I dati epidemiologici e il progressivo andamento dell’invecchiamento della popolazione hanno portato al riconoscimento della necessità di un cambiamento del paradigma assistenziale e di cura dei cittadini: al centro deve essere posta la centralità della prevenzione e la prossimità territoriale e sociale.
È in questa prossimità che trova spazio l’Infermieristica di Famiglia e Comunità. Ne abbiamo parlato con Cesarina Prandi Professoressa di Teorie e prassi delle relazioni di cura nella Scuola Universitaria della Svizzera Italiana e consulente nell’ambito sanitario in Italia, Svizzera e Spagna e Pierluigi Badon, Docente di Infermieristica e Tutor didattico presso l’Azienda Ospedale – Università di Padova e autori di un recente testo su questo tema – Assistenza Infermieristica di Famiglia e Comunità (Casa Editrice Ambrosiana).
Prof.ssa Prandi, Infermieristica di famiglia e comunità, un percorso ancora in atto che pone a regime le prime modifiche strutturali sull’assistenza territoriale da cui il nostro Paese non può più prescindere e di cui avrà sempre più bisogno…
Negli ultimi anni, e in modo ancora più evidente dopo la pandemia da Covid-19, il nostro Paese ha iniziato a riconoscere in modo concreto l’importanza strategica di un modello di sanità che si sposta dall’ospedale al territorio, dalla cura alla persona alla cura della comunità, dalla risposta emergenziale alla prevenzione e alla promozione della salute. In questo contesto, la figura dell’infermiere di famiglia e comunità (IFeC) si afferma non solo come un attore assistenziale, ma come un vero e proprio facilitatore di benessere collettivo. L’infermieristica di famiglia e comunità non è ancora una nuova disciplina, ma una nuova modalità di intendere la professione infermieristica: più vicina alle persone, integrata nei contesti di vita quotidiana, capace di creare ponti tra i servizi e tra i professionisti, attenta ai determinanti sociali della salute e centrata sul principio di prossimità. È un percorso che pone al centro la relazione di fiducia con i cittadini e la costruzione di alleanze terapeutiche che siano anche educative, inclusive e partecipative. Quello che stiamo vivendo oggi è un momento di profonda trasformazione, in cui si iniziano a vedere le prime modifiche strutturali sull’assistenza territoriale, abbandonando la prassi prestazionale. L’istituzione delle Case della Comunità, la spinta all’integrazione multiprofessionale, l’utilizzo della tecnologia per la teleassistenza e la telemedicina, e soprattutto il riconoscimento normativo e operativo del ruolo dell’IFeC, sono tutti segnali di un cambiamento che guarda al futuro con responsabilità. Tuttavia, siamo ancora nel mezzo di un percorso. Le sfide non mancano: la necessità di uniformare l’organizzazione tra le diverse Regioni, la definizione chiara dei modelli operativi, la formazione avanzata degli infermieri, la cultura della collaborazione interprofessionale, in questo ambito in particolare con i Medici di Medicina Generale. Ma è proprio in questa fase che possiamo e dobbiamo fare la differenza. Abbiamo bisogno di una visione condivisa e di un impegno collettivo per consolidare l’infermieristica di famiglia e comunità come pilastro del Servizio Sanitario Nazionale. Dobbiamo sostenere la crescita culturale e professionale degli infermieri, garantire loro spazi di autonomia e responsabilità, promuovere la ricerca e la valutazione degli esiti di salute sul territorio. Serve una governance lungimirante, ma serve anche una comunità professionale capace di agire con passione, competenza e senso civico. Il nostro Paese non può più prescindere da questo modello. L’invecchiamento della popolazione, la cronicizzazione delle malattie, le disuguaglianze sociali e l’accessibilità ai servizi richiedono un’assistenza territoriale forte, continua e integrata. L’infermiere di famiglia e comunità risponde a questi bisogni con una presenza attiva e competente, capace di intercettare precocemente le fragilità, accompagnare le famiglie nei percorsi di cura e sostenere l’empowerment dei cittadini. Ma più di tutto, l’IFeC porta una nuova cultura della salute: una cultura basata sull’ascolto delle persone, sulla responsabilizzazione, sulla solidarietà di comunità. Una cultura in cui il prendersi cura diventa anche un diventare attivi e partecipativi, nel rispetto delle diversità e dei valori di ogni persona.
Per questo possiamo dire che l’infermieristica di famiglia e comunità è sì un percorso in atto, ma è soprattutto una direzione necessaria, un’opportunità di evoluzione per il nostro sistema sanitario, e una speranza concreta per un futuro più equo, inclusivo e orientato alla salute di tutti.
Un ruolo, quello dell’Infermieristica di Famiglia e Comunità, pregnante e cogente che impone da subito e per il futuro, un’evoluzione non solo dell’assetto formativo, organizzativo e applicativo. Quale dovrà essere la direzione e quali sono e saranno i valori in gioco?
Nel mio ruolo di accademica e consulente per lo sviluppo e l’implementazione dei modelli di cura, posso dire che il ruolo dell’infermieristica di famiglia e comunità si configura oggi come una leva trasformativa dell’intero sistema sociosanitario. È un ruolo pregnante, certamente, ma anche cogente: non più rimandabile, e anzi urgente, se vogliamo affrontare in modo efficace le sfide della salute pubblica contemporanea. Questa responsabilità richiede un cambiamento profondo, che non può limitarsi a ritocchi o aggiornamenti superficiali, ma deve spingersi fino a rivedere i fondamenti stessi della formazione, dell’organizzazione e dell’applicazione pratica dei modelli assistenziali. La direzione verso cui dobbiamo andare è chiara: dobbiamo costruire un sistema capace di operare in modo territoriale, proattivo, relazionale e sostenibile. Un sistema orientato non solo alla risposta al bisogno, ma anche e soprattutto alla promozione della salute e alla prevenzione delle disuguaglianze. Questo implica il superamento definitivo del modello centrato sull’ospedale, per dare spazio a un approccio che valorizzi la prossimità, l’interdisciplinarità, l’accessibilità e la personalizzazione delle cure. Dal punto di vista formativo, è imprescindibile investire su percorsi specialistici che preparino gli infermieri ad assumere il ruolo di “professionisti di riferimento” per la famiglia e la comunità. Serve una formazione avanzata, orientata non solo alle competenze cliniche, ma anche a quelle relazionali, educative, organizzative e di leadership. L’infermiere di famiglia e comunità, inserito nelle COT, deve saper lavorare in équipe, coordinare interventi complessi, leggere i bisogni sociali oltre quelli sanitari, attivare reti e risorse, utilizzare strumenti digitali, e promuovere l’autonomia delle persone assistite. Avendo seguito numerosi progetti di sviluppo dell’infermieristica di famiglia e di comunità sul piano organizzativo, posso affermare che è fondamentale disegnare strutture e processi che rendano concreto il principio dell’integrazione e sostengano i cambiamenti di gestione attraverso formazione specifica sia a livello di coordinamento che di dirigenza. L’infermiere di famiglia e comunità non può e non deve essere una figura isolata: ha senso solo se inserito in un sistema che favorisca il dialogo e la collaborazione tra tutti gli attori – medici di medicina generale, assistenti sociali, educatori, fisioterapisti, psicologi, farmacisti, cittadini stessi. Le Case della Comunità, in tal senso, rappresentano un’opportunità importante, ma vanno sostenute da modelli gestionali flessibili, innovativi e valutabili nel tempo. Dal punto di vista applicativo, occorre spingere verso pratiche che mettano davvero al centro la persona e il contesto in cui vive. L’operatività dell’infermiere deve radicarsi nel territorio, essere visibile, continuativa, adattabile ai bisogni locali. Questo significa non solo andare a domicilio, ma essere presenti nei luoghi della vita quotidiana: scuole, centri anziani, quartieri, spazi di aggregazione. Significa anche promuovere l’autogestione della salute attraverso percorsi educativi e partecipativi, costruiti insieme alla comunità. Ma soprattutto, dobbiamo chiederci quali sono – e saranno – i valori in gioco. Perché i modelli di cura non sono solo strumenti: sono espressione di visioni del mondo, di scelte etiche, di priorità sociali. I valori fondamentali che devono guidare questo processo sono: prossimità, equità, continuità, responsabilità, partecipazione e rispetto della dignità umana. Prossimità, per essere vicini non solo fisicamente ma anche culturalmente e relazionalmente alle persone. Equità, per garantire a tutti l’accesso ai servizi, indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali o geografiche. Continuità, per superare la frammentazione dei percorsi. Responsabilità, per assumere un ruolo attivo nella promozione della salute. Partecipazione, per coinvolgere le comunità nelle scelte che le riguardano. E rispetto, come fondamento di ogni relazione di cura. In sintesi, l’evoluzione dell’infermieristica di famiglia e comunità rappresenta una sfida sistemica, ma anche una grande opportunità: quella di riscrivere il nostro patto sociale sulla salute, mettendo al centro le persone, le relazioni e i contesti di vita. È una sfida che richiede coraggio, visione e investimenti, ma che può restituire valore, umanità e sostenibilità all’intero sistema di cura.
Quello dell’Infermieristica di Famiglia e Comunità è dunque un ambito che permetterà sempre più agli infermieri di dimostrare il potenziale di un ruolo specialistico in risposta alle complesse necessità della popolazione orientando e guidando percorsi, erogando prestazioni anche specialistiche, favorendo l’integrazione dei percorsi di cura. Uno sviluppo di messa a regime che però sarà necessario monitorare…
La trasformazione dell’assistenza territoriale, e con essa lo sviluppo dell’infermieristica di famiglia e comunità, non può prescindere da una riflessione profonda e sistematica su tre elementi chiave: il monitoraggio, la qualità e la metodologia di intervento. Siamo di fronte a un cambiamento epocale, che richiede non soltanto entusiasmo, ma anche rigore. Cambiare i modelli organizzativi, redistribuire le responsabilità professionali, ridefinire le relazioni tra i servizi, significa agire su equilibri delicati e talvolta consolidati da decenni. È quindi fondamentale che questa transizione sia accompagnata da un impianto metodologico solido, capace di garantire efficacia, coerenza e sostenibilità nel tempo. Il primo aspetto imprescindibile è il monitoraggio. Non si può migliorare ciò che non si misura. È necessario definire indicatori di processo, di esito e di impatto che siano significativi, condivisi e orientati ai reali bisogni della popolazione. Non bastano i numeri sulle prestazioni erogate: servono dati che raccontino se le persone stanno meglio, se sono più informate, più autonome, se le disuguaglianze si sono ridotte, se la qualità della vita è migliorata. Il monitoraggio non deve essere visto come un onere burocratico, ma come uno strumento al servizio del miglioramento continuo. Deve essere trasparente, partecipato, restituito ai territori affinché generi apprendimento e adattamento.
Il secondo pilastro è la qualità. Ma non intesa in modo generico. Parliamo di qualità clinica, organizzativa, relazionale e percepita. Una qualità che si costruisce attraverso la definizione di standard, l’utilizzo di linee guida evidence-based, la promozione della sicurezza delle cure, l’umanizzazione dei percorsi. Tutto questo richiede un’azione concertata, che coinvolga le istituzioni, i professionisti, le università e soprattutto i cittadini. Perché la qualità non si impone: si costruisce insieme, attraverso la condivisione di obiettivi, l’ascolto delle esperienze e il rispetto reciproco.
Ma il vero cuore della questione è la metodologia. Senza metodo, ogni trasformazione rischia di diventare episodica, frammentata o – peggio – inefficace. Servono modelli operativi chiari, replicabili e adattabili. Servono strumenti di progettazione partecipata, come il community assessment, le mappe dei bisogni, l’analisi dei determinanti sociali. Servono approcci multidisciplinari e interprofessionali, capaci di valorizzare le competenze di ciascun attore. E, soprattutto, serve una regia esperta, competente, autorevole.
La trasformazione non può essere lasciata all’improvvisazione. Ha bisogno di professionisti formati al cambiamento, capaci di guidarlo con visione e metodo. È qui che l’infermiere di famiglia e comunità, insieme ad altre figure chiave, può e deve giocare un ruolo fondamentale. Non solo come operatore, ma come agente di sviluppo. Un professionista capace di leggere i contesti, facilitare i processi, attivare le reti, valutare i risultati. Un professionista che conosce la metodologia, ma anche la dimensione umana del cambiamento, e che sa coniugare la competenza tecnica con l’empatia relazionale.
È necessario creare spazi per questa leadership diffusa. Bisogna investire in formazione manageriale, in capacity building, in ricerca applicata. Bisogna sostenere i professionisti che innovano, che sperimentano, che si mettono in gioco. E bisogna costruire una cultura organizzativa che riconosca il valore della riflessione, dell’autovalutazione, dell’apprendimento continuo.
Il cambiamento dei servizi territoriali è un’opportunità storica. Ma perché non si perda in tentativi isolati o iniziative senza impatto reale, deve poggiare su un impianto metodologico condiviso e su professionisti che ne siano protagonisti consapevoli. Solo così sarà possibile generare valore, rafforzare la fiducia della popolazione e dare continuità a un modello di cura che sia davvero centrato sulla persona e sulla comunità.
In conclusione, non è sufficiente “fare bene”: è necessario sapere perché si agisce, come si agisce e con quali risultati. Solo questo approccio può garantire che il cambiamento non sia solo un’intenzione, ma una realtà sostenibile, misurabile e trasformativa.
Dr Badon l’Infermieristica di Famiglia e Comunità è un tema complesso da declinare. Voi lo avete fatto in un testo, un’impresa per certi versi titanica. Come siete riusciti in quest’opera?
Credo che quest’opera sia il risultato della nostra esperienza come infermieri formatori che hanno cercato di interpretare il presente per preparare il futuro. Riteniamo che l’Infermieristica di Famiglia e Comunità sia, senza dubbio, un tema di grande complessità. La sua declinazione richiede di intersecare diverse discipline – dalla salute pubblica alla sociologia, dall’economia alla giurisprudenza – e di considerare una moltitudine di attori, dai professionisti sanitari ai cittadini, dalle istituzioni alle associazioni. Scrivere un testo su questo argomento è stata per noi una vera e propria impresa, un lavoro di sintesi e di sistematizzazione che nasceva dalla profonda convinzione che il futuro dell’assistenza territoriale passasse proprio da qui.
Un progetto ambizioso e non facile che ha messo a dura prova la mia esperienza di curatore di manuali di infermieristica ma sul quale ho creduto e che ha trovato in Cesarina Prandi un contributo decisivo per dare forma a quanto era nel nostro intento. Sono stati quattro anni di duro e costante lavoro di ricerca, discussioni, analisi, scrittura e revisione.
Il progetto è iniziato dopo la pandemia COVID-19, un periodo che ha messo in luce in modo inequivocabile le carenze e, al contempo, le potenzialità dell’assistenza territoriale. La pandemia ha agito come un catalizzatore inequivocabile. Prima, la necessità di un’assistenza territoriale forte era una consapevolezza teorica o una visione di pochi. Durante la pandemia, è diventata un’esigenza tangibile e drammatica. Abbiamo toccato con mano l’importanza di una prossimità assistenziale per la gestione dei casi, il monitoraggio della popolazione e la prevenzione delle acuzie, ma al contempo abbiamo visto le carenze strutturali. Questo ha amplificato la nostra convinzione che non si potesse più rimandare la creazione di uno strumento pratico che guidasse gli infermieri sul campo, offrendo modelli per la presa in carico e metodologie adattabili ai diversi scenari. La pandemia ha trasformato la nostra ambizione in una vera e propria urgenza progettuale, spingendoci a sistematizzare le conoscenze per un futuro più resiliente.
La fase di progettazione è durata quasi due anni, e la parte più difficile è stata proprio quella di definire i contenuti, di proporre nuovi modelli per la presa in carico e di adattare metodologie a scenari differenti. Questo ha richiesto non solo la nostra esperienza, ma anche il fondamentale contributo di consulenti e revisori esterni. La loro prospettiva e la loro expertise sono state cruciali e ci hanno permesso di perfezionare l’approccio metodologico e di declinare in modo efficace i diversi interventi dell’Infermiere di Famiglia e Comunità nei differenti contesti, garantendo così una visione il più possibile completa e applicabile.
Qual è stato il momento o l’esperienza specifica che ha maggiormente motivato voi curatori e autori a intraprendere questa ‘impresa titanica’ di scrittura?
La motivazione che ci ha spinto a intraprendere questa “impresa titanica” è nata da una lacuna ben precisa nel panorama editoriale. Ci siamo resi conto che non c’era assolutamente nulla di manualistico sull’Infermieristica di Famiglia e Comunità sul mercato. Erano disponibili per lo più saggi che offrivano riflessioni teoriche o analisi settoriali, ma mancava un testo che indicasse chiaramente il “come fare” – un vero e proprio manuale operativo.
La nostra ricerca bibliografica per manuali già pubblicati, estesa anche alle grandi case editrici inglesi e americane, non ha portato a nessun risultato soddisfacente. Questa assenza ci ha convinto della necessità di produrre un testo che non solo abbracciasse le diverse materie coinvolte, ma che rispondesse anche in modo specifico ai contenuti dei programmi dei master in quest’ambito. Si trattava, in sostanza, di un libro “da inventare”. Questo ha richiesto un impegno enorme in termini di ricerca, rigore, costanza e flessibilità, oltre a una notevole dose di scrittura originale per molti aspetti del volume.
Fogli bianchi che, come un “campo da gioco” si sono progressivamente “riempiti” considerando le persone assistite con le loro famiglie, le risorse della comunità, i professionisti con le loro rappresentanze ordinistiche e associative e il sistema politico, amministrativo e economico. Quale è stato il filo conduttore e quali sono state le sfide di questa scrittura?
Credo che la metafora del ‘campo da gioco’ è perfetta per descrivere il nostro processo di scrittura. Partendo da quei ‘fogli bianchi’, l’obiettivo è stato quello di far dialogare tutte le componenti che costituiscono l’ecosistema dell’assistenza territoriale: dalle persone assistite con le loro famiglie, al vasto network delle risorse della comunità, ai professionisti sanitari con le loro specifiche competenze e rappresentanze, fino al sistema politico, amministrativo ed economico che fornisce il quadro di riferimento. Il filo conduttore che ha unito ogni capitolo è stata la visione olistica e integrata della salute, con la persona e la comunità al centro. Non volevamo un testo frammentato, ma una trattazione che evidenziasse come tutti questi elementi siano interconnessi e come l’azione dell’infermiere di famiglia e comunità sia il punto di snodo di questa integrazione. Le sfide maggiori sono state proprio questa armonizzazione delle diverse prospettive e la necessità di tradurre una realtà complessa e in continuo divenire in un linguaggio chiaro e fruibile. Mantenere il passo con l’evoluzione normativa e scientifica, pur fornendo un testo che avesse una sua stabilità, è stato un equilibrio delicato da raggiungere.
Quali sono le chiavi di lettura dei contenuti del manuale?
Le chiavi di lettura del nostro testo sono molteplici, ma se dovessi sintetizzare, direi che le principali sono:
– L’approccio olistico e centrato sulla persona: non si guarda solo alla patologia, ma all’individuo nel suo contesto familiare e sociale, promuovendo il benessere a 360 gradi.
– L’integrazione e la collaborazione multidisciplinare: il testo sottolinea come il successo dell’Infermieristica di Famiglia e Comunità dipenda dalla capacità di lavorare in sinergia con tutti gli altri professionisti sanitari e sociali, superando i compartimenti stagni.
– Il valore della prossimità e della prevenzione: mettiamo in evidenza come l’intervento sul territorio, vicino ai cittadini, sia fondamentale per anticipare i bisogni, prevenire le acuzie e promuovere stili di vita sani.
– L’empowerment della comunità e dei cittadini: il testo enfatizza il ruolo attivo dei cittadini e delle risorse locali nel co-costruire percorsi di salute. Non si tratta solo di ‘erogare’, ma di ‘coinvolgere’ e ‘rendere autonomi’.
– La sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale: infine, mostriamo come l’Infermieristica di Famiglia e Comunità non sia solo un’innovazione assistenziale, ma una strategia chiave per rendere il nostro sistema sanitario più resiliente, efficiente e in grado di rispondere alle sfide future.
Se dovesse scegliere un solo messaggio, o una ‘lezione’ fondamentale che il lettore dovrebbe trarre dal vostro libro, quale sarebbe?
Il messaggio fondamentale che vorremmo che il lettore traesse dal nostro libro è la centralità della persona e della comunità come fulcro ineludibile di un’assistenza sanitaria sostenibile ed efficace.
Non si tratta solo di curare la malattia, ma di prendersi cura della persona nel suo intero ecosistema: la famiglia, il contesto sociale, le risorse della comunità. L’Infermieristica di Famiglia e Comunità incarna questo principio, proponendo un modello che è non solo necessario per rispondere ai bisogni attuali e futuri, ma anche l’unico approccio che può garantire la sostenibilità e l’umanità del nostro sistema sanitario. In sintesi, la lezione è che la salute si costruisce e si mantiene insieme, nel territorio, con la persona al centro”.
Quando parliamo del ‘benessere dei cittadini’, intendiamo una riduzione degli accessi impropri ai servizi di emergenza, una migliore gestione delle patologie croniche a domicilio, una maggiore consapevolezza e autonomia nella gestione della propria salute. Questo si traduce direttamente in una migliore qualità di vita per le persone e le loro famiglie, con meno ospedalizzazioni e più serenità. Per quanto riguarda la sostenibilità economica, un’assistenza territoriale robusta e proattiva, guidata dall’Infermiere di Famiglia e Comunità, consente di spostare l’asse della cura dall’ospedale al territorio, che è meno costoso e più appropriato per molte condizioni. Prevenire le complicanze, educare alla salute, monitorare a distanza, sono tutte azioni che, a lungo termine, riducono la necessità di interventi acuti e costosi. Inoltre, il rispetto del ruolo e lo sviluppo professionale degli infermieri in questo ambito portano a una maggiore motivazione e qualità delle cure, creando un circolo virtuoso che beneficia l’intero sistema.
Marina Vanzetta
20 giugno 2025