Due infermiere, due storie e una formazione


Da dicembre 2021 ad aprile 2022 presso l’Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore) si è tenuta la seconda edizione del corso di Perfezionamento “Metodologie didattiche per l’insegnamento della Medicina con il paziente formatore” rivolto a pazienti, caregivers e professionisti sanitari con l’obiettivo di imparare a insegnare in “tandem” ovvero a co-condurre in partnership interventi formativi. Il corso è stato organizzato e condotto dal Laboratorio EduCare di Unimore, un laboratorio di formazione e ricerca finalizzato a promuovere il coinvolgimento di pazienti e caregivers nella formazione dei professionisti sanitari per l’umanizzazione delle cure.
Al corso abbiamo partecipato anche noi Sara e Rossella, entrambe infermiere ma in questo contesto ci siamo incontrate vestite con panni diversi, Sara da dottoranda di ricerca e Rossella da paziente, perché lo sappiamo, la malattia, compresa quella cronica, colpisce chiunque e anche a un professionista può succedere di stare dall’altra parte.
Con questa lettera scegliamo di condividere la nostra storia legata al corso di formazione. Due voci diverse che svelano aspetti latenti del training e che ci ricordano ancora una volta che l’umanizzazione della cura passa attraverso un percorso di conoscenza di sé stessi e dell’altro e di riscoperta dell’umanità, e quindi della fragilità, come elemento comune.

La storia di Rossella

1980, ho vent’anni anni e ho scelto di essere un’Infermiera.
Scelta non del tutto consapevole, forse, ma convincente per le aspettative dell’età.
Un lavoro appassionante mi aspetta. Da lì a pochi anni avrò la fortuna e l’onore di attraversare e vivere un profondo cambiamento per la professione. Con fierezza e curiosità cavalco le nuove sfide che si presentano. L’autonomia e la responsabilità riconosciute al ruolo spingono verso un nuovo modo di essere Infermiera.
Si avverte un grande fermento e al contempo, grande partecipazione.
In tanti anni di lavoro trascorsi il mio “assistere”, il mio stare vicino, ha conosciuto volti, modi e luoghi diversi tra di loro. Solo apparentemente distanti ma con un unico denominatore: il prendersi cura, la mia stella polare.

1980, ho vent’anni e non ho scelto di ammalarmi di una malattia cronico degenerativa.
Una diagnosi inattesa, comunicata come una sentenza: una pena senza redenzione.
Deglutisco cercando di mandar giù il rospo come, del resto, continuo a fare anche adesso.
Si va avanti però: troppi sogni, troppa passione, troppa vita.
Aderisco ad ogni terapia che mi viene proposta. Le remissioni sono frequenti così come le ricadute. Ogni volta è necessario rimettere tutto in gioco, rivedere le priorità, ricalcolare le energie e le capacità che rimangono. Cado e mi rialzo. Ed ogni volta scopro nuove possibilità, nuove sfide.
Ci vuole tenacia, però. Ci vuole coraggio.
Nel tempo mi sono interrogata su come sia stato possibile prendersi cura degli altri in una situazione di malattia cronica. Di come abbiano convissuto in me il bisogno di farsi carico e quello di sentirsi bisognosa di cure. Mi sono chiesta se e come il prendermi cura sia stato un modo per guardare, anche, le mie ferite, per accoglierle oppure se questa tensione mi abbia portato lontano da me.
Se, la cura agita, sia diventava, anche, cura ricevuta.

Fragilità che incontra altre fragilità.
Ho attraversato la vertigine.
Sì, perché la cura è una vertigine e quando ne sei dentro rischi di perdere l’equilibrio.
Un continuo fluttuare in direzioni, solo apparentemente, opposte: la cura verso me e quella verso gli altri.
La vita da curante mi ha portato, talvolta, lontano dalla percezione dei miei bisogni e, presa da una “smania” appassionata verso l’altro, mi sono distanziata da essi. Ma proprio in quei momenti ho compreso che solo ritornando sulle mie ferite, curandole, potevo recare beneficio a quelle degli altri, fossero pazienti, studenti, cittadini, colleghi.

Il corso di perfezionamento per pazienti-caregiver formatori promosso dall’Università di Modena e Reggio Emilia nell’anno accademico 2021-2022, è stato, senza saperlo, un salto nel vuoto.
Lo inseguivo da tempo poi la pandemia ha arrestato tutto.
Il salto nel vuoto l’ho fatto quando durante il percorso ho preso atto di formarmi per diventare paziente formatrice. Di passare… “ dall’altra parte”.
Di presentarmi non solo come professionista ma anche e soprattutto come paziente.
L’atterraggio è stato morbido però perché, in fondo, ho sempre fatto i conti con una malattia con cui convivo, direi, da sempre.

L’esperienza modenese è stata un’occasione di formazione unica e inedita ma, soprattutto, ha rappresentato per me un importante momento di crescita personale.
Un percorso di consapevolezza rispetto al mio stare dentro una “duplice prospettiva”: curata e curante nello stesso tempo.
Un percorso dove si è parlato di relazione di cura, dove gli incontri con i presenti, docenti e discenti hanno mescolato le carte, dove ci siamo rivelati e sono nati dei legami, pianificato progetti.
Dove l’incontro con l’altra parte di me mi ha intenerito il cuore.
Dove mi sono guardata allo specchio e mi sono “ri-vista” di nuovo.
Un percorso di riflessione che ha orientato il mio sentire non solo alla professionista della cura ma, anche, alla paziente che sono: che le ha messe in contatto.
Così, per la prima volta mi sono raccontata. Ed in quella narrazione sono andati in frantumi quegli ostacoli interiori che mi impedivano di entrare in confidenza con quella me fragile, vulnerabile e bisognosa di cure, alla stessa stregua delle persone che, in tanti anni, ho incontrato e curato.
Per la prima volta ho ripercorso i momenti più intensi e significativi della mia malattia: la diagnosi, il dolore, i sogni, le aspettative.
E forse, in questo viaggio inaspettato, ho compreso come dentro la ferita degli altri abbia un po’ curato anche la mia. Come, da quella “feritoia”, si sono generati nuovi gesti di cura.

Ieri, un’Infermiera formatrice.
Oggi, una paziente formatrice.
Io sempre la stessa, ma con qualcosa di inaspettato e meraviglioso in più.
Un di più da restituire a quanti, come me, pur svolgendo un lavoro di cura la malattia l’hanno incontrata, attraversata ma mai subita.
A quanti, nonostante la fatica del prendersi cura, sentono di non potersi sottrarre a quel preciso richiamo che ogni volta risuona.
A quanti, come lo è stato per me, hanno estratto dalla cura delle ferite degli altri un balsamo per medicare, anche, le proprie.
Un lavoro faticoso, incerto e sempre a rischio dove la consapevolezza e la cura di sé diventano necessari per non soccombere all’impegno difficile dell’essere Infermiere.
In questa direzione mi ha condotto il corso di perfezionamento rappresentando un impulso fondamentale verso questa costante ricerca.

La storia di Sara

Ho iniziato l’esperienza al corso di perfezionamento all’inizio del percorso di dottorato avendo preso la decisione di dedicare il mio progetto di ricerca al coinvolgimento dei pazienti e caregivers nella formazione, ricerca e cura e all’umanizzazione delle cure.
Riflettendo ora su questa esperienza, mi torna in mente questo concetto: apprendimento come cambiamento. Ma quanto sono cambiata dall’inizio del corso! Ho iniziato con molto interesse, anche se non avevo ben chiaro cosa mi aspettasse. Il corso è stata la spinta iniziale di un percorso di costruzione di partnership con pazienti e caregiver nella formazione e ricerca che è tuttora in divenire.

In questi mesi ho conosciuto e fatto esperienza di medicina narrativa, un concetto che finora avevo solo trovato nei libri; ho scoperto quanto noi professionisti dobbiamo lavorare su noi stessi per umanizzare le cure; ho imparato dai pazienti e dai caregivers e ho ricordato a me stessa che anche io sono stata paziente e caregiver; ho compreso l’importanza dell’ascolto nella cura e della continuità nella relazione (la famosa “presa in carico”); ho imparato a fare ricerca qualitativa ascoltando, leggendo, osservando, riflettendo e analizzando le narrazioni; ho compreso che se si vuole portare avanti un progetto bisogna costruire un gruppo, e che le relazioni nel gruppo fanno la differenza, che le storie dei professionisti e quelle dei pazienti in fondo non sono così diverse, che dobbiamo esprimere anche il nostro punto di vista ai pazienti se vogliamo essere compresi, anche nelle difficoltà e limiti che comunque noi abbiamo come professionisti dentro a un sistema organizzativo.

Cosa vorrei che apprendessero i futuri professionisti dalla mia esperienza con il paziente formatore?
Vorrei che apprendessero che il punto di vista del paziente non si deve dare per scontato, che per il paziente è importante l’ascolto e saper ascoltare è una competenza che si apprende, che anche noi professionisti siamo persone, anche noi abbiamo una storia e dovremmo imparare a narrarla a noi stessi più spesso e a rifletterci sopra, che le incomprensioni spesso nascono da una cattiva comunicazione, che dietro a ogni paziente c’è una persona e una famiglia con la sua storia unica.

Cosa vorrei apprendere come infermiere dopo aver ascoltato l’esperienza dei pazienti?
Vorrei imparare ad ascoltare e a comunicare sempre meglio con loro, vorrei imparare a fare ricerca per lo sviluppo del progetto di coinvolgimento di pazienti e caregivers nella cura, formazione e ricerca, integrando il loro punto di vista, vorrei imparare a narrarmi e attraverso la narrazione a guardarmi dentro, vorrei imparare a utilizzare sempre meglio le narrazioni sia a fini formativi che di ricerca, vorrei imparare a insegnare insieme al paziente e soprattutto, devo ammettere, mi piacerebbe portare dentro ai luoghi di cura quanto ho appreso con i pazienti formatori.

Cosa mi porto a casa?
Mi porto a casa che pazienti e professionisti hanno una cosa in comune: entrambi siamo persone, ascoltare la storia dell’altro mi aiuta ad essere un professionista e una persona migliore e credo ancor di più che anche la ricerca ha bisogno della voce dei pazienti.
Per me il vantaggio più grande dell’esperienza vissuta rientra nella sfera professionale come infermiera e ricercatrice perché mi sto scoprendo sempre di più. Credo che se tornassi in reparto adesso sarei più consapevole dell’importanza di vedere la persona dietro al paziente, ai colleghi e a me stessa, della comunicazione e della relazione che ho con loro e credo che tale consapevolezza mi spinga ad assumere atteggiamenti coerenti ad uno stile umanizzante e con ciò provare giorno dopo giorno ad essere una professionista migliore.

29 novembre 2023

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