Sul Tempo…


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SE IL TEMPO HA UNA DIMENSIONE…
Se guardiamo al tempo nella sua dimensione diacronica, poche professioni come quella infermieristica hanno inanellato così tanti cambiamenti significativi, di forma e di sostanza, nel corso degli ultimi decenni. Lo stesso Codice Deontologico degli infermieri è sempre stato figlio del tempo: nelle pieghe degli articoli delle varie edizioni che si sono succedute è possibile vedere in controluce l’evolversi dell’infermieristica in Italia; da una posizione iniziale subalterna e rassegnata alla professione medica, passando per una crescente consapevolezza sindacaleggiante dei propri diritti, fino ad approdare a una nuova visione, più complessa e stratificata dell’intero sistema salute, con quel “il tempo di relazione è tempo di cura” ad impreziosire l’articolo 4 dell’attuale carta d’identità degli infermieri italiani.
Ma come è cambiata la comunicazione delle professioni infermieristiche nel tempo? Tanti gli stereotipi del passato: dai tempi di Florence Nightingale (che interviene per migliorare la qualificazione e la pessima reputazione sui costumi delle donne che prestavano assistenza) fino alle commedie italiane degli anni ’70, è stata sempre posta a fattor comune la condizione, spesso ipotetica, della matrice sessuale. Quasi come beffardo contraltare, l’immaginario collettivo veniva alimentato parallelamente da immagini stereotipate, senza alcuna dimensione professionale, men che mai accademica. Nel 2015, si era ancora alle prese con … l’infermiera Mimma, personaggio ricorrente della trasmissione televisiva “Quelli che il calcio”. La grande attrice e caratterista Lucia Odone, al tempo agli esordi, presentava un modello di infermiera svogliata e volgare, in realtà lontana anni luce da una professione che era entrata a pieno titolo tra quelle intellettuali e si apprestava ad avere un proprio Ordine, proprio come i medici, i farmacisti e gli psicologi.
Il tempo della pandemia ha infine fatto conoscere molto bene a tutti, obtorto collo, i valori e i saperi dei professionisti infermiere, ma parallelamente ha preso forma (e sostanza) la retorica dell’infermiere angelo/eroe/soldato. Quella strada lessicale imboccata nei primi mesi del 2020 ha finito per condizionare, con risvolti impensati, la percezione generale dei professionisti sanitari, di cui ogni giorno ci occupiamo. Basta scomodare Wikipedia per leggere che un eroe è “un essere semidivino, al quale si attribuiscono imprese prodigiose e meriti eccezionali” , “ un personaggio eroico con una missione disinteressata e a favore della società, possiede superpoteri , tecnologia molto avanzata, abilità mistiche o doti fisiche e/o mentali molto sviluppate”. È Immediatamente chiaro a chiunque che non sono queste le definizioni adatte ai nostri professionisti sanitari, alle prese con questo e altri virus, insidiosissimi e “villain” che siano. Anzi, caricare eccessivamente una professione accademica di proprietà mistiche, salvifiche, missionarie, può portare molto fuori strada. I supereroi hanno superpoteri, sono immortali, non soffrono … non sono “come noi”. Perché quindi aiutarli, compatirli, sostenerli?
Ce ne siamo accorti quando la Federazione Nazionale Infermieri ha lanciato il progetto #NoiConGliInfermieri per sostenere le famiglie dei professionisti deceduti a causa del Covid-19 o comunque per dare immediato ristoro a chi non aveva potuto percepire redditi a causa della malattia o della quarantena, e per chi doveva affrontare lunghe e costose riabilitazioni, fisiche e psicologiche. Tante le aziende e gli enti che subito sono salite a bordo; qualche centinaio, all’inizio, i piccoli donatori … Uno dei problemi era proprio il fatto che nessuna narrazione aveva ancora approfondito il tema dell’infermiere-essere umano che a sua volta si ammala, muore, o semplicemente deve vivere isolato in residence per non mettere a rischio i propri cari. C’è stato bisogno di un’apposita campagna parallela, #NonChiamateciEroi, per stressare il concetto e far comprendere che … anche Superman può avere la febbre. E non è un caso che la stessa Marvel abbia voluto celebrare i sanitari con un fumetto gratuito, incentrato su tre storie realmente vissute di assistenza sanitaria nel contesto di pandemia Covid – 19, storie di tre infermieri e di atti meritevoli di essere raccontati. Il comic book si intitola: The Vitals: trueNurses stories ed è stato realizzato in collaborazione con la catena ospedaliera Allegheny Health Network (AHN).
Del resto, anche la retorica bellica usata in lungo e in largo per descrivere l’avanzata del virus e la “guerra” alla sua diffusione, non ha fatto altro che rafforzare l’idea che gli operatori sanitari facessero parte di un mondo tutto loro, in cui morte e sofferenza facevano parte delle “regole d’ingaggio”. Sei un soldato: se vai a combattere in prima linea, anche mal equipaggiato o con le armi spuntate … beh … metti in conto anche di ferirti o morire. Lo sai tu soldato e lo sanno anche i tuoi cari. Questo è il concetto che passa quando si stressa troppo il lessico di guerra, adattandolo a forza alle situazioni più variegate. La parola angeli, infine, si porta dietro un sottotesto missionario, religioso in senso lato, che identifica una professione con una “vocazione”. Fai il medico o l’infermiere perché hai ricevuto una “chiamata”, il lavoro è percepito come un tutt’uno con la propria personalità e la propria intimità. Per molti nostri professionisti sanitari, per fortuna, questo rappresenta il vero ed è bellissimo. Ma guai a farne una regola generale perché a quel punto, la “narrazione angelica” della professione andrà a sbattere con le sacrosante rivendicazioni su salari troppo bassi, turni massacranti, aggressioni subite, scarse opportunità di carriera. Tutti temi che gli Ordini, insieme ai sindacati, monitorano quotidianamente e che rischiano di finire all’ombra dell’ennesima targa, medaglia o piazza intitolata “agli angeli del Covid”. Quando tutto questo finirà, i nostri professionisti sanitari, resteranno al nostro fianco, così come le parole che saranno rimaste appiccicate loro. Contiamo “eticamente” fino a dieci prima di usarle.

SE IL TEMPO CORRE NELL’IMMENSITÀ
Confiniamo il cambiamento della dimensione del Tempo in una percezione che chiamiamo “accelerazione”. Ma l’epoca dell’accelerazione è già conclusa. Ciò che avvertiamo come accelerazione è infatti soltanto uno dei sintomi della dispersione temporale. Viviamo una discronia, la mancanza di un ordine che dia un ritmo. Questo fenomeno spinge il nostro vivere “fuori tempo”, lo agita e lo disorienta. La discronia non è tuttavia il risultato di una accelerazione forzata quanto invece l’atomizzazione del tempo che porta in sé la sensazione che il tempo proceda più velocemente di prima. La dispersione temporale rende impossibile qualsiasi esperienza di durata del tempo stesso. Nulla contiene il tempo e la vita non è più collocata in quella struttura d’ordine o coordinate che fondano una durata. In questo modo, noi stessi diventiamo radicalmente transitori.
Al giorno d’oggi, le cose legate al tempo, invecchiano molto più velocemente di prima, diventano rapidamente passato e sfuggono pertanto all’attenzione. Il presente si riduce alla punta visibile dell’attualità. Non dura più. Il tempo continua a precipitare come una valanga proprio perché non ha in sé alcun fermo. Tutti i punti del presente, tra i quali non esiste più alcuna forza di attrazione temporale, travolgono il tempo, provocano un’accelerazione senza direzione di processo, che per mancanza di direzione, non è più un’accelerazione. Il pensiero dominante crede che, chi vive a velocità doppia può godere del doppio delle opzioni di vita. L’accelerazione moltiplica la vita, e così facendo la avvicina alla meta di una vita realizzata. Questo calcolo è però ingenuo, scambiando la realizzazione per la mera abbondanza. La vita realizzata non si può spiegare in termini teorici in funzione della quantità, essa non risulta dall’abbondanza delle possibilità di vita. Una lunga enumerazione di eventi non genera di per sé una narrazione avvincente, mentre una narrazione molto breve può dispiegare una grande tensione narrativa. Ugualmente, una vita molto breve può raggiungere l’ideale di una vita realizzata. Ordunque, il tema risiede nella possibilità che la vita ha di concludersi in modo sensato. In questo contesto, ciò che non si lascia condurre al presente non esiste: tutto deve essere presente. Spazi e tempi intermedi, che agiscono in senso contrario alla riduzione al presente vengono soppressi. Restano soltanto due condizioni: il nulla e il presente. Non vi è più il “tra” Ma essere, è più che essere – presente. La vita umana si impoverisce se da essa viene tolto ogni spazio e tempo intermedio. “L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza”, afferma Heidegger.
L’esserci è sempre in vista di qualcosa da essere e pertanto è sempre “avanti a sé”. L’esserci è in rapporto con il possibile, nel mondo dell’anticipazione e del precorrere le sue possibilità. L’esserci è sempre in attesa della realizzazione delle sue possibilità. Assistere è esserci. Assistenza infermieristica è scienza che permette all’Esserci di aprirsi al futuro ed evolvere. Creare con l’altro e per l’altro “uno spazio propriamente umano, o meglio umanizzato, una creazione che è parte della creazione umana” (Zambrano). L’assistenza infermieristica oggi non ha un tempo, ma è essa stessa un tempo. Si impone una suddivisione netta, ai fini della trattazione, tra almeno due categorie di tempo: l’attimo (instant) e l’ora (now).
L’attimo è il tempo di Kairos, l’ora è il tempo di Kronos. Per gli antichi greci aveva due definizioni: Kronos e Kairos. Tra i miti preolimpici greci troviamo Kronos, che è il padre di Zeus. Kronos ha dodici figli (o in alcuni racconti mitologici dieci) che ripetutamente divora appena vengono alla luce. La moglie, astuta, trova il modo di fargli risparmiare l’ultimo figlio, Zeus, facendo divorare a Kronos una pietra. Kronos è il tempo cronologico, è l’ora poco sopra tracciata, che mangia i suoi figli, che mangia le sue ore, e che corre oggi sempre più velocemente a tal punto che il live motive nelle professioni, in tutte le professioni e nel vivere umano, è che non abbiamo più tempo. Kronos vive di due dimensioni sole: il qui e l’adesso, l’hic et nunc. Sì, la cronologia vive divorando noi stessi e le nostre scelte di vita.
Così, le Camere Operatorie sembrano il paradigma perfetto del tempo che viene a mancare. Ma la cronologia non basta – Kronos non basta.
Tra le ore che si susseguono esiste un non tempo – l’attimo – che è segno di eternità. Infatti, l’altra dimensione del tempo portata dagli antichi greci era definita come kairòs. Termine difficilissimo da tradurre in modo esaustivo, kairòs è il tempo favorevole, il tempo perfetto, il tempo in cui la cronologia si ferma e si costituisce in un’immanenza assoluta. E’ il tempo dell’istante, di una parola detta all’operando, di una mano sfiorata oltre ogni sicurezza clinica, di un buongiorno detto nella sala di preparazione o mentre ci si mette su un lettino operatorio. E’ il tempo di pronuncia del nome di battesimo. E’ un tempo salvifico in cui gli infermieri stabilmente vivono. Ecco perché l’assistenza infermieristica non ha un tempo, ma è essa stessa un tempo. E’ il tempo del toccare, è il tempo dell’assistere, è il tempo della nostra attività quotidiana. In questo senso è il tempo dell’eterno nel quale il gesto assistenziale si pone, al di fuori della frenesia dell’ora ed è momento in cui l’uomo percepisce, di non essere il centro ma trova il proprio centro in quella esperienza d’infinito che chiamiamo relazione di cura e che, così come vive nell’attimo, non si ripeterà più.
La tecnica e la tecnologia come mezzi e mai come fine. Esse non aprono scenari di salvezza, ma semplicemente funzionano. In un’epoca di nuovo trionfo metodologico dobbiamo utilizzare le tecniche più efficaci ed efficienti sotto il profilo dell’evidenza scientifica, nella assoluta consapevolezza che esse sono mezzo della dimensione antropologica per giungere alla dimensione ontologica che si profila come luogo di senso. Nessuna distanza è ammessa: solo attraverso la dimensione antropologica, la dimensione delle abilità e di Kronos, si perviene alla dimensione ontologica, all’apertura di trascendenza. Nell’oggi non si può dividere scienza e coscienza: siamo uomini e donne di scienza per uno scopo (telos) disciplinare, che è la felicità dell’uomo. Vivere il tempo dell’ora per frapporsi in esso col tempo dell’istante e divenire insieme – io infermiere e io persona assistita – luogo di eternità. L’eternità non ha altro mondo che il quotidiano per noi infermieri. Nella quotidianità noi solleviamo esperienze di senso.
Vinta la consolidata cultura della separatezza tra l’essere e il fare rileggiamo la nostra quotidianità, in cui si insinua per esempio, il vero demonio da sconfiggere in Camera Operatoria (e tanto più in quelle specialistiche) che è l’abitudine. Vero che Aristotele afferma come le buone abitudini formino la coscienza etica ma Kant, molti secoli dopo, descrive le abitudini come inferno del mondo. Tutti i giorni le stesse cose, gli stessi colleghi, gli stessi respiratori e le stesse procedure, la stesa vita minacciata e le stesse tecniche operatorie, portano a non cogliere più, che ogni persona che incontriamo è diversa. Kronos non riesce a condurre verso Kairòs. Nella scarsità del tempo cronologico, a me vostro paziente che aspetta di essere operato, sentire sfiorare la mia mano, il mio nome detto con pazienza lacera il velo della paura e mi s-vela. E mi sento appieno uomo. E sento in me realizzarsi la pienezza dell’umanità che solleva la mia dignità. E quanto accade a me paziente, accade anche a te infermiere poiché la reciprocità di comprensione solleva la dignità reciproca. Così, in un attimo e fuori dall’ora, il tempo si ferma e saremo per sempre legati nell’eternità. Non si tratta di avere più tempo ma di con-templare diversamente il tempo.
Rileggendo la nostra quotidianità possiamo scoprire un tempo per noi stessi e un senso per gli altri. E’ oggi più che mai tempo di piccole cose.

PER QUANTO TEMPO?
“Hanging on in quiet desperationis the English way” cantavano i Pink Floyd in Time, quel capolavoro dal meraviglioso album “The Dark Side of the Moon”, ed è proprio quel “hanging on”, quel “resistere”, nella sensazione di continua insufficienza organizzativa, che spesso caratterizza le riflessioni sul tempo misurato in ambito professionale, in real life. Ma, al di là delle riflessioni musicali, quali sono state le giuste domande e, soprattutto le adeguate risposte che il mondo politico e scientifico hanno prodotto sul tema? Vari ragionamenti organizzativi, pur ben strutturati, non sono riusciti a sfondare il muro della misura del tempo professionale necessario, basandosi sulla complessità oggettiva, quindi sulla reale necessità assistenziale. Le scelte, in tal senso, vengono ancora basate sul tempo medio, come per esempio nella Regione Veneto, che pur considerando gli elevati standard assistenziali garantiti non è mai discostata dalla media ponderata, identificando nel T. E. M. A. (tempo di erogazione dei minuti di assistenza) i valori medi “adeguati” per la costruzione dei team assistenziali (infermieri e personale di supporto). Un “tempo medio” è molto? È poco?Ma, soprattutto, è giusto? Questa è una domanda sostanziale, se cerchiamo risposte sostanziali, ma ci sono anche altre domande su cui è giusto riflettere: quanto costa in termini reali il contenzioso che si genera per errori evitabili a livello di riorganizzazione possibile? Qual è il limite di sicurezza accettabile e sostenibile per poter organizzare assistenza infermieristica sicura e di qualità? Quanto aumenta il rischio clinico per la persona assistita con queste modalità? Quanto è rischioso eludere la ricerca del migliore skill mix rispetto alla complessità di quella determinata Unità Operativa in quella determinata giornata, con quella definita complessità assistenziale/intensità di cura? A queste domande, cui comprensibilmente la politica fatica a rispondere, ha provato a dar luogo di senso la scienza e, in questa sede, consideriamo tre studi importanti, che forniscono dati di analisi interessanti.
RN4CAST (Registered Nurse Forecasting), studio internazionale (15 paesi del mondo) che parte con una finalità chiara: evidenziare collegamenti e relazioni degli ambiti di competenza, della prestazione e della sicurezza dei pazienti attraverso la misura di specifici indicatori di esito dell’assistenza erogata.
Es.A.Med. (Esiti dell’Assistenza nei reparti di Medicina), studio italiano, che ha coinvolto tre Università e dieci Aziende Sanitarie e che punta a definire gli esiti assistenziali in base alla quantità di assistenza infermieristica erogata (minuti/persona/die) ed allo skill mix assistenziale presente.
N.S.O. (Nursing Sensitive Outcome), studio nato con la finalità di creare un osservatorio regionale (Emilia–Romagna) sugli esiti di una serie di eventi connessi all’assistenza (lesioni da compressione, cadute accidentali, contenzione).
Come nella migliore tradizione della letteratura scientifica, tutti gli studi convergono su alcuni punti chiave:
– La composizione dello skill mix influenza gli esiti assistenziali.
– La quantità di personale dedicato all’assistenza influenza gli esiti dell’assistenza.
Esiste dunque una “formula magica”, che indichi in modo scientificamente sostenuto (quindi meritevole di considerazione in termini di responsabilità professionale) quale sia il giusto rapporto minimo tra infermieri e persone assistite? La risposta è positiva, in quanto un rapporto tra staff di assistenza e persone assistite maggiore di 1:6 – 1:8 aumenta sensibilmente il rischio di errore e quindi di danno. È sostanzialmente impietoso pensare al rapporto medio, presente negli ospedali italiani.
Linda Aiken, infermiera e ricercatrice americana, attualmente direttrice del Center for Health Outcomes and Policy Research dell’Università della Pennsylvania, studia da oltre un trentennio l’impatto degli esiti assistenziali della composizione quali – quantitativa dello staff assistenziale e pubblica, ancora nel 2002 su JAMA (!) uno studio entrato nella storia: “Hospital Nurse staffing and patientmortality, nurse burnout and job satisfaction”, rilevando con granitica solidità che negli ospedali con un rapporto di infermieri/persone assistite di 1:6 si rileva un 30 % in meno di mortalità rispetto ad altri analoghi con un rapporto di 1:8. Lo stesso risultato si è ottenuto esportando in Europa tale metodologia di analisi. L’understaffing non genera risparmio, ma eventi avversi.
In Italia, il testimone è stato ben raccolto dal citato studio Es.A.Med, che ha portato alla pubblicazione di un position molto esplicito:
– Si raccomanda di garantire 200 minuti di assistenza totali per persona assistita al giorno per poter assicurare la qualità delle prestazioni erogate.
– A 200 minuti di assistenza per persona troviamo il limite al di sotto del quale aumenta esponenzialmente il rischio clinico per gli assistiti;
– Rispetto allo skill mix, il rapporto tra infermieri e personale di supporto, definito sulla base della complessità assistenziale, può essere esteso al 20 % del tempo assistenziale demandabile agli operatori socio – sanitari, ovvero nel caso dei citati 200 minuti, 60 minuti per persona al giorno.
Fermi tutti!
La letteratura, a livello internazionale, ci raccomanda di tenere in piena considerazione il rapporto tra infermieri e persone assistite. Ci raccomanda di non scendere sotto i 200 minuti di assistenza per persona al giorno, altrimenti la capacità di prevenire gli eventi avversi, financo eventi mortali cala bruscamente. Ci raccomanda di tenere in adeguata considerazione lo skill mix, ovvero la composizione delle equipe assistenziali.
Quando andremo in Tribunale a discutere di eventi avversi, generatori di responsabilità penale e di risarcimento del danno, chi sarà il vero imputato?

SE IL TEMPO…
Se il tempo si fosse fermato, non avrebbe luogo di esistere il moto perpetuo, e sin qui parrebbe quasi di assistere al festival dell’ossimoro. Ma il moto può essere stabile o instabile? E perpetuo, per quanto tempo è? Già, quanto tempo! Quanto tempo è trascorso da quando il tempo si è fermato? Lo ricordano perfettamente il momento in cui il tempo si è fermato: era un sabato d’autunno … un mercoledì di primavera … il giorno della festa patronale … La pioggia, quella sì, la ricordo molto bene, con il suo battere incessante sul mio volto, mentre aspettavo che giungesse qualcuno a soccorrermi … continuava a cadere impietosa, lavando il sangue, ma non il dolore. Oppure mi avevano già soccorso? Ricordo soltanto tanti flash, il sangue sulle divise bianche, che poi si rifletteva nei miei occhi. Ma era mio il sangue? Non ricordo più, è trascorso molto tempo, o forse troppo poco tempo.
Ci vorrà tempo – mi hanno detto – per poter passare da una linea verticale, a rivedere il mondo coi miei occhi. Devo ricordare, posso farlo. E necessario uno spunto, sono all’eterna ricerca di una madeleine. La madeleine è nostalgia, è il ricordo del passato, è la mia continua ricerca di mettere ordine a quel cassetto che ho accanto al letto, proprio quello, dei progetti e desideri. E’ quella sensazione evocata che mi fa tornare alla mente le dolci emozioni di un tempo che, inequivocabilmente, è passato. Avrei voluto congelarlo scrivendo, trattenendo quella mano, assaporando anche le lacrime di gioia. Ma non è più quel tempo. E come sarebbe stato vivere se…? Come sarebbe stato abitare un tempo differente da questo? Sarà il tempo a darti ragione – mi hanno detto –vedrai! Tutti i tuoi sforzi saranno ripagati. E ci sarà un nuovo tempo, anche se forse non c’è più tempo.
È tempo di muoversi, ormai distinguo i passi del giorno, da quelli della notte … Il giorno è al ritmo di galoppo, la notte sembra quasi di assistere a una danza.
Quanti ordini di grandezza può avere il tempo e quanto strana può esserne la percezione? Si affollano alla mente una raffica di domande ineludibili ma dall’incerta risposta. Cos’è il tempo? Riusciremo mai a sconfiggerne l’avanzata? Si può rovesciare la freccia del tempo? Il tempo ha veramente un’esistenza propria o ci troviamo di fronte a una gigantesca illusione? (Tonelli, 2021).
L’uomo, in perenne lotta contro il tempo, corre disperatamente cercando argini inutili e rimedi illusori come i filtri delle fotografie, la quasi totale assenza nella dichiarazione dell’anno di nascita nei social network, sino all’utilizzo di applicazioni simpaticissime quanto tristemente ridicole come Face Morph, l’app che cambia i connotati. Se poi fosse così semplice, da non farci tornare alla realtà!
E quale il tempo per le emozioni? Quello che vorremmo, nelle circostanze piacevoli, non finisse mai, se non fosse che: “L’emozione è una reazione affettiva intensa con insorgenza acuta e di breve durata, determinata da uno stimolo ambientale come può essere un pericolo, o mentale come può essere un ricordo” (Galimberti). E se l’emozione, da ex – movere, indica chiaramente un moto a luogo, è evidente che il tempo diviene una scelta, ma spesso questo spetta soltanto al tempo stesso dirlo con certezza. Troppo spesso ci siamo dati molto tempo per decidere, pesando sulla bilancia di cristallo, i pro e i contro di quella stessa scelta, sperando che dal cilindro potesse uscire quel fattore confondente, quella svolta magica che permettesse di cogliere l’istante, di bloccarlo sul tempo, senza ovviamente mai riuscirci. E allora, continuare a chiedersi cosa è, o cosa non è il tempo, è esercizio solipsistico, quesito destinato a cadere nel nulla, nonostante sovente vi sia un’ottima fattura nel costrutto logico.
Tutto quello che ricordiamo di aver vissuto è reale o irreale? È davvero mai accaduto? “Mi piegai per guardare dentro il cunicolo. La luce della mia torcia non arrivava fino in fondo … “–Komi! – chiamai di nuovo. Nessuna risposta. – Komi” ripetei più forte. Stesso risultato. Forse avevo perso mia sorella per sempre. Era scomparsa, inghiottita dalla buca di Alice. Passata nel mondo della Finta Tartaruga, dello Stregattoe della Regina di Cuori. Dove non valeva la logica del mondo reale. Non saremmo mai dovuti entrare in quel posto. Invece a un certo punto mia sorella tornò indietro, nella stessa posizione in cui era entrata, ma sgusciò fuori a partire dalla testa, strisciando sul terreno.Komi strinse di nuovo la mia mano. Poi con una strana voce eccitata, disse: “C’è uno stretto cunicolo, che a un certo punto scende verso il basso. Si fatica un po’, ma, se si riesce a passare, si arriva in una specie di stanzetta giù in fondo … La cosa più straordinaria, lì dentro, è che fa talmente buio, che più buio di così non si può. Così non capisci se un corpo ce l’hai o non ce l’hai. La sai una cosa? – mi disse Komi mentre camminavamo“ – “ Alice esiste davvero. Sul serio, non me lo sto inventando. Alice, il Bianconiglio, lo Stregatto, il Tricheco, l’esercito di carte da gioco. Ci sono davvero. Esistono tutti veramente, in questo mondo qui …”. Mia sorella morì due anni dopo. Venne messa in una piccola bara e cremata … Durante la cremazione mi allontanai dagli altri e andai a sedermi nel giardino del tempio. Pensavo a quella volta nella grotta. Ai lunghi e opprimenti minuti durante i quali avevo atteso, davanti a quella piccola buca laterale, che Komi tornasse fuori … In quel giardino, nel tempio, mi ero detto che Komi aveva lasciato la sua vita, in fondo a quella buca, due anni prima … “(Murakami).
La morte è fine o transito? La risposta, su cui si specula da non poco tempo, non è data. Ciò che è essenziale agli occhi, per dirla con de Saint Exupery, è la perdita, l’assenza. Sarebbe bastevole parlare di morte, in maniera secca, come descrivendo il taglio che opera Atropo, se non fosse che il vuoto, che normalmente è colmato dalla presenza, spesso scontata, si crea con il baratro dell’assenza, fenomeno ingente, dalle conseguenze notevoli.
Gli infermieri ad-sistono, sono vicini dalla nascita alla morte, e quando l’ultimo tratto si approssima, sono lì, pronti ad accompagnare, a fungere da Cireneo su strade sempre più sconnesse e dolorose. Un significativo viatico è offerto dalle DAT, Disposizioni anticipate di trattamento, la cui applicazione consente di affermare la volontà della persona assistita, altrimenti nodo inestricabile, ma è necessario pensarci per tempo.
E quindi, nel tempo, e per il tempo, ancora una volta affiora un quesito sostanziale? Ripercorrere le strade dell’assistenza o, potendo, tornare indietro nel tempo? Azzerare le lancette del tempo e ripartire da zero è la gigantesca illusione che nutre Gil Pender, sceneggiatore di successo, in viaggio a Parigi e in cerca di ispirazione per la stesura del suo primo romanzo. Mentre passeggia per le strade della Ville Lumiere, proprio come sperava, grazie a un incantesimo, si ritrova a trascorrere alcune ore del “suo tempo” trasportato nella Parigi degli anni ’20 del secolo scorso, e grazie alla brillantissima compagnia incontrata, potrà conoscere e confrontarsi con Scott Fitzgerald, Hemingway, Cole Porter, Cocteau, JosephineBaker, persino Picasso, Dalì e molti altri ancora. Il significato che Woody Allen ha voluto trasmetterci, con la proiezione del meraviglioso Midnight in Paris, coincide con un poderoso ragionamento sull’importanza della nostalgia, sull’illusorio pensiero che, tornare indietro nel passato, sia atto migliorativo dell’esistenza. In realtà, il confronto, permette a Gil che si ritiene, come accade a non pochi, uomo vivente al di fuori del tempo in cui esiste, di accettare il proprio tempo e progettare diversamente il suo futuro, allontanando da sé considerazioni, situazioni e persone, sulle quali non aveva mai avuto modo di riflettere a sufficienza, poiché eternamente concentrato sulla sua idealizzazione di passato. L’opera cinematografica raccontata, ci aiuta a dare un senso al tempo e al nostro percorso di vita, particolarmente quando ormai gli anni trascorsi, anche nella professione, iniziano a comporre una cifra consistente e ci veniamo a trovare maggiormente proiettati in quello che è stato, rispetto a quello che è. Pensare all’assistenza infermieristica nell’epoca del metaverso, con la stessa visione di chi, a partire dagli anni ’70 ci ha “addestrato” alle tecniche infermieristiche e all’essere serventi, significa essere incapaci di vivere il now, di cui abilmente tratta Edoardo Manzoni, e quindi di essere pallina da pingpong in un tunnel vorticoso quale quello sanitario, in cui i cambiamenti scendono repentinamente a guisa di missili. “Gli stili cambiano, mutevoli, al pari dei gusti degli uomini; l’idea resta, domine – Cicerone aveva ben compreso la scena. – Kairòs, il dio dell’occasione, ci spinge prima che possiamo afferrarlo per il lungo ciuffo. Spesso ci concentriamo sui capelli svolazzanti che gli cadono sulla fronte e poi ci ritroviamo a contemplarne la nuca calva mentre corre via, lontano. Nessun uomo può competere in velocità con lui, però è possibile sgambettarlo. In fondo, l’importante è cogliere l’attimo, non il modo nel quale lo si coglie” (De Bellis& Fiorillo, 2021).

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Bibliografia

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