Dobbiamo imparare bene le regole in modo da infrangerle nel modo giusto (Dalai Lama, 2013)


Le regole connotano anche i luoghi di cura ma quale è il confine tra il buono e il cattivo uso delle regole? Quando le regole non regolano ma allontanano dagli obiettivi? Quando, in altri termini rischiano di “svuotare” di senso la cura?
Quale miglior interlocutore per provare a trovare risposta a queste domande se non Edoardo Manzoni Direttore Generale Istituto Palazzolo e Docente di storia e filosofia dell’assistenza infermieristica – Università degli Studi di Milano.
A lui abbiamo chiesto di portarci dentro le regole e lui sapientemente ci ha trascinato dentro un percorso tanto complesso quanto affascinante dal quale si può uscire solo con molte suggestioni e tanti spunti di riflessione.

Ogni comunità ha bisogno di regole. Ogni dualità, sia essa sociale, organizzativa, professionale ha bisogno di regole che determinano il confine di pensiero e di azione.
Dal punto di vista epistemologico la Regola va distinta dalle regole. Nello sviluppo scientifico della conoscenza, nonché nell’universo dell’etica, la Regola è “modo di svolgersi ordinato e costante che si riscontra nella quasi totalità di alcuni fatti, nel campo della natura o dell’agire umano” (dizionario etimologico Treccani); essa rappresenta quindi il precetto lungo il quale si sviluppa l’accumulo conoscitivo.
In via pratica, nelle società organizzate, quale quella occidentale, le regole sono convenzioni con riferimento al modo di vivere, di comportarsi, sia individualmente sia nella vita associata. Sono regole scelte, subite, condivise che trovano nel concetto di professione e di organizzazione la celebrazione di una apoteosi.
L’esempio più emblematico, nella storia dell’assistenza, trova genesi nel mondo monastico di tipo cenobitico quando la convivenza tra più religiosi – sin da Pacomio – genera la necessità di costruire una Regola come condotta etica di vita, che contiene delle regole tra le quali quelle assistenziali che manifesteranno compimento nella regola di Benedetto del 534 d.C. (Capitoli XXXVI e XXXVII). Il monachesimo fonda l’hospitalitas e le sue organizzazioni.
Ciascun uomo è chiamato a vivere una Regola di vita quale idea direttrice virtuosa dell’esistenza e per questo costruisce per sé e per gli altri, regole. Per andare al sodo, e in una visione di sapere pratico, oggi viviamo immersi in un modo sofisticato di regole a volte volute e condivise e a volte subite e negate. Non sono tuttavia pensabili società senza regole poiché il rapporto tra il limite individuale ed un costrutto sociale è ciò che arricchisce l’io fino a farlo divenire un noi.
Le regole sono vere e durature solo quando riescono a contenere la dimensione di Senso della Regola. Le nostre società così vivide nel celebrare il sapere procedurale rischiano di relegare il significato delle regole al “come”. Esse invece sono reali nel momento in cui riescono a contenere un “perché” un “cosa” e un “come”. Le regole debbono avere un contenuto di senso, un metodo che le può applicare e debbono essere orientate ad un fine, un telòs, che ne genera il significato. Vi sono quindi regole e regole.
La domanda di fondo, che appassiona la filosofia in generale e quella dell’assistenza infermieristica in particolare, da secoli, è se le regole lascino spazio alla Regola ovvero alla condotta morale e di libertà di ogni uomo. A volte le regole paiono disancorate al vivere dell’uomo, degli infermieri, delle persone destinatarie del nostro agito professionale. E’ il tema della libertà che in questa sede non può essere trattato.
Certamente le professioni, e segnatamente quella infermieristica, e le organizzazioni complesse come quelle sanitarie basano la loro coesione su sistemi di regole che diventano, di volta in volta, procedure, regolamenti, leggi, abitudini e consuetudini.

Le organizzazioni sanitarie
Da sempre il mondo della salute ha bisogno di regole organizzative. Sono frequenti le tracce storiche e proprio i regolamenti ospedalieri sono tra le fonti di ricerca storica più significative. La esplicitazione delle definizioni delle figure, la attribuzione dei ruoli e funzioni, le relazioni verticali ed orizzontali, unitamente alle regole di ammissione degli ospiti e delle regole di convivenza sono consolidati sin dell’XI° secolo. La complessità del fenomeno di cura, i numerosi attori, l’interpretazione culturale del concetto di salute, le legislazioni dei potentati di ogni tempo, hanno costruito sistemi di regole stringenti, nei determinanti di spazio e tempo.
Questi sistemi di regole sono certamente necessari alla convivenza e alla determinazione dei ruoli di responsabilità per il raggiungimento dell’obiettivo del benessere. Va aggiunto altresì il naturale conflitto tra le regole professionali e le regole organizzative sanitarie, fenomeno ben descritto in letteratura manageriale.
I sistemi sanitari moderni, sin a partire dai sistemi di classificazione degli ospiti, sono una somma innumerevole di regole che spesso sembra poco conciliarsi con i proclami delle carte dei servizi sulla personalizzazione delle cure e la centralità della persona presa in carico.
Nonostante le dissertazioni accademiche sulle evoluzioni organizzative verso modelli flessibili e concentrici, le organizzazioni sanitarie italiane paiono in larga parte ancora costruite e fascinate dai modelli tayloristici e fordisti delle burocrazie meccaniche ove le regole definiscono i compiti ed hanno per oggetto di interesse l’operatore e non il destinatario.
Sono le organizzazioni “per giri”, le eccessive standardizzazioni, i mansionari oggi rivestiti da job description. In queste organizzazioni il soggetto divengono le regole e l’umano, del professionista e del destinatario, è solo nominalmente celebrato.
In queste organizzazioni sanitarie si crea un vero paradosso: le regole vengono interpretate come egualitarismo (dare a tutti la stessa cosa) che nega un assioma epistemologico dell’assistenza infermieristica (dare a tutti ciò che richiede la loro necessità). E’ la differenza tra ugualitarismo ed eguaglianza. Noi crediamo alla seconda.

Le cure infermieristiche
La cura, intesa come fattore ontologico dell’uomo, è un determinante essenziale alla Regola di vita di ogni uomo ed anch’essa abbisogna di regole
Esistono infatti alcuni requisiti regolatori che consentono l’efficacia delle cure infermieristiche quale interpretazione professionale che partecipa alla caratteristica umana della cura.
Tra queste regole ricordiamo :

1. Cura è scelta. Curare ed essere curati è una scelta di com-prensione (prendere in cura). Attuare prestazioni evidentemente scientifiche – fatto non negoziabile – richiede non necessariamente una scelta intrisa di tutte le componenti del sé. Qui sta probabilmente il vulnus di vocatio alla nostra professione poiché l’orizzonte socioculturale in cui l’uomo occidentale vive e le professioni (e le organizzazioni sanitarie) sanitarie trovano il loro humus sembra orientarsi verso altri obiettivi di realizzazione del sé.

2. Cura è incontro con l’alterità, incontro che apre alla necessità e al desiderio di riconoscere una Alterità.
– L’Altro in me, l’Altro fuori da me. Scegliere di stare di fronte all’Alterità, all’Altro per ritrovare il Senso di sé stesso.
– L’altro, ci insegna Ricoeur (1990), ha due interpretazioni principali nella lingua latina:
Alius
Alter
– Questo percorso che porta da alius ad alter è una tensione etica di regole relazionali che fornisce senso alla relazione curante. L’Adsum e la Cura sospinge lungo il percorso che va da Alius ad Alter.
– Uno stare che è una presenza totale, ostinata, a volte non voluta e subita ma piena e fruttuosa, fatta di misura oltre ogni misura. Una presenza sensoriale.
– È in questo stare che vive la Cura e le cure dei professionisti infermieri; è in questo stare che si com-prende il Senso.
– Regole per un cammino, professionale ed umano di pellegrino verso un altrove (Adorno, 1994; Bauman 1999).
– Scrive Han “Il tempo in cui c’era Altro è passato. L’Altro come mistero, l’Altro come seduzione, l’Altro come Eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come inferno, l’Altro come dolore scompare. La negatività dell’Altro cede il posto alla positività dell’Uguale” (Han, 2017).
– Oggi preferiamo all’Altro cercare l’Uguale.
– Come detto, molte organizzazioni sanitarie ancora oggi sostengono l’Uguale definendolo come diritto e dividendo i grandi proclami teorici dalla azione quotidiana.

3. Cura è presa atto della reciprocità. Per prendersi cura è necessario riconoscere una reciprocità: riconoscersi in una appartenenza ed in una relazione che è una esperienza esistenziale, pur con ruoli differenti.
– Il professionista, quotidianamente, celebra la sua identità eccentrica, trova il suo senso fuori di sé (Steiner 1919; Gehlen 1940).
– Riconoscere nella Cura e nelle cure la reciprocità:
– Valorizza il limite di sè e dell’altro.
– Riconosce l’altro come soggetto e non come oggetto.
– Costruisce una relazione unica ed irripetibile, insondabile ed autofinalizzata (Mounier, 1954).
– Ri-conosce le parti e le emancipa verso la Trascendenza.

4. Cura è creare uno spazio. Lo spazio prima di essere un luogo fisico è uno spazio psichico e concettuale. I muri prima di essere fuori di noi sono dentro di noi.
– Cambiamento e complessità, quali cifre descrittive del XXI° secolo, hanno fatto tramontare repentinamente i paradigmi temporo-spaziali in cui la maggior parte degli operatori sanitari si sono formati e hanno professato le loro competenze.
– Le suddivisioni oppositive tra prevenzione-cura-riabilitazione o ospedale-territorio non hanno più senso. Nel mondo occidentale e, segnatamente in Italia, a causa dei mutamenti demografici ed epidemiologici acclarati, l’unico contenitore spaziale che ha senso oggi è la persona presa in carico.
– Essa attraversa lo spazio e i tempi, i servizi e le professioni, lo stare bene e lo stare male.
– La Cura e le cure non hanno uno Spazio; sono esse stesse uno spazio.
– La salute è oggi una esperienza esistenziale che ha bisogno di uno spazio.
– Questo spazio ho bisogno di un tempo.

5. Cura è costruire una durata del tempo. La necessità di regole viene oggi giustificata dalla mancanza di tempo. Confiniamo il cambiamento della dimensione del Tempo in una percezione che chiamiamo “accelerazione”. Ma l’epoca della accelerazione è già conclusa. Ciò che avvertiamo come accelerazione è infatti soltanto uno dei sintomi della dispersione temporale. Viviamo una discronia, la mancanza di ordine che dia un ritmo. Questo fenomeno spinge il nostro vivere “fuori tempo”, lo agita e lo disorienta.
La discronia non è tuttavia il risultato di una accelerazione forzata quanto invece l’atomizzazione del tempo che porta in sé la sensazione che il tempo proceda più velocemente di prima. La dispersione temporale rende impossibile qualsiasi esperienza di durata del tempo stesso. Nulla contiene il tempo e la vita non è più collocata in quelle strutture d’ordine o coordinate che fondano una durata. In questo modo, noi stessi diventiamo radicalmente transitori. L’atomizzazione della vita genera infatti una identità atomizzata. Ciascuno ha solo sé stesso, il proprio piccolo io e si riduce, per così dire, l’esperienza di essere insieme, in sincronia. (Han, 2017)
È luogo comune affermare che non abbiamo più tempo.
– Il tempo della vita non viene più articolato attraverso tagli, conclusioni, soglie e transizioni, ci si affretta piuttosto da un presente all’altro. Così si invecchia senza diventare vecchi. E infine, si perisce intempestivamente.
– Ma quale visione, nell’ottica di Cura e di cure diamo al tempo;
– Kronos
– Kairos
Si impone una suddivisione netta, ai fini della trattazione, tra almeno due categorie di tempo: l’attimo (istant) e l’ora (now).
L’attimo è il tempo di Kairos; l’ora è il tempo di Kronos.
Secondo una certa tradizione filosofica, l’attimo ha un significato diverso dall’ora, che è il limite o la condizione del tempo, perché rappresenta una specie di incontro o di compromesso tra il tempo e l’eternità. Per Platone l’attimo non è né il tempo né l’eternità, né il movimento né la quiete, ma sta in mezzo ad essi e costituisce il loro punto di incontro.
Kronos è il tempo cronologico, è il tempo delle regole e della scienza, è il tempo della organizzazione.
Ma la cronologia non basta. Kronos non basta.
Tra le ore che si susseguono esiste un non-tempo – l’attimo – che è segno di eternità.
Infatti, l’altra dimensione del tempo portata dagli antichi greci era definita come Kairòs. Termine difficilissimo da tradurre in modo esaustivo, kairòs è il tempo favorevole, il tempo perfetto, il tempo di opportunità, il tempo in cui la cronologia si ferma e si costituisce in un’immanenza assoluta. E’ il tempo dell’istante, di una parola detta all’operando, di una mano sfiorata oltre ogni sicurezza clinica, di un buongiorno detto nella sala di preparazione o mentre ci si mette su un lettino operatorio. E’ il tempo di pronuncia del nome di battesimo. E’ un tempo salvifico in cui gli infermieri stabilmente vivono.
Ecco perché l’assistenza infermieristica non ha un tempo ma è essa stessa un tempo.
È il tempo del toccare, è il tempo dell’assistere, è il tempo della nostra attività quotidiana. In questo senso è il tempo dell’eterno nel quale il gesto assistenziale si pone, al di fuori della frenesia dell’ora ed è momento in cui l’uomo percepisce, di non essere il centro ma trova il proprio centro in quell’esperienza d’infinito che chiamiamo relazione di cura e che, così come vive nell’attimo, non si ripeterà più.
Vivere il tempo dell’ora per frapporsi in esso col tempo dell’istante e divenire insieme – io infermiere e io paziente – luogo di eternità.

Oltre le regole
Da quanto sommariamente tracciato si celebra un possibile conflitto tra le regole delle organizzazioni sanitarie e le regole della pratica clinica infermieristica.
Conflitto fisiologico di fatto ma bisognoso di un territorio di confronto e riflessione.
Il XXI° secolo non è più, nei temi della salute, un secolo di contrapposizioni ma un secolo di congiunzioni. Il conflitto tra regole professionali e regole amministrative non può chiedere una scelta di campo a favore dell’uno o dell’altro ma una congiunzione che pone in relazione i sistemi regolativi delle diverse parti trovando minimi comun denominatori.
Le regole organizzative sono essenziali e vanno rispettate; le regole dell’azione disciplinare sono alla base della nostra promessa deontologica e teleologica. Non si va contro nessuna regola, ma si può sempre andare oltre le regole.
Andare oltre, per sollevare la nostra unicità di persone curanti e la dignità delle persone prese in carico.
Le regole della cura tracciate sopra vivono sempre nell’oltre poiché trovano dimora nell’istante di kairos e mai nell’ora di kronos.
Scegliere la cura, cogliere l’alterità dell’altro, viverne la reciprocità, situarsi nello spazio e nel tempo. Tutto si riassume nell’istante, senza infrangere le regole organizzative.
Andare oltre le regole nella quotidianità. L’eternità non ha altro mondo che il quotidiano per noi infermieri.
Il rischio, nel succedersi dei giorni, è di confondere le regole con le abitudini.
Nella quotidianità noi solleviamo esperienze di senso.
Aristotele afferma che le buone abitudini costruiscono la coscienza etica ma Kant, molti secoli dopo, descrive le abitudini come inferno del mondo.
Nell’abitudine le regole perdono il loro legame di senso, diventano rigide, sovrapposte e, a volte, assurde.
Oltre le regole, nel tempo istantaneo delle piccole cose.

“Si fermi ancora un po’, disse lui.
Perchè?, rispose lei.
Per questa luce della sera, riprese lui.”

(K.kieslowski, film Rosso, 1994)

21 dicembre 2022

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