“Morire bene” tra emergenza e normalità


Pandemia: 76.329 il numero dei decessi da febbraio 2020 al 5 gennaio 2021. Uomini, donne, coppie, anziani, meno anziani, giovani, “andati via” in solitudine: “morti non bene” si potrebbe dire, senza avere vicino i propri cari.
La maledizione del covid è proprio la negazione dell’esserci scrive Giusi Fasano nel suo articolo – Mio padre e gli anziani malati soli. Il dolore oltre i vetri – pubblicato sul Corriere della Sera lunedì 4 gennaio che riproduciamo di seguito accompagnato dalle considerazioni di Giuseppe Battarino, magistrato e Sandro Spinsanti, bioeticista.

Ho preso appunti ogni volta che ho parlato con un medico, spesso soltanto singole parole. Così quelle parole adesso sono intrappolate fra le altre annotate per lavoro, si confondono in mezzo alle frasi che appartengono ad altre vite. “Disidratazione”, “gravissimo”, “morire”, “tracciamento saltato”, “si lascia andare”…
Appunti di Covid in ordine sparso. Racconti di sentimenti che si sovrappongono, di dolore e di speranze che si assomigliano, a casa mia come in migliaia di altre famiglie di questo Paese e in ogni angolo del mondo.
Sono 52 giorni che mio padre è tenuto in ostaggio, prima dal virus e poi dalle sue conseguenze. Non è a casa sua, non ha i suoi punti di riferimento, non gli sono accanto le figlie, i nipoti, la donna della sua vita, mia madre. E non ha di fronte i boschi delle sue lunghe camminate quotidiane. All’improvviso quelle piccole dimenticanze dei suoi 81 anni sono diventate buchi nei quali la memoria a volte precipita.
Era un altro uomo, a inizio novembre. In tutte queste settimane il virus e l’isolamento hanno lavorato per ucciderlo. Non ci sono riusciti ma è che se lo avessero trascinato in un luogo lontanissimo dal quale non riesce a tornare.

Ha avuto una fame d’aria che gli ha tolto ogni energia non sa più camminare o stare semplicemente in piedi, mangiare è diventato un verbo senza significato, la depressione fa parte del pacchetto, come la nostalgia e i tubicini dell’ossigeno. Del suo carattere allegro sono rimaste briciole, mezzi sorrisi che si concede raramente.
È in buone mani, nel centro di riabilitazione Covid del San Raffaele di Milano. Potrebbe farcela. Eppure io lo penso come si pensa a un bambino perduto, solo spaventato.
La solitudine dei malati, raccontata così tante volte in questi mesi, bussa da 52 giorni alla porta di casa mia, la vedo nella faccia smarrita di un uomo che si è letteralmente spezzato la schiena per dare alla sua famiglia opportunità migliori di quelle che la vita ha dato a lui.

Sono fatti di solitudine i sorrisi sfoggiati nelle videochiamate, i baci mandati con la mano sulla bocca. E la sua, la nostra solitudine ha le stesse parole di quella che a me hanno raccontato i figli di altri genitori, padri e madri che a volte non ce l’hanno fatta.
Mi è tornato in mente il bel volto di un signore mai conosciuto che si chiamava Luciano, ucciso a marzo a 78 anni. “Non so darmi pace a pensarlo da solo in quel letto mentre se ne andava, mi aveva detto sua figlia Anna in lacrime. “Avrà avuto paura? Avrà sofferto? Avranno pianto i suoi bellissimi occhi azzurri?” Il dolore narrato e intercettato in quella telefonata aveva creato un legame e nel tempo siamo rimanste in contatto, io e Anna, senza esserci mai incontrate. Quando mio padre si è ammalato le ho scritto. “È un incubo senza fine” mi ha risposto lei. “Mi sembra di rivedere quell’inferno. Sii forte e non perdere la speranza”.

Un messaggio così ti fa accostare, spegnere il motore dell’auto e piangere in mezzo al nulla di una strada di campagna.
È una condizione inedita, credere, quella della solitudine dei malati negli ospedali. Il virus la coltiva assieme alle polmoniti. Nessuno era preparato, ammesso che si possa esserlo. Sei lì, davanti a una porta, e non puoi oltrepassarla anche se sai he mai come adesso dietro quella barriera ci sarebbe bisogno di te.

Avevo letto il tweet di un collega che si chiama Davide, pochi giorni dopo il ricovero di mio padre. Diceva che suo padre era in terapia intensiva a 234 passi da casa sua, “ma non posso vederlo”, scriveva, “non posso entrare, e 234 passi sono pochissimi ma sono infiniti se non puoi fare il 235esimo”.
Era così, esattamente, anche per me. E quell’ultimo passo vietato mi ha fatto fare cose stupide, per esempio camminare avanti e indietro per strada, di fronte al reparto, come essere lì e non a casa potesse cambiare qualcosa. Come se mio padre potesse sentire la via vicinanza assieme alla mia voce.
La sua – deformata dagli alti flussi dell’ossigeno – tante volte si è ridotta a una supplica biascicata: “Quando vieni”, Portami via, diglielo al dottore che posso venire con te”, ” Non ce la faccio più”. E allora fai promesse, gli ripeti che torni presto e lo porti a casa, che deve solo resistere ancora un pò. Poche parole, pi un saluto veloce, prima che si accorga di quanto sei triste.
Chiunque abbia avuto genitori anziani o nonni in gravi difficoltà psicofisiche lo sa e lo sapeva anche prima del Covid: non sono più genitori o nonni, diventano bambini. Da rassicurare, da guidare, da aiutare perché attraversino il guado. E allora davanti a quei vecchi-bambini conta molto – moltissimo – la famiglia che hanno cresciuto e il modo in cui l’hanno cresciuta. Conta esserci, ciascuno a proprio modo e con le proprie forze.
Ma la maledizione di questo virus consiste proprio in questo: nella negazione dell’esserci. E chissà, se arriva il bene che vogliamo, attraverso le nostre facce sorridenti e le parole affidate alle videochiamate…

Pensavo l’altro giorno a un’infermiera conosciuta per lavoro. Si chiama Marina. Ci vorrebbero 10 – 100 – 1000 Marine per far arrivare carezze e stringere le mani di malati soli o vecchi che siano. Di lei ho raccontato che avrebbe potuto andarsene e invece è rimasta fino alla fine accanto a una signora di 89 anni che stava morendo. L’ha accarezzata, le ha sistemato le ciocche dei capelli bianchi, le ha tenuto la mano. Amorevole fino all’ultimo. Qualche giorno dopo aver letto il racconto la figlia della signora ha voluto conoscerla. La cosa incredibile è che anche lei si chiama Marina che anche lei sistemava sempre le ciocche dei capelli.
L’infermiera, mai conosciuta di persona, è diventata un’amica in questi mesi. “Vuoi trasferire tuo padre a Milano? Sto io in ambulanza con lui. Ti organizzo il viaggio e te lo coccolo io” mi ha detto più volte.
Mai come in questo anno, o quasi, di pandemia ho incrociato persone illuminate dalla luce preziose dell’umanità, della dedizione e della delicatezza.
Nei giorni in cui mio padre camminava pericolosamente sul filo della vita (nell’ospedale di Cosenza) il pensiero, ossessivo, era sempre lo stesso: capirà che non lo abbiamo abbandonato? Ricorderà che non possiamo andare a trovarlo? L’unica era ripeterlo ogni volta: Papà non ci fanno entrare, non possiamo venire, ma siamo qui tutti ad aspettarti.
Così fino alla chiamata successiva, fino al prossimo gesto amorevole di Rosina, l’infermiera che rendeva possibile quel contatto.
Adesso lo scenario è cambiato e nella sua nuova residenza forzata le videochiamate sono quotidiane ed è addirittura possibile parlarsi separati da un vetro. Non sarà mai come una carezza ma è già molto.

Le conseguenze del virus sono ancora “importanti” come spiegano i medici. “Gli manca l’energia per far funzionare la fisiologia di base” mi ha detto uno di loro. Significa che deve reimbarcare a nutrirsi, soprattutto, dopo 46 giorni di cibo in vena e sei di sondino nasogastrico. Deve ricominciare a muoversi, a mettersi in piedi e a camminare, con ore di fisioterapia. Deve riprendere a respirare senza l’aiuto dell’ossigeno. Deve recuperare linfa vitale, come fanno i fiori quando gli dai l’acqua e rialzano la testa. Nessuno può giurare che ce la farà e in ogni caso ci vorrà tempo, pazienza e tenacia per attraversare questa lunga notte dei suoi 81 anni.
Penso a chi non ha avuto scampo ed è diventato un numero della contabilità quotidiana dei morti. Uomini e donne che non raramente avevano 20 anni di meno, se non più, degli 81 di mio padre. A volte se ne sono andate coppie. Mi torna in mente una storia che racconta tutta la potenza delle emozioni.

Lui si chiamava Romano, 81 anni, lei Emilia 77. Lei è morta poco dopo di lui e quando se n’è andata i loro figli hanno pubblicato sul Corriere un necrologio per conto del padre che non c’era più: “Ciao Emilia, amore mio. Abbiamo camminato insieme per una vita, uno di fianco all’altra. Adesso siamo in pace e insieme per sempre”.
Penso alle famiglie di chi non c’è più. Il giorno dei 993 morti Gian Luca, il figlio di una delle vittime, scriveva in un tweet: “Ieri mio padre è stato uno dei 993 abitanti del paesino che il Covid si è portato via”. Non ci avevo mai pensato, ogni giorno un paesino…
E poi penso a chi sottovaluta, nega, sminuisce. A chi “muoiono solo i vecchi” o “però avevano altre patologie”.
Mio padre è vecchio, si, e ha un’altra patologia, come migliaia di altri anziani in questo Paese. Ma quelle due parole – vecchio e malato – non autorizzano nessuno a pensare che le loro vite siano sacrificabili.

Giuseppe Battarino
Le intense riflessioni di Giusi Fasano, che ci portano nel cuore dell’epidemia, non come macroevento, ma come somma di microeventi significativi, possono essere ulteriormente declinate da un giurista in una duplice direzione.
Per un verso ci si può chiedere se esista, e come vada ricostruito, un “diritto a morire bene”. E’ qualcosa che evidentemente eccede le norme esistenti in materia di fine vita e anche, in certa misura, le previsioni dei codici deontologici.
Si potrebbe pensare a un’applicazione dei principi in materia di esecuzione del contratto, in questo caso per quanto riguarda il rapporto che lega la struttura al paziente; mentre certe esperienze negative e mortificanti a danno delle persone curate, nella fase che precede la fine della loro vita, potrebbero rientrare nei maltrattamenti, penalmente rilevanti, di una “persona affidata per ragioni di cura” al sanitario.
Ma qui vogliamo parlare di esempi virtuosi: e allora potrà accadere, come è già avvenuto in diversi campi – della cura o più in generale della qualità delle relazioni interpersonali – che una serie di condotte di eccellenza poste in essere dai singoli diventino buone prassi condivise; e che, a partire da esse, si manifesti l’opportunità di una regolazione giuridica di una realtà nuova, di un diritto che copre un momento della vita troppo spesso volutamente dimenticato.
Ma – ed è la seconda riflessione – perché questo accada deve esistere, come precondizione, la migliore possibilità per infermieri e medici di “curare e prendersi cura” delle persone a loro affidate e che a loro si affidano: e cioè un’organizzazione sanitaria ripensata in funzione dei bisogni delle persone, che l’emergenza epidemiologica ha consentito di evidenziare (che non erano ignoti, ma già talvolta compromessi da opinabili scelte regionali precedenti).
La deospedalizzazione – volendo sintetizzare in una parola un processo complesso – è un criterio da seguire non solo per le ragioni dell’organizzazione ma anche per le ragioni della cura: più territorio e più sostegno alle famiglie, attraverso destinazione di risorse e una costruzione giuridica adeguata, possono significare tempi migliori per il tempo della vicinanza.

Sandro Spinsanti
Il modo in cui tantissime persone colpite dalla pandemia hanno vissuto l’ultimo tratto di strada suscita indignazione. L’articolo di Giusi Fasano si fa portavoce di una ribellione generalizzata. La protesta è rivolta, oltre che alla precocità di molte morti, alle condizioni di isolamento e di solitudine in cui le persone contagiate sono state costrette di concludere la propria vita. “E il modo ancor m’offende”, verrebbe da dire con la Francesca da Rimini di Dante, commentando la propria morte. Una critica radicale l’aveva già espressa l’on. Giorgio Trizzino in Parlamento, in occasione del voto di fiducia al decreto Cura Italia: “Morire male di covid 19 è stata una realtà dai numeri spaventosi che disegna il profilo di una tragedia dentro la tragedia”.
A questo punto la nostra riflessione deve resistere alla tentazione più diffusa: cercare di chi è la colpa. E soprattutto incolpare i professionisti della cura, come se le morti in condizioni deplorevoli dipendessero dalla loro insensibilità e mancanza di premure. La strada della riflessione che dobbiamo imboccare è diversa. Inizia con la domanda: quando l’emergenza sarà passata, le brutte morti termineranno? Ovvero: le condizioni disumane che accompagnano la fine della vita dipendono dalla scarsità delle risorse e dagli affannosi tentativi di contenere il dilagare della malattia, in tempo di pandemia, o hanno radici più profonde?
È il concetto stesso di emergenza che dobbiamo sottoporre a disamina. Perché, oltre alla condizione eccezionale che si instaura quando un disastro improvviso ci colpisce – una pandemia, appunto, o uno tsunami, una catastrofe meteorologica – possiamo assumere la parola “emergenza” in senso letterale: l’evento imprevisto fa emergere qualcosa che era presente nello scenario quotidiano, ma che non vedevamo perché era sommerso. Ebbene, le brutte morti in tempo di covid fanno emergere che nella “normalità”, che l’emergenza ci ha costretto a considerare, le brutte morti erano le più frequenti. Ancora una volta: non a causa dell’indifferenza dei professionisti, medici e infermieri (ovviamente le differenze individuali tra questi sono sempre esistite e sempre esisteranno!). Il fatto è che i decessi per la stragrande maggioranza avvenivano in ospedale: luogo dei trattamenti intensi e delle acuzie, piuttosto che della cronicità, inadatto a quell’accompagnamento che è proprio delle cure palliative. Basterebbe tracciare il percorso di tanti ospiti di RSA che vanno a terminare la vita in Pronto soccorso o in terapia intensiva, dopo essere stati strappati – in emergenza! – all’ambiente che sarebbe il più congruo all’accompagnamento. Non si tratta di ritornare all’organizzazione delle RSA che vigeva prima della pandemia, ma di ripensarle in modo radicale, affinché non siano concepite come discariche di vecchi e di persone non più autosufficienti.
Sullo sfondo vediamo affiorare un problema culturale diffuso: è entrata in crisi la capacità di prendersi cura delle vite arrivate al termine. I familiari si sentono incompetenti per questo tipo di lavoro di cura e tendono ad affidarlo in esclusiva ai professionisti; le cure domiciliari sono messe completamente in ombra dall’organizzazione ospedaliera; la cultura della palliazione è rifiutata, a favore di una “ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure”, come la chiama la legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. È in questo combinato disposto che prosperano le brutte morti. Erano frequenti prima della pandemia. Lo saranno anche quando l’emergenza sarà terminata, se non avviamo un cambiamento radicale: organizzativo, culturale ed etico. Ridando al morire diritto di cittadinanza dentro le nostre vite.

Marina Vanzetta
6 gennaio 2021

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