12 maggio, non solo infermiera anche mamma


Mi chiamo Debora Fiocchi ho 57 anni e non sono un’agente speciale, io sono una mamma e una infermiera di famiglia, anche se questo ruolo, importantissimo per le persone con bisogni di salute e non solo – per impegno e considerato la difficoltà di trovarlo in molte zone d’Italia – un po’ ci assomiglia.
La mia è una maternità un po’ diversa dalle maternità cosiddetta “di pancia”, perché i miei figli sono Etiopi. L’adozione è dare una famiglia a bambini che per diverse ragioni non l’hanno più, ma a cui tutti i bambini hanno diritto, e giustamente l’iter di adozione non è né breve né facile soprattutto dal punto di vista emotivo. La maternità adottiva però non è eroica come tanti ti dicono, o almeno non lo è in sé.
“Sei stata brava”, e “ma che coraggio” sono frasi che ti senti dire tante volte, soprattutto quando la maternità adottiva è evidente perché i tuoi figli non sono del tuo stesso colore, ma in realtà la maternità stessa è eroica, ma come anche la paternità, e tutte le mamme e i papà dovrebbero sentirsi dire queste frasi. La scelta di diventare genitore non è facile, soprattutto se si lavora, perché i bambini che scegli di accogliere, in qualunque modo, richiedono il massimo dell’impegno, hanno il diritto di essere accuditi e amati per crescere in modo armonico e completo.
Ad un certo punto della mia vita, proprio contemporaneamente all’adozione, ho deciso di prendere la seconda laurea e ho scelto di diventare infermiera. Avevo 37 anni quando ho iniziato il cammino dell’adozione e 38 quando mi sono iscritta la seconda volta all’università, esattamente 20 anni dopo la prima volta e sono diventata mamma. A questa età si possono ancora adottare neonati, ma noi avevamo scelto di avere una famiglia con più figli e avremmo voluto adottare almeno due bambini, perché sia io che mio marito veniamo da famiglie con tre figli e la ricchezza di avere un fratello e/o una sorella è stata per entrambi impareggiabile. Questa scelta spesso significa adottare bambini in età scolare/prescolare perché per neonati o bambini molto piccoli spesso non si riesce a sapere se sono fratelli.
Ci è stato allora proposto di fare due diverse adozioni, anche perché giustamente i servizi sociali ti mettono di fronte alle difficoltà piuttosto che alle gioie di diventare genitori adottivi, perché il fallimento adottivo è una ferita indelebile per il bambino, e adottare bambini grandicelli e per giunta fratelli poteva essere una grossa difficoltà. Per noi, però, era importante che i nostri figli fossero fratelli perché, se è vero che sarebbe potuta essere una difficoltà entrare nella loro “famiglia residua”, era nostra opinione che sarebbe stato più complesso per un bambino diventare fratello di uno sconosciuto, allo stesso modo di quanto è complesso diventare figlio di due adulti sconosciuti.
Il bambino subisce l’adozione suo malgrado, l’adulto la sceglie, questa è la differenza sostanziale, è il bambino che fa lo sforzo maggiore e l’adulto ha gli strumenti per facilitare l’integrazione nella famiglia per farli sentire “a casa”, come anche gli strumenti per affrontare i problemi. Le mie stupende nipoti, figlie di mia sorella, erano già in età scolare e abbiamo pensato che adottare due bambini della stessa età avrebbe agevolato l’integrazione non solo all’interno della nostra famiglia ma anche nella società, e i fatti ci hanno dato ragione.
Finalmente avevamo avuto “l’ok” dei servizi sociali e successivamente del tribunale dei minori di Bologna per l’adozione di due bambini e dopo la testimonianza di alcuni amici abbiamo scelto di adottare in Etiopia, così un giorno, che certo non dimenticherò, arrivò la telefonata del responsabile dell’associazione “Centro aiuti per l’Etiopia” del nord Italia, che allora era Roberto Crippa, che mi comunicava che saremmo diventati genitori, se accettavamo, di due maschietti di nome Tewachew e Yebeltal di 7 e 5 anni e dopo quasi un anno di attesa siamo andati ad Addis Abeba nell’orfanotrofio “Madonna della vita” dove saremmo rimasti 21 giorni insieme ai nostri figli nel loro Paese. Infiniti sarebbero gli aneddoti da raccontare sul nostro primo incontro, sulla vita in Etiopia, sulla vita all’interno di quel microcosmo che ha il brutto nome di orfanotrofio, ma la cosa stupefacente è che i nostri figli ci hanno accolto subito come genitori dissipando le nostre paure di non piacere loro.
Non succede in tutte le adozioni, ma a noi è successo così. Rientrati in Italia, subito io ho dovuto riprendere il lavoro perché non potevo fare diversamente, allora lavoravo come impiegata part-time in un centro prelievi, poi avevo lo studio e il tirocinio, cosa che riempiva anche le giornate di mio marito che aveva invece usufruito del congedo parentale. La routine studio-lavoro-tirocinio è durata i tre anni di laurea, e con i bimbi alle elementari, occorreva organizzare gli incastri tra mie lezioni, spazio per lo studio, lavoro mio e di mio marito, pulmino dei bimbi per andare a scuola (abitiamo infatti fuori città), la scuola calcio … sono stati tre anni impegnativi, che sicuramente i miei figli non avrebbero potuto affrontare serenamente senza l’aiuto di mio marito Massimo, insegnante, dei miei genitori e a volte dei miei suoceri che già si occupavano di altri nipoti. Quando mi sono laureata in infermieristica i miei figli erano presenti e per me è stato un altro momento indimenticabile da aggiungere all’album dei ricordi.
Subito dopo la laurea ho iniziato a lavorare a tempo pieno, come infermiera, presso una struttura per anziani e presto ho dovuto riprendere a studiare per il concorso che avrei affrontato l’anno successivo. I “bimbi” erano ormai alle medie e giocavano nelle giovanili della Reggiana, cioè altri incastri di orari da organizzare, quando mi chiamarono a lavorare per l’AUSL di Modena presso il distretto di Carpi come Infermiera domiciliare.
L’esperienza della domiciliare mi ha fatto assaporare il vero lavoro dell’infermiera, perché occorre prendere in carico o, meglio, in cura, in modo olistico la persona malata e la sua famiglia. Un lavoro che ti coinvolge a tal punto che a volte è difficile non “portare a casa” il lavoro, ma che ti dà tanto e ti fa conoscere persone eccezionali, come care-giver, anche molto giovani, che accudiscono il familiare malato; o malati che affrontano con coraggio e determinazione la malattia, nonostante debbano fare scelte di cura difficili da accettare, come ad esempio le cure palliative perché la cura attiva ormai è inutile. Persone eccezionali anche i colleghi infermieri, medici di medicina generale, medici specialisti e assistenti sociali, sempre disponibili a collaborare nel complesso lavoro di equipe del piano di assistenza integrato, indispensabile in questo lavoro. Il lavoro alla domiciliare prevede turni diurni, quindi riuscivo a gestire la famiglia seppur sempre con l’indispensabile collaborazione di tutti, anche dei ragazzi che ormai erano cresciuti e spesso aiutavano nel menage familiare aiutando nei lavori di casa, almeno pulendo e riordinando la loro camera e a turno si dava una mano anche in cucina.
Dopo circa otto anni di domiciliare e visto che i ragazzi ormai stavano crescendo, e vista l’evoluzione del ruolo dell’infermiere, sempre più specialistico all’interno dell’assistenza della persona ammalata, decido di frequentare un master presso l’ateneo di Padova in Case management una figura indispensabile per seguire i percorsi diagnostici, terapeutici ed assistenziali delle persone complesse con patologie gravi o pluripatologiche. Subito dopo decisi anche di iscrivermi al master in Wound-care multi-ateneo per la specializzazione nelle ferite di difficile guarigione presso le università di Modena, Pisa ed Ancona. Di nuovo chiedevo un sacrificio alla mia famiglia per le mie assenze per la frequenza delle lezioni nei weekend, ma anche a me stessa che oltre al lavoro e alla famiglia si aggiungeva lo studio. Ora lavoro come Infermiera di Comunità su due ambulatori di prossimità dove metto a disposizione le mie competenze alla popolazione delle frazioni che seguo. I ragazzi ora sono grandi, entrambi laureati e io sono molto orgogliosa di loro, sono ancora in famiglia con me e mio marito, anche se la loro autonomia rende più facile il mio ruolo genitoriale.
Essere una mamma lavoratrice è molto impegnativo, a volte sembra che la vita scappi senza avere tempo per te stessa, ma vedere i miei figli felici e realizzati ripaga di tutti i sacrifici fatti e che si faranno in futuro. Ma devo dire che tutto ciò non è mai stato solo sulle mie spalle, è sempre stato tutto condiviso in egual misura con Massimo il mio compagno di vita, senza il quale non avrei mai potuto realizzare il mio sogno di essere una mamma infermiera.

12 maggio 2024

STAMPA L'ARTICOLO