INTRODUZIONE
Secondo quanto riportato dai dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), il 39,9% della popolazione italiana è affetta da una patologia cronica e il 20,9% da due o più malattie, tra cui diabete mellito, ipertensione arteriosa, infarto acuto del miocardio, angina pectoris e altre alterazioni cardiovascolari, patologie dell’apparato respiratorio, muscolo-scheletrico e gastrointestinale. Nella fascia d’età tra i 55 e i 59 anni la cronicizzazione raggiunge il 51% mentre, tra le persone ultrasettantenni l’85,1%, con prevalenza femminile. La presenza di comorbilità si attesta intorno al 65,5% oltre il settantesimo anno d’età (ISTAT, 2022).
Un importante problema comune a molte patologie croniche è la frequente riammissione in ospedale tra cui si annovera l’ospedalizzazione a trenta giorni dalla dimissione per le persone affette da scompenso cardiaco congestizio, con una soglia che arriva al 13,46%, identificando come cause principali la riacutizzazione dei sintomi e il peggioramento del quadro clinico (AGENAS, 2021).
Le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano una quota significativa con il 18.8% per l’ipertensione e il 4.3% per le altre alterazioni a livello cardiaco (ISTAT, 2022), influenzando notevolmente la qualità di vita delle persone affette, attraverso sintomi debilitanti, come dispnea a riposo e da sforzo, fatigue, edemi declivi e aumento di peso, terapie numerose e complesse, prognosi sfavorevole e un alto rischio di sviluppare ansia e depressione. Spesso questa tipologia di pazienti tende a non essere consapevole del livello di gravità della malattia e dell’importanza di rivolgersi precocemente ai professionisti sanitari per rallentarne la progressione. Ciò può compromettere l’aderenza al trattamento farmacologico e il coping, ossia le strategie messe in atto dal singolo per affrontare e gestire le situazioni della vita (Asai et al., 2023).
Nella pianificazione dell’assistenza infermieristica risulta pertanto fondamentale focalizzare l’attenzione non solo sulla sintomatologia presente, ma anche sull’impatto che essa esercita sulle attività quotidiane della persona assistita.
Alla luce di ciò, la medicina narrativa può rappresentare un utile strumento per elaborare l’esperienza di malattia, spesso frammentata e non compresa completamente. Essa, infatti, rappresenta una modalità di approccio terapeutico che permette di riconoscere, assorbire, interpretare e lasciarsi trasportare emotivamente dalle storie vissute dal paziente. La tecnica del racconto contribuisce a far sì che l’individuo sviluppi parte della propria identità personale, attribuendo importanza alle sue esperienze di vita (Zaharias, 2018).
Essa racchiude in sé un insieme di elementi diversi dove i concetti di medicina, salute e malattia si uniscono; la narrazione diviene il mezzo per ricomporre il significato dell’esperienza vissuta dalla persona tenendo conto delle dimensioni fisica, mentale e sociale di cui parla la World Health Organization (WHO) nella sua costituzione. L’atto del narrare diventa utile per il malato nell’ordinare gli eventi e fornisce uno strumento adatto per indagare il vissuto altrui attraverso una rappresentazione culturalmente mediata e comprensibile (Morsello et al., 2017). In quest’ottica, il coinvolgimento attivo dei soggetti nel processo decisionale si dimostra essere un elemento fondamentale da perseguire nella pratica clinica (Corea et al., 2015).
La medicina narrativa è dunque una metodologia di intervento nel contesto assistenziale basata su una competenza comunicativa specifica. Risulta dunque di primaria importanza una buona formazione del personale sanitario per acquisire le skills necessarie al suo utilizzo (Morsello et al., 2017).
Le metodologie attraverso cui viene applicato l’approccio narrativo sono molteplici. Un primo esempio può essere dato dalle cosiddette “parallel charts”, un metodo di insegnamento introdotto nel 1993 dalla professoressa Rita Charon per gli studenti di medicina che si apprestava a formare. Esse consistono in cartelle cliniche parallele, dove accanto all’esame obiettivo, ai dati anamnestici e di laboratorio, vengono riportate le narrazioni degli operatori sanitari in relazione alla persona assistita, al vissuto di malattia, ai sentimenti che provano nei suoi confronti e ai ricordi e alle riflessioni stimolate dall’incontro con il malato. In questo modo, i tirocinanti diventano maggiormente consapevoli del loro stato emotivo e sono in grado di comprendere meglio la situazione che il paziente sta affrontando (Charon, 2006).
Un altro strumento simile alle parallel charts è la scrittura riflessiva, dove però l’autore del diario dell’esperienza di vita è la persona malata e non più il medico. Il professionista sanitario, leggendolo, è in grado di assumere un punto di vista oggettivo sul racconto del soggetto, riuscendo ad analizzarlo e a scoprire ulteriori significati, sconosciuti in un primo momento durante l’intervista iniziale (Calabrese et al., 2022).
Una modalità che include le esposizioni narrative sia degli assistiti che dei curanti è lo story sharing intervention, in cui si alternano i racconti di entrambe le parti, creando uno scambio comunicativo reciproco, capace di favorire un’uscita dai ruoli standard di gerarchia tra operatore e paziente e di migliorare il legame terapeutico (Calabrese et al., 2022).
Un ulteriore approccio può essere l’intervista narrativa, che consiste in una serie di domande poste dall’intervistatore che hanno lo scopo di interpretare e comprendere gli eventi raccontati dalla persona. Non serve per generalizzare i risultati o estenderli ad altre situazioni cliniche, ma permette un’analisi specifica per un determinato contesto. Spesso è libera, ovvero si lascia che sia l’intervistato a guidarla e a raccontare la sua storia nel modo che più preferisce. Ha una durata di circa un’ora e richiede ascolto e partecipazione attiva da parte dell’operatore (Artioli et al., 2020).
Anche lo storytelling rappresenta un elemento fondamentale all’interno della medicina narrativa. La narrazione di un’esperienza di vita ha un forte impatto emotivo perché, nel momento in cui si ascolta un racconto, si sospendono i giudizi e si stimola l’attenzione verso atteggiamenti e convinzioni diverse dalle proprie. Si entra nel mondo di un’altra persona, che, mostrando la sfera più intima della sua esistenza, mette in evidenza tutta la sua vulnerabilità. Si viene a stabilire, in questo modo, una connessione tra il narratore e l’ascoltatore, che ha il potere di far sviluppare le capacità empatiche del professionista sanitario e di costruire una relazione di cura basata sulla fiducia. La persona assistita, inoltre, percepisce meno la solitudine a cui una condizione di malattia la può esporre; si riconosce come protagonista della storia e si sente coinvolta attivamente nel processo di assistenza (Heiss et al., 2020).
Negli ultimi anni, con l’avvento dell’innovazione in campo tecnologico, i supporti multimediali hanno rimodulato i metodi convenzionali di comunicazione. Si può parlare, così, di digital storytelling, dove l’esperienza raccontata a voce si arricchisce di nuovi elementi attraverso la creazione di un video della durata di qualche minuto, che comprende foto, voci, musica e disegni e rende la narrazione più interattiva e valorizzata da nuovi contenuti (Rieger et al., 2018).
OBIETTIVO
L’obiettivo di questa revisione della letteratura è quello di approfondire i benefici dell’approccio narrativo, a supporto degli interventi tradizionali, nell’assistenza alle persone affette da patologie cardiache.
METODI
La domanda di ricerca è stata costruita secondo il modello PIO
– P (population) = persone affette da malattie cardiache;
– I (intervention) = medicina narrativa;
– O (outcome) = benefici.
La stessa può essere formulata come segue: “Quali possono essere i vantaggi di un approccio basato sulla narrazione nei confronti dei pazienti che vivono con una patologia cardiaca cronica invalidante?”.
In seguito, sono state identificate le parole chiave da inserire nelle banche dati, combinate con gli operatori booleani OR e AND:
– Heart failure or cardiac failure or chronic heart failure or congestive heart failure per la popolazione.
– Narrative medicine or narrative therapy or narrative theory or narrative approach or narrative based intervention per l’intervento.
– Psychological effects or psychological impact or benefits per il risultato.
Successivamente, sono stati selezionati sette articoli con filtro temporale degli ultimi dieci anni provenienti da PubMed e Cinahl, al fine di redigere una literature review.
Tali studi provengono da diverse parti del mondo, tra cui Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina, per poter ampliare lo sguardo inglobando anche realtà lontane dalla nostra. L’analisi è stata ristretta agli articoli pubblicati negli ultimi dieci anni, sia perché la medicina narrativa è una disciplina relativamente nuova che è stata introdotta di recente nella pratica clinica, sia per fornire risultati scientifici rigorosi che stessero al passo con l’innovazione in campo clinico (Figura 1).
Figura 1 – Flow chart di selezione degli studi.
RISULTATI
Un’assistenza infermieristica personalizzata in base alle caratteristiche del paziente rappresenta un ottimo strumento per aiutare la persona a gestire la malattia, come dimostrato da Yang et al. (2023), in una revisione sistematica e meta-analisi sul nursing in ambito cardiologico. In questo studio, i ricercatori hanno selezionato 14 RCT provenienti dai database di ricerca principali (PubMed, Embase, Cochrane library e Web of Science), per un totale di 1562 pazienti con diagnosi di malattia cardiovascolare, in un periodo compreso tra il 2011 e il 2021. I gruppi di intervento sono stati sottoposti a un tipo di assistenza infermieristica mirata alle caratteristiche della persona, con una durata minima di 10 settimane, fino a un massimo di un anno. Rispetto alle cure tradizionali, ci si è focalizzati maggiormente sulle attività di counseling, di supporto psicologico e di ascolto attivo del vissuto di malattia dei pazienti, oltre che sull’educazione sanitaria, sulla mobilizzazione attiva della persona e sui consigli inerenti al regime dietetico da seguire. In una delle ricerche incluse nello studio, la strategia d’azione consisteva nel coinvolgere diversi professionisti sanitari specializzati in discipline specifiche, con lo scopo di stilare un programma terapeutico il più completo possibile. Un’altra metodologia utilizzata è stata quella di istruire i pazienti su una serie di esercizi fisici da eseguire al domicilio; in un altro gruppo, invece, la telemedicina è stata la via privilegiata per comunicare con la persona e seguirla in seguito alla dimissione dall’ospedale. Ogni esperienza considerata ha cercato di adeguare il piano di trattamento alle esigenze del singolo, raggiungendo ottimi risultati dal punto di vista clinico (Yang et al., 2023).
Attraverso un’analisi statistica dei dati e l’utilizzo di scale di valutazione specifiche (SF-36, SF-12, e WHOQOL-BREF.), è stato evidenziato come la qualità di vita dei pazienti sottoposti all’intervento sia migliorata notevolmente, sia a livello cognitivo, che dal punto di vista del benessere mentale. Per valutare la qualità di vita, le aree di maggior interesse che sono state esaminate sono le seguenti: attività fisica, relazioni sociali, stato psicologico, dolore, energia, stanchezza e condizioni generali di salute. La comunicazione continua con gli assistiti e un follow up rigoroso hanno permesso agli infermieri di ridurre il carico emotivo della malattia, alleviare la sofferenza e far ritrovare ai pazienti la fiducia in loro stessi (Yang et al., 2023).
In un secondo studio, Testa et al. (2020) hanno voluto esplorare il peso sociale ed emotivo dello scompenso cardiaco cronico, integrando le prospettive del paziente, del caregiver e del medico curante. La ricerca è stata condotta nel 2018, con una durata di sei mesi per la sperimentazione. Lo snowballing è stato utilizzato come criterio di campionamento non probabilistico; infatti, sono stati invitati, su base volontaria, alcuni cardiologici appartenenti a diverse cliniche del nord Italia, esortati a loro volta a chiedere la partecipazione dei propri pazienti, i quali, in seguito, hanno coinvolto i rispettivi caregivers, per un totale di 247 soggetti. Come strumento narrativo è stata utilizzata, per i medici, una parallel chart semi-strutturata, che ricalca il modello introdotto da Rita Charon; per le persone assistite e per i caregivers, invece, è stata utilizzata la scrittura riflessiva, riportata su un apposito portale online. Ai partecipanti è stato chiesto di raccontare, in modo anonimo, l’esperienza di malattia attraverso metafore e parole evocative, indagando le conseguenze sul piano sociale, gli aspetti emotivi, la percezione della propria condizione di vita, la consapevolezza della gravità della situazione, le relazioni con la famiglia e i professionisti sanitari e l’aderenza alla terapia farmacologica. La maggior parte dei pazienti erano uomini ultrasessantacinquenni pensionati (75% del campione); i caregivers, invece, erano prevalentemente donne, soprattutto mogli e figlie lavoratrici, che rappresentavano la maggioranza con l’82% (Testa et al., 2020).
Analizzando i risultati, è emerso come ciascuna delle parti incluse nello studio percepisca in modo differente gli effetti della patologia. Le persone affette da scompenso cardiaco, nelle proprie narrazioni, si concentrano sui limiti con i quali la malattia ha modificato irreversibilmente le loro attività quotidiane. Emergono parole ricorrenti come “fatica” e “stanchezza”, in relazione a tutte quelle azioni che non si è più in grado di compiere. Si parla, soprattutto, di illness, con tristezza e rabbia come emozioni prevalenti e di scarsa consapevolezza e sottostima della sintomatologia prima della diagnosi. È interessante notare come la relazione con i professionisti della salute sia considerata in maniera positiva e come il peso delle numerose terapie da assumere quotidianamente (in media circa otto compresse sette volte al giorno) non sia percepito come eccessivamente gravoso (Testa et al., 2020).
Per coloro che si prendono cura dei pazienti quotidianamente, invece, la paura per la morte dei propri cari rimane la tematica più presente. La natura maligna della malattia viene considerata maggiormente rispetto alle limitazioni, ed emerge con forza il peso dell’assistenza al malato, di circa otto ore al giorno, che rende difficile lavorare e occuparsi dei propri impegni. Dal canto loro, i medici percepiscono la patologia come una “sfida” da combattere e sono pervasi da un maggiore ottimismo al momento della diagnosi. Anch’essi, come i caregivers e i pazienti, riferiscono una relazione terapeutica di fiducia che prevede collaborazione da entrambe le parti. Tuttavia, sono maggiormente consapevoli della progressione inevitabile della malattia e della sintomatologia debilitante (Testa et al., 2020).
Il tipo di approccio utilizzato è sicuramente innovativo, perché pone a confronto tre punti di vista diversi, senza privilegiarne uno in particolare, evidenziando tematiche comuni e divergenze emerse. Si conferma come vivere con una patologia di tale portata abbia effetti rilevanti sulla illness e come la medicina narrativa sia uno strumento efficace per dare voce ai pazienti, comprendere meglio il loro vissuto per fornire un luogo figurato dove potersi esprimere. I dati raccolti confermano quanto riportato nell’introduzione, ovvero che le persone anziane sono i soggetti maggiormente colpiti dalla patologia. In questo studio, inoltre, emerge il ruolo chiave del caregiver, figura fondamentale all’interno del percorso terapeutico, in grado di sostenere attivamente la persona. Ovviamente, bisogna tener conto del fatto che le narrazioni raccolte sono soggettive e, di conseguenza, esposte a possibili bias interpretativi; così come, del resto, occorre ribadire che il campione intervistato, seppur considerevole, rappresenta una piccola parte della popolazione affetta da scompenso cardiaco.
Il successivo studio selezionato consiste in un RCT condotto nel 2015 a Hong Kong, che mira ad ottenere un miglioramento sul decision making – processo attraverso cui la mente è in grado di discernere l’opzione migliore, sulla base delle conoscenze, dei processi cognitivi e delle emozioni (Lerner et al., 2015) – e sul self-care nei pazienti sopravvissuti a un infarto acuto del miocardio. Il gruppo sperimentale, composto da 304 persone randomizzate, è stato sottoposto a un intervento narrativo psico-educazionale di otto settimane gestito da infermieri. Attraverso cinque lezioni, della durata di circa due ore ciascuna, sono state fornite nozioni teoriche sulle caratteristiche del processo decisionale, sul riconoscimento dei sintomi, sulla risposta emozionale all’evento acuto e sulle barriere più comuni che intralciano le scelte sulla propria salute. Sono stati creati scenari interattivi in cui veniva chiesto ai partecipanti di scegliere l’opzione migliore sulla base delle loro conoscenze. Sono stati invitati altri pazienti per fornire, attraverso dei video, una testimonianza reale della loro esperienza in un processo di peer education – approccio educativo in cui persone della stessa età o dello stesso livello sociale si scambiano informazioni sulla salute per aumentare le proprie conoscenze (Dodd et al., 2022) – e, infine, è stata fatta un’ultima simulazione per valutare quanto appreso. Il gruppo di controllo di 304 partecipanti, invece, ha seguito un percorso pedagogico tradizionale di quattro settimane, incentrato su lezioni frontali prive di un approccio narrativo e interattivo (Li et al., 2022).
Elaborando i risultati tramite alcune tipologie di scale Likert e un’analisi di tipo statistico, si evince che entrambi i gruppi (con età media di 67 anni e il 77,1% di uomini) hanno acquisito maggiori conoscenze sulle peculiarità dell’infarto acuto del miocardio, ma che solo il gruppo di intervento ha subìto una crescita notevole nella capacità di prendere decisioni per la propria salute. I partecipanti, infatti, hanno dimostrato di aver raggiunto un’abilità ottimale nel gestire situazioni complesse, nel riconoscere e comprendere le possibili reazioni emotive e nel comportarsi in modo più adeguato di fronte a una situazione simile (Li et al., 2022).
Diversamente dall’articolo di Testa et al. (2020), in questo studio l’obiettivo principale non era quello di condividere un’esperienza vissuta da parte dei partecipanti, ma di produrre un cambiamento tangibile nel loro comportamento, per ridurre il tasso di recidive a cui le persone affette da patologie cardiovascolari sono particolarmente predisposte. È per questo motivo che è stato scelto un disegno sperimentale di tipo quantitativo e sono stati inclusi nella ricerca solo i pazienti e non i caregivers o i medici. Un’altra differenza si può riscontare nella metodologia che, in primo luogo, ha visto affermarsi gli infermieri come attori principali all’interno del processo educativo e, successivamente, ha proposto diverse sessioni di lavoro più rigidamente strutturate con obiettivi più chiari, rispetto alle narrazioni analizzate nello studio precedente. La ricerca di Li et al. (2022) ha mostrato i benefici della medicina narrativa nel processo di decision making e sul self-care, ampliando l’interattività con i pazienti e verificando gradualmente i progressi fatti su un campione più ampio. Nello studio, tuttavia, non è stato eseguito un follow up pertanto, non si può sapere con certezza se ci sono state recidive o meno. Inoltre, l’autovalutazione tramite la scala Likert da parte degli individui non è del tutto oggettiva come parametro di valutazione. L’obiettivo nel breve termine però è stato raggiunto e l’intervento narrativo ha mostrato le sue potenzialità.
Tra gli studi selezionati vi è inoltre un case report americano del 2019, che indaga l’identità e la qualità di vita delle persone a cui è stato impiantato un Ventricular Assist Device (VAD). Attraverso alcuni colloqui organizzati dall’equipe di cura (composta da medici, infermieri ed esperti del VAD), ai pazienti è stato chiesto di raccontare la propria storia, focalizzandosi sul supporto ricevuto, sugli appigli da cui hanno tratto forza, sulle limitazioni, sulle attività svolte, sulla speranza e sul futuro. Sono stati selezionati tre pazienti, di cui vengono riportate le narrazioni (Slocum et al., 2019).
La prima vicenda ha per protagonista un contadino di 76 anni, a cui lo scompenso cardiaco in fase terminale aveva impedito di continuare a portare a termine il proprio lavoro nella fattoria di famiglia. Dopo essersi ripreso in seguito all’impianto del dispositivo grazie al sostegno familiare e del team multidisciplinare, l’uomo ha potuto riprendere le attività all’aria aperta che tanto amava (Slocum et al., 2019).
In secondo luogo, è stata raccontata la vicenda di un uomo di 56 anni in shock cardiogeno sottoposto a Extra Corporeal Membrane Oxygenation (ECMO), la cui unica possibilità di sopravvivenza era rappresentata dal VAD. Dopo numerosi interventi chirurgici, una tracheostomia, la dialisi, la nutrizione enterale, l’insufficienza epatica e plurimi sanguinamenti gastrointestinali, sempre vissuti con grande determinazione da parte del paziente, l’uomo era stato dimesso dall’ospedale e le sedute di medicina narrativa lo avevano aiutato a riprendersi da quanto accaduto e a dargli una forza ulteriore per reagire alla situazione (Slocum et al., 2019).
Infine, è stata narrata l’esperienza di un uomo di 66 anni, che aveva accettato con ansia e difficoltà il supporto ventricolare e che, dopo l’intervento, aveva avuto un episodio di confusione e aggressività in reparto, placato mediante l’utilizzo di contenzioni fisiche. Il trauma al risveglio lo aveva condotto in una spirale depressiva, caratterizzata da insonnia, incubi e isolamento dalla realtà quotidiana, anche dopo il rientro al domicilio. L’approccio narrativo gli ha permesso di ricostruire la trama degli eventi, riprendere il ruolo di protagonista della propria storia e supportarlo nel recupero (Slocum et al., 2019).
Questo studio, con un approccio molto simile a quello di Testa et al. (2020), indaga il vissuto dell’esperienza di malattia. Benché vanti meno rigore scientifico, sia per estensione ridotta del campione che per tipologia di studio, il ruolo chiave della ricerca resta la capacità di raccontare le storie di persone ben definite, esplorando in maggiore profondità gli avvenimenti della loro vita. Mentre Testa et al. (2020) si concentrano primariamente sul passato dei partecipanti, analizzando il cambiamento avvenuto subito dopo la diagnosi e generalizzando i risultati della popolazione studiata, Slocum et al. (2019) fanno un passo ulteriore e descrivono il passaggio tra la condizione immediatamente precedente all’impianto del VAD e il cambiamento nel coping che la medicina narrativa ha permesso. Si tratta di un cambiamento di condotta per certi versi simile a quello che è stato introdotto da Li et al. (2022), i quali si concentrano sulla capacità di rispondere alla situazione e mettono in luce le differenti personalità dei pazienti. Nello studio sul VAD, inoltre, viene posto in evidenza l’aspetto dell’identità, non incluso negli studi precedenti, e il modo attraverso cui la malattia influisce sulla percezione di sé e dell’immagine corporea. Raccontare la propria storia permette di addentrarsi nella conoscenza di sé stessi e compiere un passo verso l’accettazione delle modifiche fisiche e mentali che la patologia ha apportato.
Come si è potuto analizzare finora, la dimensione psicologica è fortemente influenzata dalla malattia e, nel caso dei pazienti cardiopatici, il dolore, l’ansia e la depressione sono componenti da non sottovalutare all’interno del percorso di cura terapeutico. Uno studio qualitativo cinese del 2020 (Chow, Fok) si è occupato di approfondire la tematica del dolore nelle persone affette da un disturbo cronico. Trenta partecipanti ultrasessantenni, con una diagnosi di dolore cronico della durata di almeno tre mesi e l’assenza di concomitanti malattie psichiatriche, sono stati invitati a partecipare all’esperimento insieme ai rispettivi caregivers. L’intervento è stato articolato in sei sessioni da due ore ciascuna, in cui i soggetti hanno condiviso la propria esperienza di malattia, facendo uso di metafore evocative. In particolare, la metafora principale adoperata come filo guida del percorso narrativo è stata la cosiddetta “spiritual seasoning of life”, in cui l’esperienza di ogni persona rappresenta l’unità base principale della sua vita, costituita da un insieme di viaggi, mappe e storie. Utilizzare simboli e immagini serve per poter descrivere il proprio vissuto da un luogo sicuro, lontano dai problemi della realtà quotidiana. Questo tipo di metafora è strettamente connesso alla cultura orientale, dove condividere un pasto insieme ad altre persone è all’ordine del giorno e ogni gusto viene associato a una sensazione ben precisa. In questo modo il dolce si trasforma in piacevolezza, l’aspro in miseria, l’amaro in spiacevolezza e il piccante in difficoltà.
I terapisti che hanno guidato il gruppo d’intervento, ricercatori specializzati in medicina narrativa, hanno permesso agli individui di riconoscere i propri problemi, osservarli da un punto di vista oggettivo e trovare soluzioni per risolverli. Ai partecipanti, inoltre, è stato chiesto di immaginare una storia alternativa rispetto alla propria, per sviluppare e arricchire le conoscenze acquisite durante la sessione. Infatti, attraverso questa metodologia, la creatività funge da mediatrice tra le concezioni personali del singolo e la nuova prospettiva valoriale raggiunta attraverso l’approccio narrativo. Ogni sessione si è occupata di un tema specifico: nella prima, ogni partecipante ha raccontato la propria storia; nella seconda, il dolore è stato associato a un gusto e a una sensazione specifica; nella terza, i ricercatori hanno intervistato ogni partecipante per creare il racconto alternativo; nella quarta, le persone hanno ricordato situazioni del loro passato in cui dalla sofferenza sono riuscite a trarre nuovi insegnamenti e valori; nella quinta, i soggetti hanno disegnato la loro personale visione della metafora “spiritual seasoning of life; nella sesta, infine, ognuno ha scritto una lettera conclusiva in cui ha riportato gli insegnamenti e le conoscenze apprese durante il percorso (Chow e Fok, 2020).
Per quanto riguarda i risultati, sono state identificate tre tematiche principali emerse durante gli incontri: la riscoperta delle qualità e capacità personali, la costruzione di una nuova identità e la fusione tra le metafore alimentari e la vita di tutti i giorni. Tutti i partecipanti hanno riferito che l’intervento ha permesso loro di indebolire l’influenza che il dolore aveva sulle loro vite e di diventare più forti, rinnovando i propri valori e credenze ed aumentando la consapevolezza nella gestione della sofferenza. Attraverso questo processo di empowerment ogni persona è stata in grado di costruire una nuova visione di sé stessa e delle proprie abilità, non lasciandosi più controllare dal tormento precedente. Il lavoro di gruppo è stato fondamentale per raggiungere questi obiettivi. Solo condividendo la propria esperienza e aiutandosi a vicenda, i partecipanti sono stati in grado di accettare il dolore e trovare un modo per affrontarlo, ciascuno mediante la sua personale concezione del mondo (Chow e Fok, 2020).
Con un intervento innovativo, Chow e Fok (2020) hanno ampliato le potenzialità del gruppo come ambiente fondamentale per influenzare ed essere influenzati dalle storie di vita di persone che stanno affrontando la nostra stessa situazione, approccio simile alla peer education di Li et al. (2022). Rispetto allo studio di Slocum et al. (2019), in cui le sessioni di medicina narrativa venivano applicate singolarmente, in questa ricerca emerge il ruolo chiave della condivisione con altri, in cui si trae forza da un’esperienza comune e si condividono i pensieri e le difficoltà quotidiane, non solo con i ricercatori, ma anche con chi si riconosce nelle nostre stesse fatiche. Un’altra differenza riguarda l’analisi dei dati. Mentre Slocum et al. (2019) raccontano nel dettaglio la vita di ognuno dei soggetti partecipanti mettendo in luce la personalità del singolo e la sua visione unica e personale, Chow e Fok (2020) indagano sui filoni tematici che accomunano l’esperienza narrativa collettiva.
Un aspetto che accomuna quest’ultimo studio e quello di Slocum et al. (2019) riguarda l’argomento dell’identità. Nella ricerca condotta sulle persone portatrici di VAD, ci si concentra principalmente sull’immagine corporea modificata dal dispositivo, dal momento che l’identità viene intesa come un connubio tra l’aspetto fisico e il modo in cui esso influisce sulla percezione mentale di sé stessi. Chow e Fok (2020), invece, considerano un altro aspetto identitario, focalizzando l’attenzione sul dolore e sul modo attraverso cui esso predomina sulla concezione di sé, trasfigurando lo sguardo con cui le persone affette da un disturbo cronico si affacciano alla vita. Si tratta di due prospettive che, pur in maniera diversa, mostrano la complessità dell’essere umano e mettono in evidenza quanto la malattia influisca sulla vita di tutti i giorni, non solo sulle attività, ma soprattutto su noi stessi.
Le persone affette da malattie cardiache soffrono, spesso, di numerose patologie concomitanti. Uno studio fenomenologico scozzese del 2022 si è occupato dell’analisi degli effetti dello storytelling sui pazienti con multimorbidità. Attraverso l’utilizzo di tre cicli di interviste semi-strutturate, i partecipanti hanno collaborato in modo individuale con i ricercatori, al fine di creare un prodotto digitale che riflettesse la condizione di salute di ciascuno di loro. Sono stati selezionati cinque pazienti che partecipavano allo stesso gruppo di supporto per persone pluri-patologiche, invitandoli a consultare una pagina online con le informazioni sul progetto. Il campione comprendeva un range di età tra i 31 e i 53 anni. L’intervento narrativo consisteva in un percorso di co-creazione, in cui il ricercatore metteva a disposizione strumenti digitali che i soggetti potevano scegliere per realizzare una visione personale della condizione di malattia.
Durante un periodo di due mesi ciascun partecipante è stato intervistato tre volte. Nel primo incontro, le persone affette da multimorbidità hanno raccontato il proprio vissuto e hanno scelto e fotografato una serie di oggetti che rappresentassero al meglio il significato del racconto. Durante il secondo colloquio il ricercatore ha mostrato alcune immagini che aveva elaborato graficamente sulla base delle parole del partecipante, per controllare di aver interpretato la narrazione correttamente. Nell’ultima parte dello studio, è stato ultimato un prototipo di storytelling digitale che rispecchiasse nel miglior modo possibile la concezione di salute del paziente. Al termine di ogni sessione, i ricercatori scrivevano un resoconto di quanto fatto e lo proponevano alla persona, in modo da identificare eventuali errori di interpretazione. Ciascun partecipante ha elaborato in maniera diversa la propria storia, dando origine a contenuti originali e caratteristici, sempre mantenendo uno pseudonimo per garantire la privacy (Cummings et al., 2022).
Al termine dell’intervento narrativo, i ricercatori, gli amici e i familiari dei pazienti hanno potuto visualizzare i risultati del progetto. Lo storytelling in versione digitale ha aiutato i partecipanti a ricordare quello che è successo loro e a celebrare le piccole vittorie della vita quotidiana, tenendo conto delle emozioni positive e negative. Sono state potenziate le abilità di self-management per comprendere come il comportamento possa influenzare la salute e il processo di decision making, trovando una modalità alternativa per scegliere le opzioni terapeutiche più adeguate. Tutti i partecipanti hanno riferito di aver trovato molto utile lo strumento narrativo, perché prima dell’intervento non erano stati in grado di parlare facilmente della propria sofferenza e condividere i loro sentimenti. Lo storytelling è stato particolarmente efficace per facilitare le interviste con i ricercatori ed osservare con un distacco oggettivo la propria condizione di malattia, permettendo ai pazienti di comunicare informazioni su loro stessi senza un confronto diretto con i parenti o gli amici. Questa metodologia, inoltre, ha influito positivamente sulla comunicazione, promuovendo il valore della continuità delle cure. Le storie di vita dei partecipanti hanno rivelato dettagli fondamentali sulle loro condizioni di salute, informazioni che, nella maggior parte dei casi, rimangono taciute ai professionisti sanitari e che meriterebbero, invece, un ulteriore approfondimento (Cummings et al., 2022).
In questo studio viene data grande importanza alla storia personale e individuale di ogni persona. Come era stato fatto da Slocum et al. (2019) nei confronti dei pazienti portatori di VAD, allo stesso modo Cummings et al. (2022) si sono concentrati su storie singole di pazienti ben precisi, raccogliendo un campione meno numeroso, ma più specifico. Viene indicato il nome di ciascuna persona coinvolta e, pur mantenendo l’anonimato tramite uno pseudonimo, si cerca di creare una connessione emotiva più diretta con le storie dei pazienti. Diversamente dalle ricerche precedenti che prevedevano un’esperienza di gruppo, in questo caso le interviste vengono condotte singolarmente e in modo differente per ciascuno. Si tratta dunque di una metodologia che privilegia una pluralità di punti di vista, e che cerca di renderli graficamente in un progetto concreto, in grado di proseguire nel tempo senza concludersi con la fine della sperimentazione.
L’ultimo studio che è stato selezionato in letteratura è una revisione sistematica italiana del 2020, sempre inerente al tema della multimorbidità. In questo studio, l’obiettivo principale è stato quello di analizzare gli effetti della medicina narrativa sulla illness di pazienti affetti da patologie diverse, e sul sostegno dei relativi caregivers. Dopo aver vagliato cinque database di ricerca, i ricercatori hanno selezionato 10 studi, con criterio temporale a partire dal 1988. Sono stati presi in considerazione 1021 partecipanti (971 adulti e 50 bambini), 5 studi esplorativi, un case study, un RCT, una ricerca azione, uno studio osservazionale retrospettivo e una ricerca mix method (Fioretti et al., 2016).
Questa revisione sistematica ha cercato di raccogliere più vantaggi possibili derivabili dall’uso di una metodologia basata sulla narrazione. Essa ha mostrato effetti positivi sul dolore cronico, come nello studio condotto da Chow e Fok (2020). Ha incluso anche la prospettiva dei caregivers, riprendendo l’analisi di Testa et al. (2020). Come Li et al. (2022), ha illustrato le modifiche nel self-care e nel decision making, mostrando benefici concreti sul benessere fisico e psicologico dei partecipanti. È inoltre emerso il vissuto della persona in ogni sua sfaccettatura, attraverso un’analisi approfondita delle aspettative e delle difficoltà incontrate durante il percorso terapeutico, con un punto di vista simile a quello sfruttato da Slocum et al. (2019). Infine, uno degli strumenti maggiormente utilizzati è stato quello dello storytelling digitale, ampiamente impiegato anche nello studio di Cummings et al. (2022). Raccontare la propria storia permette ai pazienti di raggiungere un nuovo livello di consapevolezza, rendendoli i veri e propri protagonisti del racconto. Dopotutto, non bisogna negare la malattia, ma accettarla e imparare a conviverci, privandola del potere di definirci e riscoprendo noi stessi e le nostre capacità.
CONCLUSIONI
Ciascuno degli articoli analizzati ha contribuito, in modo diverso, a rispondere al quesito di ricerca. È stato dimostrato come la medicina narrativa offra benefici concreti per le persone affette da malattie croniche. Attraverso una pluralità di metodologie differenti, l’approccio narrativo ha ampliato il concetto tradizionale di assistenza, permettendo agli infermieri di stabilire un rapporto di fiducia con le persone assistite e di agire nello specifico anche sul versante psicologico di chi soffre di una patologia che lo accompagnerà per il resto della vita. Infatti, ha integrato la prospettiva sia degli assistiti che di coloro che li assistono, evidenziando come il peso di una patologia cronica gravi sull’intera famiglia e sul sistema sanitario in modo differente, come riportato dallo studio di Testa et al. (2020).
Oltre a dar voce alla sofferenza degli individui, l’intervento narrativo ha permesso di operare un cambiamento tangibile nel processo di decision making e nel self care, evidenziando le sue potenzialità nell’educazione sanitaria al paziente e divenendo una metodologia importante per fornire nuove conoscenze sanitarie alle persone assistite. La medicina narrativa possiede un effetto benefico anche sulla capacità di coping, incentivando il paziente a sfruttare le proprie risorse per affrontare la situazione e adattarsi ai cambiamenti a cui va incontro, come nel caso dei pazienti portatori di VAD, per i quali imparare a convivere con un dispositivo estraneo a sé risulta fondamentale.
Anche nel contesto della multimorbidità, in cui l’individuo si trova a dover fronteggiare più di una malattia contemporaneamente, la medicina narrativa offre la possibilità di migliorare le abilità comunicative con i familiari e con l’equipe di cura, favorendo una relazione di fiducia finalizzata al benessere fisico e psicologico della persona e di coloro che si occupano della sua assistenza.
Resta doveroso menzionare quali possono essere i limiti intrinseci a ogni studio che sono emersi durante il lavoro di ricerca, e quali prospettive, invece, potranno essere esplorate in futuro sull’argomento.
Alcuni strumenti narrativi utilizzati sono molto complessi da gestire e possono essere difficili da applicare in un contesto caotico come quello della routine ospedaliera, come ad esempio l’intervento psico-educazionale rivolto ai pazienti sopravvissuti a infarto acuto del miocardio. Il follow up, in aggiunta, comporta un periodo di tempo ben definito, che spesso, però, viene ridotto a causa di questioni organizzative su come è stata concepita la ricerca, e impedisce di valutare gli effetti sul lungo termine di quanto è stato fatto. Oltre a ciò, non sempre è presente un gruppo di controllo da porre in confronto a quello sperimentale (Li et al., 2022).
Alcune ricerche sono state condotte in ambienti culturali ben specifici e i risultati riguardano un campione della popolazione con caratteristiche precise, non potendo essere estesi ad altre situazioni differenti. Gli interventi sanitari basati sulla narrazione restano ancora poco conosciuti e meritano una diffusione maggiore, non solo nei confronti delle persone affette da malattie cardiovascolari, ma anche riguardo a ogni altra tipologia di paziente. In futuro, sarebbe utile indagare con più precisione le caratteristiche proprie di ogni malattia, sia a livello fisico che psicologico, perché ogni patologia possiede peculiarità uniche che influenzano la qualità di vita delle persone affette. Gli interventi narrativi considerati, inoltre, sono esperienze estremamente diversificate tra loro e richiedono un ulteriore approfondimento per raggiungere protocolli condivisi e standardizzati all’interno della disciplina (Fioretti et al., 2016).
Lo storytelling è stato uno strumento ampiamente utilizzato ed efficace per comprendere al meglio la storia di malattia della persona. Le ricerche future che andranno ad esaminare le potenzialità di tale metodologia dovrebbero focalizzarsi sull’utilizzo collaborativo dello storytelling nella co-creazione della narrazione, sui requisiti dei diversi gruppi di pazienti in cui utilizzarlo e sulle prospettive professionali atte a metterlo in pratica. Sarebbe interessante concentrarsi anche sui punti di vista dei caregivers e dei professionisti della salute inclusi nel progetto, per ampliare i benefici narrativi su un campione sempre più vasto ed eterogeneo (Cummings et al., 2022).
Per quanto concerne la figura infermieristica, l’importanza della relazione di cura emerge nell’articolo 4 del Codice Deontologico, mostrando l’importanza del tempo trascorso con la persona. Inoltre, nell’articolo 2 che recita “l’Infermiere orienta il suo agire al bene della persona, della famiglia e della collettività. Le sue azioni si realizzano e si sviluppano nell’ambito della pratica clinica, dell’organizzazione, dell’educazione e della ricerca” (FNOPI, 2019), si evidenzia il ruolo dell’infermiere in qualità di agente morale, responsabile del bene della persona, del rispetto delle credenze dell’assistito e della protezione della sua dignità in quanto essere umano. Le competenze relazionali all’interno del rapporto terapeutico, con un focus d’attenzione specifico sulla sfera psicologica del malato, rappresentano perciò un elemento essenziale da perseguire nella pratica clinica di tutti i giorni.
La medicina narrativa permette di esplorare nel profondo la dimensione psichica della persona e può essere utilizzata in più contesti, non solo all’interno del reparto ospedaliero. Essa incentiva la continuità delle cure e il follow up terapeutico, dal momento che si occupa di un vero e proprio percorso di vita, adatto a molteplici tipologie di paziente. Gli studi che verranno intrapresi in futuro dovrebbero tener conto della rilevanza delle conoscenze e competenze dell’infermiere, fondamentali per prendersi cura della persona nel modo più adeguato possibile, standole accanto nei momenti di difficoltà, riconoscendo l’importanza dei valori in cui crede e aiutandola a dare un significato all’esperienza di vita che sta affrontando.
Dopotutto, anche questa è un’abilità imprescindibile che un buon infermiere dovrebbe sempre annoverare tra le proprie competenze: la capacità di fornire un ascolto attivo alla sofferenza altrui, al fine di aiutare il paziente a vivere con maggior serenità e accettazione il peso della propria malattia, alleviandone il dolore e suscitando di nuovo emozioni positive, prima fra tutte, il desiderio di tornare a sorridere.
Conflitto di interessi
Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi.
Finanziamenti
Gli autori dichiarano di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.