Oncologia, diario di tirocinio


Durante il periodo di tirocinio svolto presso il reparto di oncologia, ho avuto modo di confrontarmi con la malattia oncologica in tutte le sue manifestazioni, sia dal punto di vista clinico che umano. Le emozioni che mi hanno accompagnata in questo percorso sono state molteplici e intense: entrare in contatto quotidianamente con questa realtà mi ha posta di fronte a fragilità, sofferenza, ma anche a una sorprendente forza interiore da parte degli assistiti. Questa realtà mi ha permesso di comprendere a fondo il significato dell’assistenza infermieristica, l’importanza di una cura che vada oltre la dimensione pratica e tecnica delle procedure e che si radichi nella capacità di ascoltare profondamente, accogliere e accompagnare la persona in maniera personalizzata, tenendo conto quindi dei suoi bisogni unici.

Quando mi è stato proposto il reparto di oncologia, ho accolto con entusiasmo l’opportunità, in quanto desideravo fortemente fare esperienza in quest’ambito. Ero consapevole che si trattava di un ambiente complesso, soprattutto dal punto di vista relazionale ed emotivo, ma proprio per questo motivo ritenevo fosse un passaggio fondamentale per la mia formazione, in quanto mi avrebbe permesso di affrontare le difficoltà correlate alla cronicità, al fine vita e alla sofferenza.

Il timore iniziale era quello di non riuscire a trovare le parole giuste, di non riuscire a sostenere chi stava attraversando una delle fasi più delicate e difficili della propria vita. Uno degli aspetti più delicati che mi sono trovata ad affrontare è stato il tentativo di confortare i pazienti senza però cadere nell’errore di alimentare in loro false speranze: era necessario mantenere un equilibrio tra empatia e verità clinica. Ho percepito come sia sottile il confine tra l’illusione e il sostegno. Questa penso che sia una competenza fondamentale, soprattutto in tale contesto, è una capacità che richiede sensibilità, empatia, ascolto autentico e un’attenta modulazione delle parole. Ho compreso l’importanza della comunicazione non verbale e della presenza accanto alla persona che soffre, in tanti casi uno sguardo empatico e dolce, un sorriso o un tocco hanno avuto un impatto molto più profondo delle parole pronunciate. Ho imparato che un piccolo dettaglio può fare la differenza nel mondo del prendersi cura. Delle forti emozioni mi hanno quindi accompagnata in ogni attività svolta. Ho capito anche, in certe situazioni, l’importanza del mantenersi in silenzio: questo, infatti, rappresenta una forma di cura tanto rilevante quanto la parola. Di fronte alla consapevolezza del fine vita e la presenza di dolore, la comunicazione spesso risulta superflua e inessenziale; ho compreso quindi anche l’importanza di rimanere accanto alla persona in un silenzio che rispetti la sua condizione, ma che allo stesso tempo esprima vicinanza e rassicurazione. Il “non detto” così assume una valenza comunicativa, l’infermiere deve avere la capacità di percepire il dolore senza invaderlo. Era quindi necessario capire chi avessi davanti, capire ciò di cui aveva più bisogno la persona e poi comportarsi in base alle sue volontà.

Mi sono trovata ad affrontare la difficoltà dei familiari nello scegliere se lasciar morire il proprio caro in ambito ospedaliero, sotto quindi la sorveglianza attiva del personale sanitario, oppure di farla avvenire all’interno delle mura domestiche, in un ambiente più intimo. Alcuni assistiti desideravano rientrare a domicilio, contro la volontà dei parenti, che, al contrario, preferivano l’ospedale. Penso che preferissero quest’ambiente per avvertire più un senso di tranquillità, forse erano spinti dalla paura di non saper gestire la situazione o il dolore del proprio caro a domicilio. Alcune persone erano consapevoli di ciò che stava avvenendo, ho avvertito la lucidità con cui affrontavano la progressione inevitabile della patologia oncologica e la loro rassegnazione, alcuni speravano che la morte avvenisse nel più breve tempo possibile in quanto si concepivano come un peso nei confronti dei familiari. Vi era invece, al contrario, chi non riusciva ad accettare l’idea della morte: essi manifestavano resistenza, rifiuto, rabbia, chiusura emotiva nei confronti di ciò che è difficile da elaborare. In tal caso, da studentessa infermiera mi son resa conto dell’importanza di non obbligare la persona a giungere ad una fase di accettazione, non tutte le persone riescono ad accogliere ciò che avverrà in maniera irrimediabile. Ho compreso che se si cura una malattia c’è sia la possibilità di vincere che di perdere, mentre se si cura l’anima di una persona si vince sempre, a prescindere dall’esito del trattamento. Non tutte le persone ricoverate in reparto sono decedute: per alcune è stato solo un periodo prima di rientrare a domicilio o cambiare struttura e continuare con speranza le cure. Nonostante siano decedute molte persone, non mi è mai capitato di assistere al vero e proprio momento della morte e alla comunicazione al familiare dell’accaduto, ma non per questo ho avvertito meno a livello emotivo la vicenda. Ho assistito al respiro agonico che precede il decesso e ogni volta avevo la consapevolezza che al prossimo turno quel letto poteva essere vuoto o sostituito da un’altra persona; questa è stata una consapevolezza che non ha smesso mai di toccarmi e farmi riflettere.

Ho assistito a declini rapidi, giunti nel giro di poche ore, tanto da comunicare ai famigliari che ormai le condizioni erano scadute e che potevano rimanere con i loro cari h24. Ho visto la sofferenza intensa negli occhi dei familiari, un dolore spesso silenzioso, dovuto alla consapevolezza dell’imminente perdita, la sensazione di imponenza nei confronti di ciò che non puoi arrestare e controllare, le mille domande: “perché a lui/lei?”, la rabbia, il riaffiorare dei ricordi. Ho visto legami affettivi profondi e ben consolidati nel tempo spezzarsi a causa della malattia, evidenziando così la precarietà dell’esistenza nei confronti di un evento che, anche provandoci in tutti i modi, non può interrompersi. La persona e i familiari si sentono impotenti nei confronti di un male che non lascia alcun scampo. Ho visto la vita allontanarsi sempre di più, sfiorire, svanire. In questo contesto, la presenza dell’infermiere non è finalizzata al curare o al guarire, ma all’accompagnare, nel migliore dei modi possibili, per evitare che la persona soffra. Ho visto parenti avere paura del dolore che poteva percepire il loro caro e pregare gli operatori sanitari affinché egli non avvertisse dolore inutile. Particolare attenzione è stata quindi rivolta alla gestione del dolore e della sedazione palliativa, l’obiettivo è stato quello di tenere il dolore sotto controllo. A tale scopo ho preparato elastomeri: in questo modo veniva garantita la somministrazione della terapia antalgica in infusione continua mediante il mantenimento stabile dei livelli sierici per 24h; nonostante ciò, è capitato che alcune persone chiedessero degli extra, in quanto il dolore non risultava ancora controllato. Quando invece si riteneva necessaria la sedazione era necessario informare e trarre il consenso da parte dei famigliari. L’informazione era finalizzata a far comprendere che l’intento della sedazione era quello di garantire una morte priva di agonia, lo stato di coscienza della persona veniva gradualmente meno, permettendole così di lasciarsi andare in maniera serena, pacifica e libera da dolore.

Dal punto di vista della relazione, questa esperienza mi ha profondamente arricchita. Ho ascoltato con piacere le storie dei pazienti, i loro ricordi legati ai figli, ai posti del mondo visitati e ai momenti felici della loro vita. Ci sono state persone che erano soddisfatte di ciò che hanno vissuto e affermavano che ciò che avevano sperimentato nella loro vita era sufficiente per dire di aver vissuto una vita felice; mentre altri hanno manifestato la tristezza di non aver avuto abbastanza tempo per realizzare tutto ciò che avrebbero voluto. Ho percepito quindi che queste persone avevano ancora desideri incompiuti da esaudire; qui subentrava il rammarico e la consapevolezza di non poter avere più occasioni, sogni mai tradotti in realtà e destinati ad essere solo desideri astratti. Il tempo rimanente viene quindi percepito in maniera differente da persona a persona, chi lo vive nel rimpianto e chi invece lo affronta in maniera più serena e appagata, in ricordo di ciò che è stato.

Uno degli aspetti più toccanti è stato leggere sui giornali locali i nomi di pazienti che avevo assistito in reparto e che nel frattempo, non in mia presenza, erano venuti a mancare: erano persone amate e conosciute dalla comunità. Avevo la consapevolezza di aver fatto parte degli ultimi tratti della loro esistenza e di aver offerto loro assistenza, allo stesso tempo provavo un senso di gratitudine per aver potuto esserci, per aver potuto toccarli con mano e accompagnarli con dignità e rispetto fino alla fine dei loro giorni. Ricordo in particolare una giovane ragazza, non scorderò mai il suo sorriso dopo aver ricevuto un video dal suo cantante preferito in cui le diceva di avere forza e che sarebbe venuto a trovarla in reparto, visto che lei non poteva essere presente al concerto. Ricordo che a ogni operatore che entrava nella sua stanza mostrava quel video con fierezza. Purtroppo, dopo pochi giorni è venuta a mancare, la malattia era ormai diffusa ed inarrestabile, ma non la dimenticherò mai, sarò sempre grata di averla accompagnata.
Come detto in precedenza, ho accolto con gioia la proposta di fare esperienza in questo reparto, ciò in particolare per esaudire un mio desiderio, ovvero quello di imparare a gestire un paziente oncologico agli ultimi stadi e rendermi utile per queste persone, portandogli un sorriso. Volevo imparare a rapportarmi con un paziente la cui prognosi è ormai limitata e sostenere i familiari ad affrontare questo loro periodo difficile della vita. Per me prendermi cura di loro è stato come prendermi cura della mia mamma, deceduta troppo presto a causa di un cancro metastatico, è stato come recuperare il tempo in cui non ho potuto fare niente perché troppo piccola per gestire una situazione così grande. Ora sono più consapevole di quello che lei possa aver passato in quel periodo e di tutta la sofferenza che era presente ma che mi ha sempre nascosto per mantenere un ambiente sereno a casa e per tutelare la mia tranquillità.
Un avvenimento particolarmente toccante per me è stato veder ricoverata una donna, mamma di un bambino piccolo; lei fu ricoverata due volte in reparto, nel giro di qualche settimana. Durante il primo ricovero appariva ancora inconsapevole della gravità del suo quadro clinico, si muoveva autonomamente e i medici decisero di dimetterla per proseguire a casa le cure; dopo qualche settimana fu nuovamente ricoverata a causa del suo peggioramento clinico e si spense in reparto. In questa situazione ho rivissuto la mia esperienza, mi sono chiesta se quel bambino avrà la stessa fortuna che ho avuto io nell’avere una famiglia solida che lo accompagni nelle varie fasi della sua vita, garantendogli serenità e amore. Il mio pensierino andava anche a suo marito, vedendolo accanto alla moglie e costretto ad assistere, impotente, al lento spegnersi della sua amata; in questo contesto è come se avessi visto mio padre accanto a mia madre e tutta la mia famiglia che le era vicino giorno e notte in ospedale. “Mamma, ho parlato di te in reparto, alcune delle persone che mi hanno insegnato e accompagnata in questo percorso, ti hanno toccata con mano e ti hanno accompagnata fino alla fine per far sì che tu non soffrissi. Per me è stato un onore poter apprendere dalle persone che si sono prese cura di te“.

Questo tirocinio in oncologia ha rappresentato per me un’esperienza profondamente formativa, sia dal punto di vista pratico-procedurale che da quello umano. Mi sono sentita accolta, ascoltata e accompagnata da un team attento e sempre disponibile, che mi ha trasmesso calore e fiducia. Per la prima volta non mi sono mai sentita scoraggiata rispetto al percorso che ho deciso di intraprendere: nessun professionista mi ha detto che “non ne vale la pena” e che sono ancora in tempo per cambiare; ho respirato un senso autentico di dedizione nei confronti della professione che hanno scelto, ciò ha rafforzato in me la convinzione di aver intrapreso il percorso giusto per me. Ogni giorno ho avuto la conferma di essere nel posto giusto. Una volta varcata la porta del reparto, i miei pensieri personali si dissolvevano del tutto: i sorrisi, le storie di vita e il contatto umano colmavano ogni spazio, lasciando poco posto alle mie preoccupazioni quotidiane. Sono sempre tornata a casa con il cuore felice. Ciò che amo di questa professione è il legame autentico che si crea con le persone; ogni persona lascia qualcosa, una parola, un’espressione, un gesto che resta dentro per sempre e che spesso ritorna in mente. Certi incontri lasciano ricordi che non svaniranno mai. Stare a contatto con queste persone e sostenerle nel momento più fragile della loro vita per me rappresenta una cura reciproca, mentre li assisto e mi prendo cura di loro sento che, qualcosa dentro di me si ricompone, come se guarisse. Sento di aver ricevuto molto da chi, pur nel dolore, aveva ancora tanto da insegnare. I primi veri “insegnanti” in tale percorso sono stati i pazienti: è da loro che ho imparato ciò che nessun libro potrà mai insegnarmi.

10 giugno 2025

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Note

Con il contributo di Tamara Campanelli – Direttore del Corso di Laurea in Infermieristica – Matteo Cesaretti, Stefania Nicoletti, Franca Riminucci, Antonella Silvestrini, Davide Dini – Tutor del Corso di Laurea.