Qualità nel fine vita, si può e si deve


Sono medico da quarant’anni; dopo diciotto anni in medicina oncologica sono passata alle cure palliative, dapprima in regime residenziale (Hospice per 19 anni) quindi, a tutt’oggi sul territorio, nell’ambito delle cure palliative domiciliari (UCPDOM).

Praticamente mi confronto con la morte tutti i giorni, in una realtà sempre nuova, sempre diversa, sempre straordinaria, sempre umana, profondamente umana.
La pubblicazione sul giornale della mia città, l’Eco di Bergamo della storia di Maria Teresa, malata oncologica che ha dovuto ricorrere all’autoattivazione delle cure palliative, dopo settimane di una inutile, sfiancante e dolorosa attesa, mi ha fatto sentire la necessità di rispondere a questa esperienza tristissima raccontando alla gente, tramite il medesimo quotidiano, qualcosa del mondo delle cure palliative e del diritto dei malati e delle loro famiglie di vedere attivato tale servizio (diritto sostenuto dalla Legge 38/2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore“) con il fine di non avere più casi simili.

Quando lavoravo in Hospice ero convinta che la soluzione migliore per un malato inguaribile fosse la degenza in quel luogo, ove venivano garantire assistenza e cure adeguate. Uscire sul territorio ed entrare nelle case degli ammalati mi ha allargato ulteriormente lo sguardo e mi ha immerso in una dimensione nuova, che non conoscevo.

In Hospice si accompagna e si sostiene chi non ha nessuno che possa essere presente 24 ore su 24 e in grado di gestire l’evolversi della malattia al domicilio.

Le cure palliative domiciliari, nei casi previsti, ci dicono che si può morire a casa propria, serenamente, con il profumo della minestra in cucina, davanti al camino, abbracciati ai propri cari, come mi è capitato di vedere.

Purtroppo l’informazione riguardo a questo servizio è ancora poco diffusa, ci si trova a tutt’oggi davanti a mancata conoscenza, diffidenza, pregiudizi. Tra l’altro è un servizio gratuito, che può essere attivato non solo negli ultimi giorni di vita e non solo per i malati oncologici, ma anche per i pazienti affetti da patologie inguaribile epatiche, polmonari, cardiologiche, renali e in altri casi specifici, con un intervallo temporale che arriva a 12 mesi.

L’ingresso in casa del medico palliativista insieme agli infermieri genera ancora perplessità e paure. Qualcuno ci vede come evocatori di morte, i più gentili ci paragonano ai coniglietti neri con la bara in spalla che raggiungono il letto di Pinocchio.

È importante ricordare che la nostra zona di intervento è quella che si colloca tra l’eutanasia e l’accanimento terapeutico: in mezzo a questi due estremi c’è lo spazio per la qualità di una vita dignitosa, senza dolore, nausea, vomito, fatica respiratoria, angoscia… e con la possibilità da parte del malato di poter affidare le sue domande, le sue paure e, soprattutto, di esser ascoltato dove ascoltare, come ci insegna Eugenio Borgna, significa cercare, a volte disperatamente, di capire cosa si nasconde negli stati d’animo, nella tristezza, nella malinconia, anche nella gioia, degli altri.

Ascoltare significa anche cogliere fino in fondo l’importanza del linguaggio delle parole, del linguaggio del silenzio e di quello dei volti, il linguaggio delle lacrime, il linguaggio del sorriso.

Il tempo e lo spazio della cura sono fondamentali sempre, forse più facili a domicilio. Prendersi cura significa a volte avere le parole, altre sapere quando non parlare. Significa impiegare tempo per stare con la persona malata. Ho trascorso momenti bellissimi a sfogliare album di fotografie, a mettere il rossetto alla paziente, ad ascoltare i ricordi.

Formazione e informazione sono le strade da percorrere con determinazione.
Le persone che operano in questo settore devono essere continuamente formate ed integrate tra loro. Occorre raggiungere i medici di famiglia e i pediatri di libera scelta, i medici ospedalieri, il territorio, perché bisogna far conoscere il cosa, il quando, il come e il perché delle cure palliative domiciliari.

Alla attivazione delle UCPDOM si può giungere attraverso diverse strade: il medico di famiglia, il medico specialista, le dimissioni protette, il medico palliativista, i servizi sociali ma anche il malato e la sua famiglia possono farlo. Le procedure devono essere rese note perché a tutti sia garantito l’accesso alle cure.

Le persone devono sapere quali sono i loro diritti. Ci sono diagnosi pesanti, che lasciano disorientati, ma bisogna far valere i propri diritti sino all’ultimo giorno di vita.

Nell’ambiente dei medici e degli infermieri palliativisti si parla spesso della necessità di raggiungere il territorio per informare e spiegare. Parlarne solo tra noi non va bene. Prima della pandemia andavo spesso negli oratori a parlare di vita e di morte, è un qualcosa che mi piacerebbe riprendere e raggiungere tanti luoghi della Provincia della mia città. Certo, non è un tema facile, spesso viene rifiutato, quasi fingendo di non sapere che alla morte nessuno sfugge.

Certo, questo richiede che l’operatore, alla stessa stregua del malato, sia nei dovuti spazi e modi, accolto, ascoltato, supportato perché nonostante tutti i nostri sforzi e la nostra buona volontà, non potremo mai dar quello che abbiamo dentro. “It takes a big heart to hold so much suffering” ci ricorda Ioan Alifax; “In takes a heart as wide as the world” sottolinea Sharon Salzberg.

12 settembre 2023

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