensazioni provassi, mentre vagavo sconsolatamente alla ricerca di un’uscita, anche d’insicurezza, che mi portasse a respirare aria pulita, al di fuori di questo maestoso tempio, eretto su tonnellate di illeggibili carte, e nei cui meandri risuona l’eco di parole indecifrabili.
Già, ho letto da qualche parte che gli unici a essere convinti del fatto che la medicina sia una scienza esatta sono proprio i malati, quelle creature vaganti senza sosta e senza meta, tra la cima di speranza e quella di disperazione. Man mano che mi guardai meglio nell’immenso specchio, con ancora i vezzi dell’antico narcisismo per il quale vorrei rimirarmi in forma diversa, mi accorsi che il mio, di vestito, aveva una foggia decisamente strana, come fosse un pigiama. Ad un’analisi più approfondita, mi accorsi che le cose stavano proprio così e allora vuol dire che forse ero malato. E io, che mi ritenevo “sano”, o quantomeno lo ero nella visione cinica di George Bernard Shaw, per il quale “una persona sana è un malato che non è stato studiato completamente.
E’ possibile allora, che il mio pigiama abbia un’etica o un’etichetta? E l’etichetta, serve a contrassegnare marca, misura, taglia e composizione o è piccola etica che ne riduce il senso?
Riflettere sul s-Senso, apre mille porte in altrettante stanze diverse, per grandezza e fattezze. Nell’immenso salone del Tempo, posso addormentarmi su una chaise longue, e istantaneamente evocare il dolore delle prime estrazioni dentarie e delle vaccinazioni infantili, mai precedute da alcuna informazione in merito. Ed oggi, che da adulto in pigiama dovrei ricevere delle spiegazioni, sono rispettato in questo o lanciato nel dedalo della burocrazia?
Ah, ecco dimenticavo! Ho firmato un consenso, pensando che fosse con-senso e invece mi sono ritrovato tra le mani e per qualche istante, tanti fogli scritti fittamente, tant’è vero che per un attimo ho pensato di essere in banca o dall’assicuratore. Da questo punto di vista, nella Linea Verticale, come definita lucidamente dal compianto Mattia Torre, mi trovo a pensare che, non è che abbia proprio ben compreso a cosa devo essere sottoposto. Si, è vero, paura e malattia mi hanno fatto perdere in prontezza, ma non è che le informazioni ricevute , in fretta e furia, mi abbiano permesso di avere un quadro chiaro.
Vorrei, vorrei tanto poter dire a tutti, ma particolarmente ai professionisti sanitari, che la malattia ha una figlia dal nome un po’ balzano: si chiama incertezza. Quì, con la testa poggiata sul cuscino, la vedo sul muro di fronte a me, l’incertezza. Non ha una forma definita, ci puoi giocare un pò su, come si fa con le nuvole, immaginare un immenso cono gelato oppure un unicorno alato. Malattia e paura generano incertezza anche nei forti, nei certi, in quelli che si dicono pronti ad affrontare qualsiasi cosa … a parole.
Ecco perché, stanze di ospedale o case trasformate in tali, non possono essere progettate con la logica dei tecnici del Tempio della burocrazia. Le parole che accompagnano le azioni di voi professionisti, devono essere chiare, sincere, immediate, proprio come il contenuto delle nuvole dei fumetti. E la parola scritta, la carta, non può avere la guisa di un contratto, ma è proprio con-tratto, con il segno dell’identità che deve chiarire gli scopi e i limiti della medicina. Il tratto però è bene ricordarlo, dev’essere gentile, perché si sa, rimane impresso a fuoco sulla pelle, dona cicatrici, non sempre desiderate.

Dr.ssa Giorgetti la burocratizzazione che si percepisce nei luoghi di cura ha un fondamento giuridico e un’utilità?
Andare alle origini delle cose. E’ sempre un buon metodo per cercare di capire e, se del caso, correggere, implementare, sviluppare. Migliorare, dunque.
Con il termine burocrazia (dal francese bureau = ufficio e dal greco, dominare) si intende, comunemente, l’insieme degli uffici amministrativi dello Stato.
Sebbene possano ritrovarsi elementi significativi di amministrazione burocratica all’interno di alcune civiltà di epoca remota (ad esempio, l’Impero romano e bizantino o l’Impero cinese), la burocrazia caratterizza il processo di formazione dello Stato nel quale il sovrano, per esercitare il proprio potere, aveva bisogno di disporre di un ceto di funzionari alle proprie dirette dipendenze, fedeli interpreti della volontà del sovrano stesso, della quale curavano l’attuazione. In altre parole, la burocrazia nasce dalla logica dell’organizzazione sociale su larga scala e dall’esigenza di dominio/controllo di uno o di pochi sui molti.
Il termine ‘burocrazia’ fu coniato intorno alla metà del diciottesimo secolo da un economista francese (1) per censurare il crescente potere dei funzionari pubblici nella vita politica e sociale che costituiva, a tratti, una vera e propria forma di ‘governo dei funzionari.
Sin dalla sua origine, dunque, il termine è stato usato per lo più nel significato dispregiativo quale eccesso di formalismo e cieca osservanza dei regolamenti ma non deve sottacersi che la nozione di burocrazia è diventata, nel corso del tempo, architrave della vita politica, sociale ed economica degli Stati moderni.
Non a caso, nel Novecento, il sociologo e filosofo Max Weber dedicherà ampi studi alla burocrazia, elaborando una delle teorie più autorevoli in materia.
Il processo di razionalizzazione delle attività, tratto essenziale e caratterizzante le società dell’epoca moderna, ha segnato il passaggio, in ogni aspetto della vita sociale, da modi spontanei rimessi alla scelta dell’individuo a procedure sistematiche, precise e calcolate razionalmente: la rigorosa divisione del lavoro, il sapere e le competenze tecniche, le gerarchie regolate sul merito e da precisi meccanismi di carriera e, non certo ultimo, il complesso di norme scritte che tendono a vincolare colui che opera a condotte tendenzialmente impersonali e formalistiche.
Ciò rende facile comprendere che la burocrazia sia una forma particolarmente pervasiva del processo di razionalizzazione della vita tra consociati e, per certi versi, possibile fonte di criticità, giacché comporta la gestione non tanto di oggetti, macchine o procedure, quanto piuttosto di esseri umani, i quali devono essere organizzati per conseguire finalità specifiche (2).
Il sistema delle regole scritte per il funzionamento e per assicurare l’uniformità dello svolgimento dei compiti a prescindere dalla identità fisica dell’operatore è il caposaldo dell’impersonalità del funzionario che deve svolgere quanto a lui demandato in modo imparziale e distaccato.
E’ evidente che l’importanza dell’individuo destinatario dell’atto diminuisce perché ridotto semplicemente a un ‘caso di lavoro’.
Proprio il sistema di regole scritte patisce non di rado una sostanziale degenerazione in percorsi ad ostacoli dovendosi il singolo utente districare in lunghi e complicati percorsi per osservare formalità e procedure, spesso avvertite come eccessive e inutili, contribuendo a costruire l’idea di una burocrazia lenta, mortificante, fonte di sterili lungaggini.
L’osservanza esagerata e inflessibile dei regolamenti, sempre più capziosi nelle forme e non nella sostanza si traduce, in ultima analisi, nella mancata risposta tempestiva, o in ogni caso tardiva, e utile al fruitore del servizio.
La burocrazia riguarda anche la sanità.
La salute – inutile, dirlo – è un bene di rango costituzionale, dunque di massima importanza.
La Costituzione della Repubblica dedica un intero articolo alla salute, l’art. 32, che viene, a buon titolo, definito ‘fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività’. Non, dunque, ‘solo’ un diritto del singolo ma un bene dell’intera comunità senza esclusione di alcuno, tanto da affermarsi, in modo nitido, che le cure devono essere garantite gratuitamente anche agli indigenti.
La previsione costituzionale non afferma affatto -come spesso e forse solo per ragioni di brevità si indica – il diritto alla salute quanto, piuttosto, il diritto alla buona cura. Ciò significa che il personale sanitario deve concentrare il tuo massimo impegno alla cura del paziente; occorre, in altre parole, (ri)affermare il primato dell’individuo che, di volta in volta, è protagonista della cura rispetto agli oneri burocratici che sovrintendono alla ‘filiera sanitaria’, sia dal punto di vista dell’offerta della prestazione sanitaria che da quello del fruitore del servizio.
La compilazione di modulistiche interminabili, la richiesta di determinate prestazioni mediante percorsi ‘on-line’, spesso mutevoli nel tempo, non sempre di immediata intuitività avuto riguardo, soprattutto, all’età media dell’utente, la gestione secondo rigidi procedure informatiche della distribuzione delle prestazioni senza che possa essere stabilito un preventivo contatto con un soggetto abilitato a fornire analitiche informazioni, verificando le possibili specificità del caso o, più semplicemente, la mancata conoscenza di informazioni effettivamente indispensabili per l’accesso alla prestazione portano, progressivamente, a determinare una sfiducia diffusa che, ancorché, quasi sempre, del tutto ingiustificata, perché precipitato di informazioni carenti o addirittura errate, allontana il cittadino dallo Stato, dal sistema sanitario nel caso di specie (2).
Eguale frustrazione deve registrarsi sul versante dell’offerta: gli obblighi di ‘annotazione’ in interminabili documenti sanitari, la compilazione di certificazioni minuziose e ripetitive per consentire al paziente di fruire dei servizi sanitari cui ha diritto, la sottoposizione ad un onere di documentazione sovrabbondante rispetto alle reali necessità, la disponibilità di strumenti informatici che incontrano non di rado ‘malfunzionamenti’ di tipo hardware o software a causa di imprevedibili problematiche legate ai sistemi operativi con, parallelamente, farraginosi processi di interazione con il cd. helpdesk determina un accumulo di stress ( con possibile diretta conseguenza sulla qualità della prestazione sanitaria) ed una progressiva disaffezione con un’ emorragia di personale sanitario dalle aziende sanitarie pubbliche verso altro genere di struttura. Fenomeno che, tra le principali conseguenze, ha la radicalizzazione delle condizioni di gestione della domanda sanitaria in relazione alla relativa offerta e il non imprevedibile scadimento della prestazione assistenziale.
E’ tempo, allora, di una domanda tanto semplice da sembrare banale: relegare chi cura al ruolo di ‘burocrate della salute’ o ridare centralità all’autonomia intellettuale di chi cura, considerando la prestazione sanitaria a tutto tondo, ivi compresa l’assistenza a pazienti lungodegenti, cronici, bisognevoli di costanti interventi a supporto, talora anche urgenti o, comunque, di presidi sanitari in senso lato.
Proprio il rapporto tra aspettative professionali, carichi di lavoro e autonomia intellettuale e professionale, scevra da prassi ‘difensive’ a fronte di possibili eventi avversi da parte del personale sanitario nella sua più ampia accezione deve costituire l’ambito in cui la burocrazia deve trovare la forza di liberarsi dell’aura negativa che da sempre la circonda e trasformarsi in prova di buona organizzazione con soddisfazione dell’utente e, parallelamente, di benessere organizzativo per il personale operante.
Se nel suo nucleo primario la burocrazia ha significato la razionalizzazione della vita sociale, occorre prendere atto che la burocratizzazione è irreversibile e, in un certo senso, è corretto che sia tale, a condizione che venga intesa nell’ accezione essenziale di tecnica di organizzazione secondo criteri di efficienza dell’attività umana e benessere organizzativo dei suoi protagonisti.
Se tale assunto è vero, ciò significa, innanzitutto, conoscenza del lavoro e di chi quel lavoro presta. Il passo che deve essere compiuto è, allora, di natura culturale azzerando, dove sia necessario, certo modo di agire per costruire modelli nuovi pensati avendo la persona quale centro necessario e infungibile: senza benessere della persona (dunque di tutti i protagonisti del settore che si prende in esame), ogni modello è destinato al naufragio.
Del resto, la nostra Costituzione – che mantiene a tutt’oggi inalterato il suo inestimabile valore – è una carta permeata da una visione definita ‘uomo-centrica’ perché è della persona, in ogni sua manifestazione, che si occupa.
I buoni risultati, nella sanità, in termini di effettiva presa in carico del paziente quale modalità diffusa di assistenza non possono prescindere dalla motivazione degli operatori sanitari (che significa rendersi conto della struttura complessa della sanità, persone, valori sociali, tecnologie, obiettivi), dalla chiarezza degli obiettivi, dal management qualificato e, non certo ultimo, il coordinamento tra operatori, risorse, metodi, strumenti, protocolli, linee guida anche di informatica (omogenee nel Paese).
A questo proposito non sono più rinviabili ulteriori investimenti nella sanità digitale per evitare la burocrazia digitale a danno di medici e infermieri anche, per esempio, garantendo partner tecnologici esperti per evitare che l’ottemperanza alle normative determini rallentamenti intollerabili della produttività che si traduce in mancata assistenza. Deve, insomma, virarsi verso il Digitale con la ‘d’ maiuscola, l’unico in grado di apportare vantaggi organizzativi, procedurali e persino economici per eliminare attività manuali sovrabbondanti.
Tali trasformazioni, inevitabili per far fronte alla velocità di questa nostra società, non possono essere una questione rimessa ai protagonisti sanitari i quali devono usare il loro tempo di prestazione lavorativa all’assistenza dell’individuo e alla loro dinamica formazione professionale.
È compito precipuo della tecnica di organizzazione farsi carico di coniugare presa in carico del paziente e cura dello stesso con l’apporto ‘sostanziale’ degli operatori sanitari che individueranno gli obiettivi di cura e rimetteranno ai burocrati la predisposizione di modelli, agili, duttili alle esigenze sempre in divenire, omogenei e facilmente attuabili.
Solo così la burocrazia potrà cogliere l’occasione di scrollarsi di dosso l’accezione negativa che l’accompagna da troppo tempo per diventare strumento d’elezione per il raggiungimento del massimo benessere dell’Uomo.
La burocrazia, concludendo, non deve essere demonizzata tout court spazzando via, in un’ottica miope, il valore fondamentale che precipuamente la connota, l’organizzazione, senza la quale non è immaginabile una società davvero moderna.
Si tratta, allora, di aggiornarla alla data in cui viviamo riempiendo le procedure e i regolamenti con la sostanza che l’evoluzione del sapere di tutti i vari attori ci ha fatto conoscere.
Una sfida impossibile? Forse sì, ma occorre provarci e convintamente.
Alla fine, concluderemo che ne sarà valsa la pena.

Ritrovare un giusto equilibrio tra il necessario e l’eccessivo si può a patto che a muovere organizzazione e professionisti verso il recupero “dell’equilibrio burocratico” perduto sia la consapevolezza a tutti i livelli che la centralità deve essere della persona assistita (MV).

Marina Vanzetta
2 settembre 2022

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Note

(1) Vincent de Gournay, 1712 – 1759).
(2) Ciò che Max Weber indicava come burocratizzazione universale; lo sviluppo della burocrazia riguardava, infatti, non soltanto l’amministrazione dello Stato ma tutte le forme pubbliche o private di organizzazione amministrativa (dall’azienda al partito politico).
(3) Secondo un’indagine condotta dal Ministero per la Pubblica Amministrazione qualche anno orsono, tra le procedure burocratiche meno tollerate dai cittadini, quelle relative alle prestazioni sanitarie costituiscono la terza area critica per “complicazioni burocratiche”, seguita, al quarto posto, dalle procedure per i diversamente abili, contro le quali si segnalano soprattutto la ripetitività degli adempimenti, particolarmente onerosi, richiesti per il riconoscimento dell’invalidità, per il contrassegno per l’auto, per le agevolazioni fiscali, etc.