L’analisi del caso clinico e la formazione infermieristica: back to the future


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INTRODUZIONE
La metodologia didattica dell’analisi del caso clinico sta assumendo una rilevanza crescente nell’ambito della progettazione formativa della formazione infermieristica; consiste, come è noto, nel prendere in esame una narrazione strutturata di una situazione problematica, o di un insieme di avvenimenti, redatti e assemblati al fine di promuovere l’analisi e la discussione di un problema, per comprendere gli eventi e i comportamenti messi in atto in un dato contesto di riferimento.
I Descrittori di Dublino, letti come enunciazioni generali dei tipici risultati conseguiti dagli studenti che hanno ottenuto un titolo dopo aver completato con successo un ciclo di studio, evidenziano che le competenze attese del futuro professionista infermiere devono essere una risultanza sinergica di una formazione certamente orientata al processo per conseguire obiettivi ma anche di un percorso concentrato sugli esiti e su come programmare per raggiungerli, tenendo conto delle attese degli stakeholders (cittadini, professione, mondo dei servizi).
Conoscenza e capacità di comprensione, Capacità di applicare conoscenza e comprensione, Autonomia di giudizio, Abilità comunicative, Capacità di apprendimento rappresentano dunque uno scenario di abilità e competenze capace di rappresentare la professione infermieristica come realtà sempre più chiamata a rendere un servizio di qualità, quale contributo alla salute dell’uomo, richiedendo un percorso formativo che preveda, in sede accademica, tempi e spazi per una continua riflessione e una sistematica ricerca sui contenuti disciplinari e sull’orientamento deontologico della professione.
In questa prospettiva riteniamo che sia il dibattito aperto sulle riflessioni nate dal Movimento ‘Back to the Basics’ (Palese, et al., 2019) sia l’attenzione sempre più crescente per le Missed Nursing Care aprano un nuovo angolo visuale per la formazione infermieristica e per il sostegno dello sviluppo del pensiero critico e dell’autonomia di giudizio. Per quanto attiene il Back to basic, come sottolineato dagli autori dell’articolo citato, “si tratta di un modo per integrare le diverse dimensioni di cui si compone una infermieristica ‘matura’, nella complessa sfida quotidiana di sentirsi responsabili e coinvolti della cura dei pazienti”. Per le Missed Nursing Care, invece “va rivista la tendenza a pensare alla pratica degli esperti come basata su processi intuitivi: le decisioni possono essere basate su diversi approcci, in accordo al tipo di attività, al tempo a disposizione, ma anche al tipo, conoscenza ed alle condizioni del paziente. Le decisioni sono influenzate da fattori interni ed esterni, tra i quali è importante considerare la rilevanza del contesto aziendale e politico in cui si lavora, che influenza l’attribuzione di priorità e il razionamento delle cure”. (Sist & Palese, 2020, p. 198).
Quindi se da una parte il tema delle responsabilità infermieristiche delle cure totali e personalizzate deve assumere nuovamente un suo ruolo determinante nell’azione di nursing, dall’altra il decision making e la scelta delle priorità e di ciò che può (e non dovrebbe) essere tralasciato diventano una vera e propria nuova sfida.
L’analisi del caso clinico rappresenta quindi una metodologia didattica che da un passato ricco e denso di significato proietta e sostiene un futuro di competenze foriero di prospettive di crescita ulteriore. Un Back to the future, appunto.

L’ANALISI DEL CASO CLINICO: SVILUPPO DELLA METODOLOGIA
È un metodo antico, addirittura riconducibile all’età medievale, impiegato alla Sorbona come tecnica di insegnamento per chiarire l’applicazione di leggi o di principi in situazioni particolari; poi riscoperto negli anni Venti negli Stati Uniti, all’Università di Harvard e presso molte altre università americane nello studio di diverse discipline. In Italia si diffuse intorno agli anni Cinquanta e Sessanta, specialmente presso le scuole post-universitarie di formazione aziendale e manageriale (Avallone, 1991). Significativo, dal punto di vista epistemologico, evidenziare come il metodo dei casi concepisca l’individuo come “costruttore della realtà” che osserva: Roberto Ibba (2017) identifica il discente con uno scienziato che conosce il mondo con le proprie teorie, i propri schemi mentali e che, imbattendosi in qualcosa di sconosciuto e inconsueto, li mette in discussione e apre la propria mente all’osservazione dei fatti, non per mera necessità, ma per amore della scoperta. E quando un professionista riflette sulla propria prassi nel corso dell’azione “diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico. […] Non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul problema sino a raggiungere una decisione che successivamente dovrà trasformare in azione. Poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di azione, l’implementazione è costruita nell’ambito dell’indagine.” (Schön, 2006, p. 80).
L’attenzione si concentra quindi sulla necessità che gli individui siano in grado di apprendere dai contesti di vita, in modo riflessivo e consapevole, andando a considerare la formazione come uno strumento di costruzione di senso, un senso che non è stabilito a priori, ma che viene realizzato, riconosciuto e raccontato dai soggetti di volta in volta coinvolti (Alberici, 2007).
La caratteristica saliente della metodologia dell’analisi dei casi è la forte influenza sull’apprendimento della prassi che può essere definita come una “[…] modalità relativamente stabile e socialmente riconosciuta dell’ordinare elementi eterogenei, quali persone, conoscenze, artefatti e tecnologie in un insieme coerente” (Gherardi, 2003, p. 8). Al tempo stesso, è “[…] un processo mediante il quale possiamo dare significato al mondo e al rapporto che intratteniamo con esso” (Wenger, 2006, p. 63). Perciò il concetto di prassi descrive un fare strettamente legato ad un contesto storico e sociale che dà struttura e significato al complesso delle attività.
In ambito infermieristico l’insegnamento della pratica clinica è definito dal D.L. 2 maggio 1994 n°353 – art. 6, ora D.L. 6 novembre 2007, come “L’aspetto della formazione infermieristica attraverso il quale gli studenti, facenti parte di un gruppo e in contatto diretto con persone sia sane che malate o con una collettività, apprendono a pianificare, fornire, valutare l’assistenza infermieristica globale richiesta sulla base delle conoscenze e capacità acquisite; […]Gli studenti partecipano alle attività dei servizi nei limiti in cui tali attività contribuiscono alla loro formazione, permettendo loro ad imparare ad assumere le responsabilità inerenti l’assistenza infermieristica.”
La consapevolezza di questa definizione ci riconduce alla oramai storica dicotomia tra teoria e prassi che contraddistingue il sapere infermieristico. Già a partire dagli anni Ottanta emerge chiaramente un gap che è sembrato e, sembra, non facilmente colmabile, tra la teoria che viene insegnata nelle Schools of Nursing e quanto mostrato agli studenti nei contesti assistenziali in cui svolgono il tirocinio formativo ponendo di fatto lo studente di fronte ad una scelta, l’uno o l’altro modello. Secondo alcuni studi (Raso et Al. 2016) le cause del gap teorico-pratico sono strettamente correlate ad una dimensione che va oltre quella proposta nel curriculum formativo cosiddetto formale: vi è infatti una realtà che alimenta e plasma gli atteggiamenti degli studenti in maniera molto più incisiva di quanto non facciano programmi e lezioni d’aula. Si tratta di una dimensione che agisce sulla socializzazione e sull’acquisizione dei valori culturali e che risulta determinante per lo sviluppo dell’identità professionale perché, come ha sostenuto Christine Tanner (1990), riguarda “la socializzazione sottile, l’insegnamento che forma a pensare e a sentire come infermieri” (p. 71). Questa dimensione non intenzionale dell’apprendimento è stata definita per la prima volta nel 1968 da Philip Jackson come Hidden Curriculum, curriculum nascosto, affermando che gli studenti, per avere successo all’interno del sistema scolastico, dovevano imparare ad uniformarsi non solo alle regole formalmente stabilite dall’istituzione, ma anche a una serie di norme implicite, credenze, atteggiamenti perpetuati dall’insegnante in classe (Zannini, et al., 2011). La letteratura degli anni Novanta rivolge una certa attenzione all’esplorazione dell’Hidden Curriculum, mostrando la grande influenza di quest’ultimo nella formazione infermieristica e nel consolidamento del gap tra teoria e pratica. Questa conoscenza tacita, definita dal chimico ed epistemologo ungherese Michail Polanyi (1990) come “l’insieme dei saperi che ognuno coltiva e che vanno oltre quello che potremmo esprimere a parole, è un contributo appassionato della persona, non un’imperfezione, “ma un fattore vitale della conoscenza” (p. 70).
Gli esperti di ogni campo disciplinare conoscono dunque più cose, e le conoscono in modo diverso rispetto a quelle che sono state insegnate loro attraverso la formazione accademica. Per questo motivo il gap tra teoria e pratica non può risolversi concentrando l’attenzione solo sui contenuti, quanto piuttosto dando risalto ai meccanismi di apprendimento dello studente e allo stile di insegnamento del docente. Ci sembra importante, in questo momento di sviluppo della professione, interrogarci sul contributo che tale metodologia didattica può offrire in termini di studio, approfondimento, sviluppo del pensiero critico, del ragionamento diagnostico e del decision making in situazioni concrete.
Vorremmo comprendere in che misura l’Analisi del Caso Clinico possa fare da ponte con il tirocinio formativo e quindi con la pratica clinica: trova qui largo spazio l’insegnamento-apprendimento del processo di assistenza infermieristica come vero e proprio metodo clinico. In Italia si iniziò a proporre il processo di nursing come metodo clinico solo a partire dalla metà degli anni Settanta, mentre in America, già negli anni Cinquanta, “gli infermieri ritennero il ruolo esecutivo insoddisfacente e incominciarono a pensare di pianificare l’assistenza da un punto di vista olistico, considerando cioè ogni persona come un essere intero con bisogni particolari ed unici[…]La parte più importante del nursing, il processo, quale metodo professionale, non veniva utilizzato in tali piani di assistenza.” (Lindberg, et al., 1983, p. 295).
Pertanto, ancora oggi, potrebbe apparire attuale la domanda che si poneva venti anni fa Paolo Motta (2000) “sullo stato e sulle prospettive della metodologia infermieristica italiana e, soprattutto, sulle modalità con cui il processo di assistenza infermieristica, […], è attualmente insegnato ed applicato nelle organizzazioni sanitarie” (p. 38).
A seguito della riforma universitaria, i piani di studio degli attuali corsi di laurea includono molti ambiti disciplinari il cui contributo formativo è l’acquisizione di un sapere pratico, fatto di competenze e conoscenze, che costituiscono il patrimonio specifico dei diversi profili professionali. Questo patrimonio è fatto di saperi “espliciti”, che possono essere appunto dichiarati e studiati formalmente, e di saperi “taciti”, che si applicano a casi unici, differenti uno dall’altro, che non danno luogo a nessuna procedura di azione precodificata, ma permettono la comprensione contestuale della situazione (situated cognition) (Benner, 1984) (Mortari, 2009). Sono insomma un sapere di “regole individuali”, una forma di “saggezza pratica” (Manara, 2002).
L’Analisi del Caso Clinico si basa proprio sull’idea che un problema particolare richiede una soluzione particolare, in funzione delle condizioni uniche e specifiche del problema, ma anche propria della personalità di colui che deve fronteggiarlo (Goguelin, 1972). Ed è solo questa personalità, questa saggezza pratica, che può forse tentare di risolvere il conflitto tra teoria e prassi nell’assistenza: lo fa quando lo studente e poi l’infermiere riesce a sviluppare la capacità, o addirittura la virtù, “di coniugare e allo stesso tempo, il generale e il particolare, la tecnica e l’arte dell’assistenza, il sapere tecnico-scientifico con quello etico e valoriale” (Manara, 2002, p. 9). Sorge allora spontaneo chiedersi dove si apprende questa saggezza pratica: il tirocinio clinico, così egregiamente definito da Schön (2006) come “un mondo virtuale che si colloca nello spazio intermedio tra il mondo della pratica, il profano mondo della vita ordinaria, e il mondo specialistico del sapere accademico” (p.73), non può e non deve essere l’unica realtà in cui gli studenti imparano a pensare come infermieri. Perché allora non portare la prassi nel contesto accademico: in quell’ambiente protetto in cui il timore del giudizio, la paura di sbagliare, il rischio per la persona assistita vengono meno, ponendo l’attenzione anche sullo stato emotivo con cui lo studente apprende e metterlo nella condizione di sentirsi al sicuro; non è forse questo il prerequisito per l’apprendimento?
L’impiego di casi clinici reali si basa sulla convinzione che i partecipanti ai programmi di formazione possano migliorare in maniera significativa la comprensione dei fenomeni organizzativi ed accrescere la loro competenza attraverso lo studio, la riflessione e la discussione di situazioni reali, aiutando lo studente a ricercare una propria personale soluzione; l’analisi del caso clinico offre un vero e proprio “spaccato” di vita aziendale, offre un contesto, delle informazioni, un certo tipo di risorse, spingendo lo studente non solo a fare diagnosi, ma anche a familiarizzare con la propria soggettività e con quella dell’altro, sviluppando tolleranza, limitando il pregiudizio e il giudizio, e ricercando la comprensione delle motivazioni e valutazioni altrui. La strada che si sceglie di percorrere, la decisione formulata, sono il frutto di un insieme di dati soggettivi e oggettivi integrati tra loro su cui gli studenti potranno riflettere nel contesto del debriefing, collegando lo scenario e il giudizio clinico, migliorando la conoscenza clinica, nonché la capacità di giudizio e di ragionamento clinico in situazioni complesse. (Kim, 2014).

CONCLUSIONI
Da una parte dunque prospettive e competenze, (analisi del caso clinico, sviluppo del pensiero critico, formulazione del giudizio clinico) dall’altra gli stimoli che arrivano dallo studio delle Missed Nursing Care (MNC), fenomeno conosciuto, e riconosciuto, come aspetti della cura, omessi o ritardati, assistenza richiesta ed erogata per gli assistiti.
Gli studi in merito (Phelan, et al., 2017) (Lake, et al., 2019) (Sworn & Booth, 2020) hanno evidenziato non solo le attività specifiche ma anche ciò che la consapevolezza di questo fenomeno determina nell’equipe infermieristica (disagio morale, sensazione di inadeguatezza, demotivazione).
È di recente pubblicazione anche una ricerca sul tema delle MCN in ambito formativo (Palese, et al., 2020) dando modo così agli infermieri docenti formatori di riflettere su ciò che si omette come attività educativa e formativa. Quindi anche gli studenti non sono esenti sia perché frequentando il loro tirocinio clinico osservano, apprendono contenuti, si modellizzano su esempi di tutor clinici, sia perché sono al tempo stesso fruitori e attori di un percorso formativo. Arrivati a questo punto si rischia di osservare che sia la pratica ad essere troppo spesso lontana dalla teoria: si potrebbe allora fare un passo indietro – Back to basic – e restituire valore alle cure fondamentali spesso considerate “tempo perso”, arginare un’assistenza fatta di attività da eseguire o addirittura solo di attività ad alta specializzazione, come se la bontà del lavoro svolto dipendesse dalla quantità e dal livello dei compiti portati a termine – e ri-orientare gli sforzi – to the future – sull’importanza di una presa in carico completa, fatta di tempi e spazi adeguati, di attenzione e dedizione, dove il tutor clinico e ogni singolo infermiere che gli studenti incontrano possano essere l’esempio di quell’assistenza di Qualità cui ridare spazio tra le cattedre di formatori e ricercatori.
Back to basic/Back to the future sembrano dunque facce di una stessa medaglia. Ci si muove professionalmente tra queste due prospettive.
Facciamo nostra, parafrasandola, la riflessione del dottor Emmett Brown nel famoso film Back to the future: “Il nostro futuro non è scritto, il futuro di nessuno è scritto, il futuro è come ce lo creeremo noi perciò creiamocelo buono!” (Back to the future, 1985).

Conflitto di interessi
Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Finanziamenti
Gli autori dichiarano di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.

Contributi degli autori
Tutti gli autori hanno condiviso i contenuti dello studio, la stesura dell’articolo e approvano la versione finale dello stesso.

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Bibliografia

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