“Ora la mia speranza non ha sorriso, o umana omertà:
perché essa non è il sogno della ragione,
ma è ragione, sorella della pietà”
Pier Paolo Pasolini “Il sogno della ragione”
Un tema complesso, ampio, difficile, spinoso, un ambito in cui gli interrogativi aprono ad altri interrogativi.
Che cos’è la speranza? Che cosa significa sperare soprattutto in questo momento di grande incertezza, in un tempo sospeso in cui dolore e sofferenza sono quanto mai palpabili? Generare speranza e sostenere speranza nelle situazioni legate alla malattia che significato assume?
Ne abbiamo parlato con Giuliana Masera Infermiera e Filosofa perfezionata in Bioetica con la passione per la fenomenologia applicata alla Professione Infermieristica.
Giuliana, come definiresti la speranza?
Penso semplicemente  che la speranza costituisca un atteggiamento  per affrontare la vita  nel suo dispiegarsi soprattutto nei momenti critici e bui, quando tutto appare spento e senza colore.
Spinoza la definisce  “una letizia incostante, nata dall’idea di una cosa, futura o passata, del cui evento in qualche modo dubitiamo, ovvero ci troviamo  in una situazione difficile, non conosciamo esattamente  gli sviluppi futuri, immaginiamo che la situazione possa migliorare, ma non ne abbiamo certezza”. 
Eugenio Borgna la definisce “un’apertura nel tempo come un tempo aperto che vive del futuro e che non si arena nel passato: nelle sabbie del passato immobili e inerziali. Mentre il tempo è nella sua essenza separazione e disgiunzione, la speranza tende alla riconciliazione e alla riunificazione; e in questo senso essa è come una memoria del futuro. La speranza come apertura nel tempo è la premessa all’essere-insieme: all’essere insieme agli altri nella solidarietà e nella comunione“.
Questi pensieri ci accompagnano ad una visione dualistica della condizione umana: speranza ed il suo contrario timore. Sono due atteggiamenti che in questo particolare periodo di pandemia ci siamo trovati a sperimentare: sia come professionisti della cura ma anche come cittadini comuni.
Quanto può essere importante la speranza nei curanti e nei curati?
Pensando ad una persona, che sa per esempio  di avere una malattia cronica progressiva, non si vuole negare  che questa non viva sconvolgimenti interiori, che non abbia paure, che non si interroghi sul suo futuro.
La  speranza che la persona riesce però a  sperimentare in questa particolare condizione  costituisce  un potente motore che consente di attivare energie e potenzialità residue.  
Credo sia fondamentale educarci ad una speranza che non è ingenuo e facile  ottimismo, ma  capacità di saper costruire  presupposti perché una persona  si renda conto delle proprie potenzialità e  le faccia emergere attraverso  una   relazione con se stessa, con l’altro e con la realtà che la circonda.
La perseveranza  alimenta la speranza, aiuta a non arrendersi, affrontando le difficoltà passo dopo passo, senza compiere  scelte avventate. Occorre quell’esercizio di  attenzione ai problemi concreti, per mantenere vivo il senso di realtà nel curante e nel curato.
Possiamo definire la speranza una capacità di accettare la propria condizione di vita? 
Esattamente, sperare vuol dire imparare ad accettare delusioni, dolori, fragilità, oscurità, senza farsi schiacciare da questi.
La speranza in quanto atteggiamento positivo aiuta ad affrontare i problemi attraverso la ricerca di soluzioni  e  trae la sua forza vitale  dalla relazione. Costituisce quindi un potente antidoto al nichilismo e all’individualismo imperante.
La speranza, attraverso l’umiltà e la fiducia, consente alla persona di accogliere l’aiuto da parte dell’altro, e questo altro  può essere rappresentato da un familiare, da una persona significativa, da un  professionista  della cura.
La speranza è sempre un andare oltre e apre spiragli in ciò che oggi ci appare impossibile, senza forma.
Quanto bisogno ha di sperare l’uomo?
La persona  ha necessità di sperare perché è tipico della natura umana proteggere la propria esistenza e cercare  motivi di speranza a seconda delle proprie caratteristiche psicologiche, della propria visione della vita e del contesto socio ambientale. 
Sperare è necessario, soprattutto quando si è minacciati dalla malattia, ma è anche importante  che accanto alla persona malata e al suo contesto familiare  vi siano professionisti competenti, motivati e responsabili che  sappiano  infondere  speranza  evitando false illusioni ed inganni.
Se intendiamo la salute come processo piuttosto che come assenza di malattia, il  “sentirsi bene”  costituisce uno stato percepito dalla persona  attraverso le varie esperienze della vita in continuo divenire.  
C’è un legame fra la speranza e le condizioni del tempo in cui viviamo? E ancora, oggi è possibile sperare?
Se la speranza si sviluppa e cresce prevalentemente attraverso  relazioni significative, promuovere atteggiamenti di prossimità, di fiducia, di empatia costituisce il substrato perché la stessa possa essere seminata, possa “attecchire” e diventare  quindi una “visione della vita”. 
La società “liquida” non  favorisce certo  tutto questo.
Inoltre, la complessità e i cambiamenti  indotti dalle trasformazioni sociali, dal progresso scientifico e tecnologico, dai nuovi e numerosi problemi legati alla bioetica, dalle immigrazioni di portata storica e dalla necessità di confrontarsi apertamente e senza pregiudizi con culture diverse, conducono i professionisti della cura a dovere affrontare  questioni prima sconosciute.
Anche in questo caso dobbiamo capire se, come professionisti della cura, desideriamo confrontarci su queste innumerevoli questioni e soprattutto se insieme vi sia la volontà e il desiderio di trovare soluzioni condivise nel rispetto e nell’attenzione della dignità di ogni persona di cui ogni giorno ci facciamo carico.
Dal tuo punto di vista come si potrebbe  promuovere speranza  quale antidoto al nichilismo professionale?
Penso che la speranza, non costituisca un atteggiamento passivo di immobilità e attesa ma rappresenti quell’energia  capace di attivare attenzione, concentrazione, discernimento così da far emergere ciò che è urgente, essenziale, ciò per cui dobbiamo impegnarci a fondo.
E questo è fortemente correlato alla responsabilità. Responsabile è il professionista che ha imparato a sperare (e per questo sa dare speranza) e che si impegna con passione e competenza  nel proprio agito professionale. 
La deresponsabilizzazione professionale può manifestarsi in molti modi.
Pensiamo per esempio ad una  accettazione solo formale del proprio ruolo. Ciò che conta è l’aspetto esterno e non la sostanza, l’apparire e non l’essere, i titoli acquisiti ai soli fini carrieristici e non volti al bene della persona che abbiamo in carico.
L’esercizio della  responsabilità è completo  solo quando tutti gli elementi che si dispiegano nella  relazione con l’altro  sono agiti pienamente sia nel contenuto che nella forma. 
Si può dire che la speranza ha una forza terapeutica?
Infondere speranza in situazioni di sofferenza, disagio, inadeguatezza e dipendenza costituisce per i professionisti della cura  una competenza  fondamentale del proprio agire.
La forza  terapeutica della speranza  forse non è stata ancora dimostrata appieno attraverso evidenze scientifiche.
Sarebbe auspicabile anche in ambito di ricerca promuovere indagini in tal senso.
Farne  esperienza nelle pratiche di cura  attraverso gesti semplici intessuti di umanità  aiuta i curati a  non sentirsi soli, abbandonati, anche quando la vita si mostra nella sua parte più misteriosa e difficile.
20 agosto 2020
			
		


