Cure e gesti che curano oggi


Troppo spesso si sottovaluta la potenza di un tocco, un sorriso, una parola gentile, un orecchio in ascolto, un complimento sincero, o il più piccolo atto di cura, che hanno il potenziale per trasformare una vita. (Leo Buscaglia)
Oggi, in questo tempo che ha cambiato il tempo, le relazioni, aumentato le distanze quale è l’essenza della cura, il ruolo della relazione e come cura il gesto? Ne abbiamo parlato cono Pio Lattarulo Infermiere Dirigente delle Professioni Sanitarie ASL Taranto, esperto in bioetica.

Pio qual è oggi l’essenza ontologica della cura?
È sempre opera improba definire l’essenza ontologica della cura, se si pensa alle notevoli difficoltà che vengono dall’interpretazione tutt’altro che univoca di significati e significanti della cura.
Credo si possa concordare soltanto con la sua nascita, molto prossima all’avvento dell’uomo, ed ai suoi scopi: innegabilmente l’aiuto, la vicinanza, da cui poi deriva l’assistenza.
Il termine ontologia mi conduce immediatamente verso l’homo viator, che muta pelle in continuazione, anche quando gli eventi ne minano l’esistenza.
In questo tempo, non si può che compiere una riflessione sulla stranezza, sull’espropriazione. L’infezione da Sars-Cov 2 che da un anno e mezzo a questa parte ci ha costretti a ri-definire il nostro tempo, ha di fatto creato un’espropriazione. Ho incontrato Nino, un amico di vecchia data che vive nel paese in cui ormai vivo da tempo immemore e che ha dovuto per un bel po’ essere ospite di una rianimazione Covid.
Nino è un omone. Mi ha detto: “Guarda, sono entrato in ambulanza con le mie gambe, non saturavo neanche male. Poi, non ricordo più nulla, so che ho rischiato tanto”. Mentre parlo con lui osservo la cicatrice della tracheo, e penso ai moltissimi Nino e Nine che hanno terminato la loro corsa di vita in un sacco grigio, senza vedere/essere mai più visti dalle persone care.
Ecco cos’è l’espropriazione, della mente e del corpo che questa diabolica malattia ha generato. E allora mi chiedo, che tipo di uomo è necessario per essere vicino in questa situazione, per ad-sistere? Esperita la considerazione sul peso notevole che un uomo/donna che hanno l’opportunità di essere vicini, con il loro “stare” in un luogo di sofferenza, è indispensabile definire il “come”.
L’incontro con l’altro da me, particolarmente in un momento in cui l’intera umanità è avvolta in una nube d’incertezza ancor più profonda, è opportunità per ri-leggere dentro di sé, per riavvolgere i nastri della persona e del professionista.
Se quindi ho sempre anteposto il deon, il dovere, al termine ontologia ed ho pensato al mio agire come obbligo, l’occasione sarà propizia per identificarmi come agente attivo, forte delle virtù aristoteliche e di una riflessione etica più profonda, maggiormente vicino ad una logica di accompagnamento molto più difficile che nel passato.
Di dedalo in vicolo, grazie alla concettualizzazione assistenziale, al pensiero critico, alla riflessione fondata sull’esperienza, posso avvicinarmi alla persona assistita, dimostrando che gli infermieri non abbandonano mai, a nessuna condizione.

Relazione e cura: un binomio o un’associazione imprescindibile?
Più che a un’associazione imprescindibile fra relazione e cura, mi piace pensare a un assoluto binomio, molto meno facile da sciogliere di un’associazione. La prima finestra che si apre nel mio panorama mentale, rispetto al termine binomio, è legata al battesimo delle nostre figlie. Abbiamo voluto che rispondessero al termine effatà, e iniziassero a vedere e sentire, con due nomi, per varie ragioni inscindibili fra loro. Questo ragionamento vale anche per relazione e cura: non esiste una senza l’altra.
Nel tempo che siamo chiamati a vivere, è emersa una nuova forma di relazione di cura, con delle differenze sostanziali. Se lo sguardo è una scelta, pensate alla difficoltà di poter lasciare intendere l’atteggiamento del nostro viso, per via dell’uniformità dettata dal dover vivere e l’esprimerci attraverso una mascherina.
La pandemia ha imposto una rivisitazione profonda delle competenze possedute, non a caso miriadi di medici e infermieri, non più o mai stati avvezzi al trattamento delle polmoniti e delle cure intensive in genere, nell’arco di poco tempo hanno dovuto re-ingegnierizzare le loro competenze, riprendendo letteralmente a studiare in una frenetica corsa contro il tempo.
E le non technical skill? E la relazione di cura? Nel nostro Codice, versione 2019, abbiamo scritto a chiare lettere, che il tempo di relazione è tempo di cura. E quando il tempo non c’è?.
L’over booking di persone assistite in gravi condizioni ha generato il notorio squilibro tra risorse disponibili e domanda di cura e assistenza. Medici, infermieri, OSS e altri professionisti sanitari che hanno avuto punti di contatto con questa realtà hanno dovuto fare tesoro delle lacrime che virtualmente si sono mischiate tra curati e curanti.
Questi ultimi hanno scoperto che, mentre i produttori di strumenti della standardizzazione hanno, anche in queste circostanze, continuato indefessamente a studiare scale di valutazione e validare parametri, neppure in questo caso è venuta fuori una scala di misurazione di quantità, forma e peso delle lacrime che, pur cadendo al suolo, continuano a rimbombare nelle nostre menti.
Dai racconti, nel tempo che verrà, tireremo fuori nuove modalità di essere in relazione, di vivere anche temibili fasi di finitudine, di dare un senso a quell’hora che, in questo sconvolgimento esistenziale, si è fatta sempre più incerta.
Tra le prime conclusioni che è possibile trarre, vi è la ricomparsa dell’antico sentimento della compassione. Tutti noi, a qualsiasi livello impegnati ne abbiamo fatto ottimo uso.

Come cura il gesto in questo tempo?
E’ bene evidenziare, in prima battuta, l’esistenza di un inciso sulla pietra: il gesto è sempre, in ogni caso, fortemente connaturato alla cura. Il gesto è in sé cura in quanto, come afferma Manzoni, luogo di senso, sede della dignità per chi lo effettua e per chi lo riceve.
Il gesto è una scelta ed è per tale ragione che va dosato con cura e utilizzato appropriatamente. Scelgo di compierlo quando posso accarezzare, aiutare, rammentando che è sempre bi-direzionale. Non fosse altro che di fatto, è impossibile toccare senza essere toccati. Scelgo di non compierlo quando sarebbe frutto della rabbia e quindi impensabile in qualsiasi contesto.
Il punto sta nel ricordare che è sempre la stessa mano a compiere tutte queste operazioni e pertanto quando opportuno, è luogo di senso nell’edificazione del singolo individuo ed è luogo di senso nell’affermazione e continua costruzione di uno statuto epistemologico e disciplinare.
Attraverso i nostri gesti, siamo osservati e valutati da un collega, da altro professionista, dalle persone assistite, dai loro familiari, dai cittadini. E’ l’unica modalità che abbiamo per essere in concreta relazione e perciò è indispensabile giocare al meglio questa partita.
Il gesto rasserena, rassicura, attrae, ma può anche respingere. È il segno dell’acquisizione e dell’esercizio delle competenze relazionali.
È ben presente nei miei pensieri questo assunto: “Un gesto è come una porta attraverso cui passano le emozioni , le sensazioni autentiche che si percepiscono nell’interazione con l’altro” (Sappa, 2021).
Se è vero che il gesto è una porta, come valutarne la consistenza e la reale opportunità che offre, in un momento di chiusura totale?
I nuovi contratti di lavoro, prevedono per professionisti e operatori i tempi di vestizione e svestizione. Al di là dell’aspetto giuridico–economico, questa dizione mi riporta ad una visione rituale.
Nel rito tragico dell’infinita Quaresima che viviamo, il gesto dell’indossare la tuta bianca e tutti i dispositivi, ha rappresentato per i curanti il peso della situazione, il contenitore di fatica e lacrime, e per i curati un’ancora di salvezza, nella spasmodica ricerca dell’agognato respiro.
I segni sono indelebili: i caschi sui volti dei malati, le mascherine sui nostri. I gesti sono difficili, mutuati da mille necessarie coperture, essenziali anche per l’ultimo tecnologico saluto, per coprire gli occhi ormai privi di vita o per aiutare a mantenere accesa la fiammella della speranza, negli occhi di quelli che sono riusciti a sopravvivere.
Gesti, incontri, presenza, sono tutti segnali di essenza ontologica della cura.

Marina Vanzetta
19 agosto 2021

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