Uno sguardo che insegna a voler bene


Invio queste parole su invito della mia tutor, l’infermiera Enza Anemolo, che mi ha proposto di mettere per iscritto il mio vissuto durante le settimane trascorse con l’équipe sanitaria e amministrativa di Bergamo. Chiedo scusa se i pensieri risultano un po’ disordinati: mi sento più a mio agio nel parlare che nello scrivere.
Ho appena compiuto diciott’anni e sto frequentando l’ultimo anno delle superiori. Il mio tirocinio è stato svolto nell’ambito del percorso di alternanza scuola-lavoro e nasce da un desiderio profondo: capire se la professione infermieristica potesse davvero essere la mia strada. Posso dire con certezza che, dopo queste due settimane, non ho più dubbi.
Mi sono avvicinato al mondo dell’infermieristica qualche mese fa, quando ho osservato un infermiere prendersi cura di un paziente con una dedizione che andava oltre la tecnica: lo accudiva come un familiare, con passione e rispetto. In quel momento ho pensato che anche io, nella vita, avrei voluto trasmettere quello stesso sguardo, quello stesso modo di prendersi cura.
Durante il tirocinio ho incontrato tanti volti e ognuno ha lasciato un segno. Come Brunella Baldrighi, che ho avuto la fortuna di affiancare al convento delle suore Canossiane. Una donna instancabile, sempre pronta a rispondere a ogni campanello d’allarme con tempestività e attenzione. In lei ho rivisto quello sguardo che mi aveva colpito a gennaio. E in più, ha saputo anche spiegarmi tutto con un linguaggio chiaro, da educatrice: osservare e comprendere grazie alle sue parole è stato semplice e stimolante. Un esempio? Una suora stava sviluppando una micosi. Dopo avermi spiegato le condizioni in cui un fungo può proliferare, mi ha chiesto: “E tu, cosa faresti?”. E io, grazie alle informazioni ricevute, ho risposto: “Cercherei di mantenere la superficie meno umida”. Un esempio banale, forse, ma che per me ha rappresentato un grande passo: ho iniziato a cogliere come la cura nasca dalla comprensione.
Un’altra persona che desidero ringraziare è Alice Gatti. Ho scelto di accompagnarla nei suoi giri domiciliari dopo aver pranzato con lei e averla ascoltata raccontare, con commozione, di un marito che accarezzava con dolcezza il volto della moglie malata. Ho sentito il bisogno di seguire chi sapeva cogliere questi dettagli così umani e intensi, e di lasciarmi contaminare da quello sguardo. Grazie a lei ho capito quanto sia importante essere presenti, anche nei momenti di stanchezza o difficoltà.
Un episodio tra i tanti: abbiamo visitato un paziente in cure palliative. Le prospettive di vita non erano delle migliori, e nonostante i farmaci antidolorifici la situazione non migliorava. L’aria era pesante, colma di dolore. Eppure, una volta usciti, la badante ci ha detto: “Meno male che arrivate voi, portate un po’ di forza”. Poco prima l’avevo vista piangere mentre ci aiutava, e ora sorrideva. Quelle parole mi hanno restituito energia e motivazione, proprio in una giornata in cui ero emotivamente e fisicamente sfinito. Quando, nel pomeriggio, siamo tornati dallo stesso paziente per un consulto con il medico palliativista, la stanchezza era ancora lì, ma anche la forza di continuare.
Il mio ultimo grazie, il più grande, va a Enza Anemolo. Se non avesse accettato la mia richiesta di svolgere il tirocinio presso “A Casa Tua”, non avrei potuto vivere tutto questo. È stata una tutor presente, accogliente e generosa, ben prima ancora che iniziassi il mio percorso: Enza ha creato un clima sereno e coeso nel gruppo, vedendo nei colleghi non solo dei collaboratori, ma dei veri compagni di viaggio. Questo clima è stato essenziale per farmi sentire accolto e libero di imparare.
A diciott’anni, quando non capisci qualcosa o hai un dubbio, ti sembra di essere un peso. Non hai ancora la sicurezza per chiedere aiuto. Ma Enza ha trasformato tutto questo: ha fatto sì che le mie insicurezze diventassero opportunità di crescita. Tanto che, a metà percorso, un’infermiera mi ha detto: “Per come ti muovi, sembra che tu sia qui da mesi”.
Quando penso a lei, più che “dottoressa” o “infermiera”, mi viene in mente la parola “panzer”. Uno sguardo appassionato, una forza travolgente, un’energia che sfonda i limiti. Ricordo un pomeriggio in cui, esausto, mi sono concesso un’ora di riposo. Sapevo che Enza, nel frattempo, stava affrontando la terza riunione della giornata, dopo una mattinata iniziata all’alba e una notte quasi insonne. Eppure, la vedevo sempre presente, energica, trascinante. Tutto nasceva da quegli stessi due elementi: lo sguardo e l’accoglienza.
Porto a casa molto: competenze, fiducia, nuove consapevolezze. Ma, soprattutto, porto con me l’insegnamento più grande che ho ricevuto: imparare a voler bene. Ho visto infermiere capaci di trasmettere cura non solo ai pazienti, ma anche nei piccoli gesti con i colleghi, o parlando con un barista. È questo che voglio imparare: la capacità di vivere ogni relazione con dedizione. Spero che un giorno anche dentro di me si accenda quella stessa passione che spinge loro ad alzarsi ogni mattina.
Perdonate la lunghezza di questa testimonianza… ma, come hanno imparato a conoscermi i colleghi dello studio di Osio durante queste due settimane, sono un tipo piuttosto loquace e pieno di entusiasmo quando qualcosa mi coinvolge davvero.
Chiudo con una frase che la mia tutor Enza mi ha ripetuto più volte e che porterò con me come bussola nel mio percorso futuro: “Ricordati sempre che l’identità professionale si rappresenta nell’essere infermiere, e non solo nel fare l’infermiere.”

12 luglio 2025

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