Donare e avere in dono: la duplice facies dell’Amore incondizionato


“Ciascuno di noi è custode di chi ha accanto: per parentela, per amicizia, per lavoro, per vicinato. Ciascuno di noi è affidato ad altri e altri sono affidati a noi, perché Dio muove tutto per spingerci ad amare di più ed essere amati di più.”

Quale grande verità è contenuta in questo passaggio di “Ciò che Inferno non è” di Alessandro D’Avenia!
Custodire ed essere custoditi, affidare ed essere affidati, amare ed essere amati: questa è la bellezza della reciprocità, che è l’essenza dei rapporti umani.
La reciprocità è un dare senza perdere e un prendere senza togliere.

In questi giorni sto facendo particolare esperienza dell’importanza di questo concetto.
Un concetto tutt’altro che astratto: si è concretizzato, infatti, nella calorosa vicinanza, nel profondo affetto e nell’accorato sostegno che ho ricevuto dalle migliaia di persone, il mio “Esercito”, di cui solitamente sono io stesso faro, guida, punto di riferimento.

Riflettere sull’etimologia del termine “reciproco” ci aiuta a comprenderne maggiormente il valore intrinseco.
Esso deriva dal latino “reciprocus” ed è composto dagli avverbi “recus” (indietro) e “procus” (avanti): la reciprocità rimanda, dunque, ad un movimento che chiede di fare un passo indietro prima di poterne fare uno in avanti, rappresentando così la funzione dinamica delle relazioni.

Solo insieme possiamo farcela perché uniti si vince sempre. Nessuno deve restare indietro, ma dobbiamo restare l’uno accanto all’altro, né un passo indietro, né un passo avanti, ma fianco al fianco!
Che io sia forte e resiliente non significa che non abbia; mai; bisogno di qualcuno che stia accanto e che si prenda cura di me, nei momenti di bisogno, di difficoltà, di fatica.

In ogni tipo di relazione interpersonale è importante vedere bene l’altro: dobbiamo fare un passo indietro, dobbiamo allontanarci, per lasciare che la presenza dell’altro, comprese le sue necessità, i suoi bisogni, il suo manifestarsi, ci appaiano nella loro interezza, per poterli riconoscere e poi, è necessario, invece, che ci sia un movimento in cui ci si avvicina e forse anche, per certi aspetti, scompaia questa posizione così regale, così rispettosa dello spazio dell’altro, cioè è un movimento di avanti-indietro.

Il recus, il “retrocedere”, è il distanziamento e il procus, il “procedere”, è, invece, l’avvicinarsi: c’è il movimento del farsi indietro, per guardare l’altro ed ascoltarlo, e c’è il movimento dell’avanzare, per portare l’abbraccio, l’aiuto, il supporto, la cura.

È legittimo che in alcuni momenti della vita – di una vita poi così provata, sofferta, tormentata, eppure, nonostante tutto, così smisuratamente amata, come la mia – la forza possa cedere il passo alla fragilità, il coraggio alla paura, la tenacia alla debolezza.
Proprio in questo ennesimo momento di prova, di dolore, di sofferenza, che sto attraversando per un delicato trapianto a cui sono stato sottoposto, il 23 agosto scorso, è stato fondamentale il mio necessario recus, perché altri potessero avvalersi di un altrettanto indispensabile procus: un avvicinarsi, un farsi prossimi, in primo luogo, dei medici, con il loro encomiabile e magistrale lavoro svolto, quindi, della famiglia, degli amici e di tutti coloro che hanno voluto farmi sentire, con messaggi di sentita vicinanza, il loro esserci. Del resto, come si può non empatizzare con uno come me? Sono gli stessi medici a constatarlo.

“Oltre l’aspetto puramente tecnico dell’intervento chirurgico, a cui è stato sottoposto il Colonnello” – afferma il Dottor Andrea Vecchi, chirurgo del Centro trapianti dell’Ospedale Torrette di Ancona – “per il trapianto che ha richiesto una particolare attenzione nella ricerca del tessuto più idoneo (nel caso specifico una porzione di vena di lunghezza e diametro ben precise) ed una perizia del tutto particolare da parte del Dott. Luciano Carbonari, direttore del Reparto di Chirurgia Vascolare, c’è l’empatia. Carlo ha la straordinaria capacità di trasmettere al prossimo la sua forza, il suo coraggio e la sua determinazione, ingredienti fondamentali del suo “Mai Arrendersi” che va di pari passo con il suo vissuto di Uomo, di Ufficiale e di Atleta. Carlo si è ammalato gravemente, mentre era impegnato in una complessa operazione di salvaguardia della Pace, durante la guerra dei Balcani, dove, nel ruolo di pilota di elicotteri, ha svolto il più nobile dei servizi per la collettività: salvare vite umane. Carlo continua a salvare vite umane, attraverso le sue parole e, soprattutto, le sue azioni quotidiane. Non puoi fare altro che “sentire dentro” (da cui l’etimologia del termine “empatia”) quanto ha provato allora, quanto soffre adesso e, ancora di più, ammirare la sua smisurata voglia di vivere e la sovrumana forza che dimostra nel volere aiutare il prossimo in difficoltà. Un prossimo rappresentato dai Commilitoni sopravvissuti a quella sua stessa esperienza e dai Familiari di coloro che non ci sono più. Ma Carlo non si ferma qui: la sua “mission” è a favore di chiunque abbia bisogno di un supporto, di un sostegno, di un incoraggiamento. Carlo è sempre pronto a tendere la mano verso chiunque si senta demotivato e svuotato dalle avversità della vita, riuscendo a riaccendere persino la speranza in chi, nella disperazione, ha perso anche quella. Una forza contagiosa quella che il Colonnello è capace di trasmettere e che io personalmente ho avuto la possibilità di “assorbire” il primo giorno che l’ho conosciuto ad Oxford, nell’agosto 2022, in occasione dei Campionati Europei Trapiantati e Dializzati, dove, oltre ad aver vinto 5 medaglie d’oro, è stato anche un grande trascinatore e motivatore per tutti gli altri atleti partecipanti, non soltanto per i compagni della Nazionale Italiana. La stessa forza che è stata ampiamente accolta da tutta l’equipe della Chirurgia Vascolare del nosocomio di Ancona a partire dal suo Responsabile, Luciano Carbonari”.

Con il mio imperterrito “Mai Arrendersi”, tendenzialmente è il soldato, l’atleta, il sognatore a infondere coraggio negli altri, a spronarli a vivere intensamente ogni attimo della Vita che ci è stata data in dono gratuitamente e di cui dobbiamo essere rispettosi, sempre e comunque, pur nelle avversità.

Quotidianamente mi vengono affidate persone da ascoltare, supportare, sostenere, accompagnare in percorsi terapeutici, giuridici, legali, motivazionali. E, invece, in questa circostanza, sono proprio io ad essere affidato ad altri: all’alta professionalità di Uomini di Scienza medica, all’Amore dei miei cari, alla Preghiera di tante persone che, in un dialogo silenzioso di Fede con il Divino, cercano nel Mistero del trascendente quelle risposte che spesso risultano imperscrutabili nella realtà immanente.

Nell’armonica dialettica del dare-ricevere, custodire-essere custoditi, affidare-essere affidati, amare-essere amati, l’uomo saggia la ricchezza del suo essere dono per gli altri e, vicendevolmente, ha la conferma che gli altri siano un prezioso dono per lui.

In una società prettamente solipsista ed individualista, in cui ognuno persegue, senza scrupoli di sorta, i propri egoistici interessi, spesso anche a danno e a discapito del prossimo, il dono viene interpretato come un gesto inattuale, anacronistico, quasi eversivo.
Lo stretto rapporto tra pensiero e linguaggio rappresenta un tema sul quale le varie scuole psicologiche e filosofiche hanno ampiamente dibattuto nel corso dei secoli. Siamo lo specchio di ciò che diciamo.
Ebbene, la preoccupante penuria lessicale che caratterizza la maggior parte dei nostri discorsi è il riflesso, molto spesso, di una inquietante povertà valoriale.

Circoscritto com’è a campi semantici che si aggirano tra opportunismo, arrivismo e narcisismo, questo lessico dovrebbe arricchirsi enormemente ed abbracciare tutti quei termini che afferiscono al campo semantico del dono: altruismo, solidarietà, generosità, gratuità, disinteresse.
Insomma, bisognerebbe inaugurare una nuova età dell’oro: un oro, però, tutto racchiuso nella philìa, quale paradigma dei rapporti umani.
In questo nuovo relazionarsi, proprio il gesto eversivo del dono dovrebbe ispirare la società, attuando una rivoluzione degli animi e delle coscienze dei più.

Kahil Gibran, in un passo del suo celebre manifesto spirituale “Il profeta”, afferma:
“Vi sono quelli che danno poco del molto che possiedono, e per avere riconoscimento, e questo segreto desiderio contamina il loro dono.
E vi sono quelli che danno tutto il poco che hanno.
Essi hanno fede nella vita e nella sua munificenza, e il loro forziere non è mai vuoto.

Vi sono quelli che danno con gioia e questa è la loro ricompensa.
Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo rimpianto è il loro sacramento.
E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito.
Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell’aria la sua fragranza.
Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra”.

Donare è un dare in senso pieno e profondo: un omaggio ai sentimenti, e non alla persona. Donare è dare in maniera incondizionata, senza sentire di dovere nulla all’altro e senza pretendere nulla dall’altro.
Io so bene cosa significhi “donare e donarsi agli altri” senza nulla chiedere in cambio e, in questa circostanza, ho appreso anche cosa significhi “avere in dono dagli altri”.

Senza mai tu saper ch’io fossi,
senza mai io saper tu chi eri
ora vivi in me
ed io grazie a te.
L’amore che va oltre la vita,
il dono quale ultima meta
la cosa più bella che ci sia
la vita tua è nella mia
”.

Ricevere in dono organi e tessuti è (ri)avere, in qualche modo, una parte di vita, da rispettare, onorare, venerare, intonando ogni giorno il proprio “Inno alla Vita” e pronunciando, con estrema gratitudine, il proprio “Grazie” alle prime luci che appaiono nel cielo, con il sorgere di ogni nuova aurora, così come al loro delicato affievolirsi, con il sole che tramonta, sul far del crepuscolo.

Sul mio filo d’acciaio, dal titolo del mio libro autobiografico “Pedalando su un filo d’acciaio“, continuo a pedalare, sorridendo ai tenui colori delle aurore e alle morbide linee dei tramonti, valorizzando ogni piccolo grande segno di ciò che Inferno non è, fermamente convinto, proprio come D’Avenia, che:
Inferno è quando le cose non si compiono.
Inferno è ogni seme che non diventa rosa.
Inferno è quando la rosa si convince che non profuma.
Inferno è un passaggio a livello che si apre su un muro.

E, invece, grazie al mio “Mai Arrendermi” e al Dono degli altri, nelle sue molteplici e variegate forme, le cose si compiono, il seme diventa rosa, la rosa si convince di profumare e il passaggio a livello si apre su un ponte, fatto di Cura, Amore e philìa.

4 settembre 2023

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