Entriamo in aula io e la mia collega per iniziare un corso formativo dal titolo ”Etica delle professioni” che pare aver obiettivi e contenuti generici e lontani dal nostro mondo professionale. Dopo esserci infilate in mezzo a studenti e professionisti delle più svariate discipline (ingegneri, umanisti, biologi…), ci sediamo, vestite con i panni delle dottorande di ricerca ormai abituate a viaggiare su sentieri nuovi e inesplorati dalla nostra professione.
Non è mai uno stare comodo ma nemmeno un sentirsi “una barca del bosco” se ci si predispone con la mente aperta e si lascia che la brama di conoscere qualcosa di nuovo e sviluppare nuove relazioni con il nostro essere infermiere ci guidi. Non si tratta solo di rispondere alla domanda “Cosa avrà da dire questa lezione a noi?” ma piuttosto provare a domandarci “Come rispondiamo noi a questa lezione?”. Ed è qui che c’è lo scacco.
In questa lettera mi vorrei soffermare su una tra le tante definizioni di etica citate dal professore: l’etica è infatti quella spinta emotiva, quel fluido non percepibile dai cinque sensi che, in modo naturale, come il battito cardiaco o la respirazione, spinge ogni essere umano ad adottare nelle diverse circostanze della propria esistenza quei comportamenti e quelle azioni che producono vantaggi per il singolo e, al contempo, vantaggi per la collettività. L’etica è la forma più elevata di empatia sociale.
Non è sicuramente una definizione esaustiva, ma l’espressione “empatia sociale” mi aveva sorpreso, per due motivi che si ricollegano alle parole del professore. Il primo è strettamente legato al termine “empatia”, molto discusso nella professione infermieristica perché chiama in causa inevitabilmente la vulnerabilità del professionista. Senza pretendere di dare una definizione completa ma per cercare di articolarla al concetto di vulnerabilità ed etica, possiamo definire l’empatia come la capacità di comprendere l’altro, di “mettersi nei suoi panni”, capacità che presuppone relazione e apprendimento. Per essere empatici non basta incontrare l’altro, occorre invece stare in relazione con l’altro e scoprire la sua alterità ovvero ciò che sta al di fuori di me e che non mi appartiene e affinché questo processo possa portare alla cura è fondamentale ri-conoscere la vulnerabilità come punto di incontro.
Riconoscersi entrambi come esseri umani, limitati, bisognosi sempre di qualcosa o di qualcuno e per questo vulnerabili, non c’è altra via. Quante volte ci viene chiesto detto “Ma come fate a stare vicino a così tanta sofferenza?” oppure abbiamo discusso sull’essere più o meno empatici perché l’empatia può avere effetti psicologici distruttivi su noi stessi come professionisti e quindi mettere a rischio la sicurezza della pratica e della relazione.
L’empatia richiede di togliersi la maschera della freddezza, del distacco, della distanza e riscoprirci, nell’ambito della relazione, come esseri umani, con le nostre domande, le nostre incertezze, le nostre fragilità e i nostri limiti. Questo non riduce le nostre responsabilità, né tantomeno sminuisce l’importanza di possedere le conoscenze scientifiche e competenze necessarie per rispondere prontamente e con lucidità al bisogno assistenziale ma le pone su un piano diverso. L’empatia infatti non presuppone risposte già date ma è essa stessa apprendimento perché si sta in relazione sempre in modo nuovo e si scopre un’alterità che è unica e quindi richiede di rispondere in modo altrettanto nuovo e unico.
Così anche l’etica, è un percorso di comprensione aperto all’altro, che non fornisce risposte già date e non le cerca solo fuori da sé ma nel dialogo con l’altro. È mettendosi in comunicazione e relazione con l’altro che emerge il “che cosa fare” ovvero quell’agire che assume un carattere imperativo non per imposizione ma per riconoscimento reciproco. Nell’ambito clinico-assistenziale, l’etica in questo senso assume una speciale rilevanza soprattutto quando, da professionisti, si è chiamati a scegliere cosa dovrebbe essere fatto tra le molte cose che possono essere fatte per il paziente nella specifica situazione clinica; tuttavia, non sempre appare immediatamente chiaro ciò che è giusto/bene/meglio fare.
Nella pratica assistenziale quotidiana non basta riferire le proprie scelte e azioni alle buone pratiche cliniche assistenziali o prove scientifiche di efficacia. Ci sono situazioni che non possono essere risolte applicando le linee guida e in cui l’intervento sanitario non può più essere deciso solo dai professionisti sanitari, ma deve essere innanzitutto concordato con il paziente in quanto persona autonoma e capace di determinare le proprie scelte. In questo senso l’infermiere diventa agente morale, cioè una persona che ricorre alla conoscenza e al processo di ragionamento etico poiché il suo agire è condizionato dalla persona, dalla situazione e dalla cornice valoriale, di norme e principi riconosciuti dalla professione di appartenenza.
L’aggettivo sociale accanto a empatia aggiunge un altro aspetto in cui non mi riconoscevo a inizio lezione ovvero che l’etica ha a che fare non solo con il “tu” ma anche il “noi” e quindi con un senso di appartenenza a una comunità in senso lato, quali la famiglia, la comunità scientifica, la comunità professionale in cui trovano riconoscimento quei principi, valore, norme che ci guidano. Parlare di empatia sociale significa non solo condividere questi elementi ma anche riconoscersi nell’agire dell’altro, nella sua azione. L’ agire dell’altro mi interessa, non perché diventi oggetto di giudizio (azione giusta o sbagliata) e nemmeno a fini egoistici (se agisce così allora io…) ma perché siamo “esseri in relazione con…” e c’è in gioco una responsabilità condivisa.
Dopo questa lezione non ho saputo frenare quell’istinto, professionalmente deformato, di dare concretezza a questo sapere ovvero di cercare di tradurre nell’esperienza questi concetti. In che modo queste parole risuonano nel nostro contesto professionale? Ognuno può cercare la sua risposta: riaffiorano i ricordi e le emozioni, rientro al lavoro e trovo la mia. Fu così che capii che c’era posto anche per noi infermiere a quella lezione.
5 aprile 2023