L’onere del caregiver


“Alzheimer, quando si intrecciano dolore e malattia i giudizi dovreste tenerveli nel cassetto”. Questo il titolo di un articolo di Selvaggia Lucarelli pubblicato su “Domani” il 19 marzo scorso. Un articolo che cattura, si legge rapidamente e facilmente perché usa termini comuni e quotidiani facili da “sentire”. Richiama in modo semplice ma quanto mai diretto, l’attenzione su un mondo tanto difficile e complesso, quello del caregiver. Il termine è scontato ma il contenuto tutt’altro: essere caregiver non è facile.
È una continua ricerca di equilibrio tra “scelte volute o dovute”, “dedizione o imposizione”, “esigenze di chi lo è o lo diventa” e di chi viene assistito.
Essere caregiver è un onere” dice Cinzia Botter Responsabile dei Servizi socio-sanitari semiresidenziali e domiciliari Presidio socio sanitario Osio Sotto (Bergamo) . L’abbiamo incontrata per parlarne.

Diventare caregiver è una scelta?
Tra le pieghe della sofferenza che spesso attanaglia molte famiglie, c’è una realtà nota, ma difficile da immaginare, che spesso non ha la giusta attenzione e narrazione nei settori che si occupano del benessere globale del singolo. Il termine caregiver entra nel vocabolario socio sanitario italiano a metà degli anni ’90.
«Di giorno tesseva la tela che avrebbe dovuto ultimare prima delle nozze, ma la notte, in segreto, la disfaceva. Racconta Omero che, con questo stratagemma, Penelope riuscì a ingannare per quasi quattro anni i nobili pretendenti che, dando per morto suo marito Ulisse (partito per la guerra di Troia vent’anni prima), la incalzavano affinché scegliesse un nuovo sposo
Ricominciare ogni giorno da capo, come Penelope con la sua tela, è uno dei tratti salienti del lavoro di cura e, più in generale, del lavoro domestico. Non possiamo lavarci, vestirci, mangiare, e pulire casa una volta per tutte, è necessaria una quotidiana manutenzione della vita, dei corpi e degli ambienti. Essa costituisce il prerequisito per qualsiasi altra attività, e perché la vita stessa si mantenga. L’impegno di cura cresce se oltre a provvedere a noi stessi, dobbiamo occuparci anche delle persone a noi care (bambini, persone con disabilità, persone anziane, la famiglia). Ma poiché questo lavoro non produce “oggetti”, tali non possono essere definiti la vita che si rigenera, le relazioni significative che ne scaturiscono, i corpi che si mantengono in salute, gli ambienti puliti, diventa molto complicato mostrarne gli esiti. Quale riscontro tangibile lascia il bacio sulle ginocchia sbucciate del figlio e l’attività rassicurante/consolatoria rivolta ad un genitore anziano che non ricorda più dov’è la strada di casa? O l’accudimento quotidiano di un familiare che non riesce più a fare le sue attività autonomamente?
I caregiver sono 8 milioni e mezzo, più del 17% della popolazione. 7,3 milioni di uomini e donne che assistono un loro familiare con un’età compresa tra i 45 e i 65 anni, anche se spesso, soprattutto nelle donne, la fascia di età è notevolmente più alta. Il 60% è disoccupato.
Succede che ad un certo punto della tua vita, senza immaginare che potevi assumere un ruolo così gravoso, vieni investito da una slavina che seguita ad investirti per lungo tempo senza mai arrestarsi, per trasformarsi poi in una valanga che ingloba tutto quello che trova nel suo cammino. Ti trascina a valle, ti fa perdere l’equilibrio, ti impedisce la lucidità, ti mangia la vita. Chi assume il ruolo del caregiver non necessariamente lo ha scelto, ma nella nostra società, nella nostra cultura, nel perbenismo a tratti falso e ipocrita del mondo in cui viviamo, sei stato educato a pensare “se non io chi?”. Oppure semplicemente ti sei trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ed è proprio questo che ammorba, che annienta, che fa diventare l’accudimento un accanimento. Ogni essere umano deve poter scegliere, deve poter decidere, deve poter ben vestire con consapevolezza i panni che andrà ad indossare. Questa persona deve avere la cognizione di quanto impegno, energia, fatica e onere deve assumere in questo ruolo non chiaro, non sufficientemente studiato e supportato e troppo spesso portato alla ribalta dalla nostra classe politica per racimolare voti parlamentari.
Ogni nucleo familiare ha il proprio vissuto intimo e da custodire, ogni membro di quel nucleo familiare conosce la bellezza e la sofferenza dei rapporti, delle relazioni, delle fatiche, ed è in tutto questo che si può manifestare la malattia e di conseguenza la necessità di decidere chi fa cosa e come. Ogni caregiver, nel raccontare la propria storia, porta la propria esperienza e il proprio vissuto. Ogni caregiver ha il diritto di essere ascoltato e rispettato. Nella mia esperienza professionale i racconti che mi vengono portati sono di persone che svolgono il ruolo di caregiver informale perché prescelti dalla condizione di figlie/i in cui non vi è più un coniuge o perché figli/e unici. Se invece il caregiver corrisponde al coniuge ed è ancora autonomo e in grado di accudire, soprattutto se donna, ecco che allora “apparentemente” il ruolo viene scelto dallo stesso caregiver. Subentra una profonda determinazione da parte di questa donna e moglie caregiver, una determinazione che porta allo sfinimento fisico e psichico. In molti casi a lungo andare diventa poi cogente l’intervento del resto della famiglia che deve prendere delle decisioni, che deve trovare delle situazioni di aiuto almeno giornaliere per un corretto accudimento della persona, ma e soprattutto per non affaticare il caregiver, ed è nel fare questo, nel prendere questa decisione, nel trovare delle soluzioni congrue a quella situazione, che il peggio delle famiglie esce. A volte non tutti i membri della famiglia sono d’accordo, a volte non tutti condividono consapevolmente il percorso, a volte non tutti sono intenzionati a sostenere ulteriori spese. Perché anche di questo si tratta.
Il peso economico di una residenza o di un servizio semiresidenziale è un elemento non trascurabile, non da poco conto.
Se sei figlio/a unico/a c’è poco da scegliere, da decidere, semplicemente sei già un predestinato. Se invece puoi condividere questa scelta a volte accade che non sempre è un bene, non sempre facilita il percorso. Ci vuole tanta coesione, tanta visione comune, tanta alleanza tra chi assolverà quel ruolo e chi farà da spalla al caregiver.
Forse sostengo un pensiero riduttivo o scontato ma diventare caregiver può essere e una scelta e allo stesso tempo una imposizione. Non ci sarà una storia uguale all’altra, tranne che per l’onere del ruolo.
Il nostro Paese per far sì che l’onere del caregiver diventi un impegno accettabile e sostenibile deve implementare un welfare più corposo, realistico e fruibile, deve azzardare in un futuro che è già presente.

Come si coniuga la funzione di caregiver con l’essere anche figlio/figlia/parente?
«Quando in sintesi il tempo non è gestito? Quando il passato, con il suo carico di problemi irrisolti è incombente e quando il presente, vissuto come il tempo della perdita, è intrattabile, così, il corpo familiare si contrae, oppure si frammenta e si disperde.» (V. Cigoli; La malattia del riconoscimento)
Esistono varie tipologie di caregiver informali che ricoprono il ruolo di figlie/figli o parenti.
I più a rischio di burnout sono quelli definiti “logorati” e “dedicati”, complessivamente più del 50% del campione, prevalentemente donne al di sopra dei 60 anni di età, che assistono a tempo pieno il coniuge ormai in fase avanzata di malattia, non hanno aiuto di alcun genere, hanno scarse relazioni sociali, qualche situazione conflittuale in famiglia, problemi di salute e sono psicologicamente molto provate.
Ci sono le figlie multi ruolo che rappresentano il 19,1% dei caregiver informali, impegnate nell’assistenza del familiare con il quale in genere non convivono, si occupano in prima persona anche della propria famiglia e dei figli. Si sentono stanche, sovraccariche di responsabilità e il loro impegno costante ha una ricaduta negativa prevalentemente sul piano psicologico e delle relazioni sociali.
E infine ma non ultimi i neo-caregiver e i caregiver supportati che rappresentano invece i familiari che si occupano della sorveglianza di un malato relativamente autonomo, quindi senza grossi cambiamenti nello stile di vita e coloro che, figlio o nipote del paziente in una età compresa tra i 21 e i 35 anni hanno un coinvolgimento modesto nella sorveglianza del familiare ancora ai primi stadi di malattia.
La graduale riorganizzazione di tempi, spazi e ruoli richiesta dall’assistenza al familiare non autosufficiente, espone l’intero sistema famiglia a pressioni e a confronti che rischiano di destabilizzarlo, anche in modo drammatico. Possono attivarsi nuovi conflitti, secondari a stanchezza, problemi economici o decisioni da prendere ma possono riattivarsi antiche tensioni che portano talora a fratture definitive. I cambiamenti imposti dalla progressione della malattia pongono problemi diversi, nelle varie fasi, sia da un punto di vista pratico e organizzativo, sia sul piano delle emozioni.
Spesso i figli nell’agire il ruolo del caregiver perdono di vista il loro essere e rimanere ancora figli, assumono più o meno inconsapevolmente un ruolo genitoriale che giustificano come azione protettiva nei confronti del genitore. Molto spesso arrivano a decidere, pensare, organizzare tutto in funzione di un ruolo che suppongono sia il più protettivo possibile e nel fare questo non riescono a “guardare” ad occhi aperti cosa effettivamente chiede il familiare e quanta capacità ancora possiede nel poter prendere decisioni.
Tutelare un diritto ne mette a rischio un altro. L’attività di cura spesso compromette il diritto del caregiver alla salute, al riposo, alla vita sociale e alla realizzazione personale.
Immaginiamo una donna. Monica, 45 anni, separata con due figli adolescenti. Monica lavora su turni presso un’azienda della sua città. Sogna di viaggiare e quando può va a ballare con gli amici.
Improvvisamente Fulvio, il padre di Monica, viene colpito da un ictus e non è più in grado di badare a se stesso. Non controlla metà del proprio corpo e non riesce a parlare. Nessuno della famiglia può o vuole occuparsi di lui tranne Monica. L’uomo rifiuta di andare in una Residenza sanitaria assistenziale e comunque le rette sono troppo alte, così Monica decide di curarlo a casa propria.
La vita di Monica cambia e cambia anche la sua casa, che dovrà adattarsi al nuovo arrivato e al passaggio di una carrozzina. Dovrà necessariamente recuperare quanto prima alcuni ausili che le permetterano di assistere e mobilizzare il padre in maniera più adeguata. Tutto questo, e non solo questo, ha un costo economico importante. La macchina nuova è già da cambiare: ne servirà una più grande, con la pedana automatica.
Al lavoro, col passare del tempo, cominciano i problemi. Per assistere il padre, Monica chiede continui cambi turno ai colleghi. Quando può evita i permessi della legge 104, ma alla fine si trova ad usarli spesso. Le sue assenze, a volte improvvise, danno fastidio ai colleghi. La situazione si fa stressante e Monica si chiede se questa situazione la costringerà prima o poi a lasciare il lavoro. Ma potrà mai riuscire a vivere solo con la pensione del padre e l’assegno di accompagnamento? Sono pensieri che l’affaticano, che non la fanno dormire.
Quando ritorna a casa dopo una giornata di lavoro, è stanca, irritabile. A volte le capita di essere poco gentile col padre e le dispiace. Accade che in alcuni momenti pensa che riavrà indietro la sua vita solo quando suo padre sarà morto. Malgrado tutto cerca di rimanere una figlia, anche se a volte il nuovo ruolo genitoriale che agisce nei confronti del padre la mette a disagio e le emozioni contrastanti che prova accompagnano ogni gesto quotidiano.
Tra il lavoro, le visite in ospedale e le giornate scandite dalle esigenze di Fulvio, Monica non sta mai ferma. Si accorge che sta trascurando i suoi figli, che sono sempre fuori e chissà cosa combinano. È preoccupata. Vorrebbe portarli in vacanza l’estate prossima, ma non è facile trovare qualcuno che si occupi di suo padre per così tanto tempo e poi ci sono i costi.
La situazione clinico assistenziale di Fulvio cambia di continuo e questo la costringe a imparare tante cose nuove e neppure mai immaginate. È diventata infermiera, medico, educatrice, ma si sente sempre inadeguata. Sono troppe le cose da sapere e non sa mai a chi chiedere, ha paura di sbagliare.
Ha assunto una badante per coprire gli orari in cui è al lavoro. Pensa che forse farebbe prima a stare a casa lei stessa, viste le spese e i grattacapi. Non è stato facile trovare la persona giusta per le esigenze del padre, e si chiede spesso se sia la persona giusta e la cosa giusta da fare. È difficile fidarsi.
Oramai le sue amicizie non esistono più, svanite nel nulla: non ha mai tempo da dedicare a sé stessa e alle relazioni amicali. Nemmeno per il cinema una volta al mese, o per le lezioni di ballo del giovedì sera. Si guarda allo specchio e si accorge che si sta trascurando, sta invecchiando dentro e fuori. Ha mal di schiena quasi tutti i giorni e il medico le ha detto di non esagerare con gli antidolorifici, che dovrebbe riposarsi.
Soprattutto, Monica è stanca. Le capita di trovarsi a fissare il vuoto e di non riuscire a muovere un dito. Il telefono suona, qualcosa brucia in cucina, il padre la chiama per nome. In quei momenti non le andrebbe nemmeno, se mai fosse possibile, di andare a ballare, o di partire per una vacanza in qualche isola sperduta lontano da lui e da ciò che la sua vita è diventata. Vorrebbe solo dormire.
Monica non è una persona reale. La sua storia immaginata è solo un esempio concreto, che potrebbe accadere a chiunque, magari con sfumature diverse, ci sono casi più semplici, ma anche situazioni più complesse.
Ogni vissuto ha il suo onere, ogni vissuto ha i suoi colori a macchie su un quadro che non si vorrebbe dipingere.

Quando il caregiver non ce la fa più…
Il caregiver nel suo percorso vive inevitabilmente delle fasi che passano dall’entusiasmo idealistico, alla fase della stagnazione, a quella della frustrazione per arrivare al disimpegno.
Nel tempo è un susseguirsi di emozioni altalenanti, di stati d’animo che portano poi alla disintegrazione della propria autostima. Si percepisce il fallimento in maniera tangibile. Il caregiver avverte l’isolamento sociale in cui la situazione lo costringe a vivere, vive sensi di colpa per non avere la giusta conoscenza della malattia, arriva ad avere una tensione e affaticamento nella relazione e soprattutto percepisce chiaramente la sua scarsa capacità di coping.
Si arriva sicuramente a quel punto, è inevitabile. Arriva il momento in cui la tua vita di figlia/o scoppia, implode. Chi tra i caregiver ha la fortuna di accedere ai gruppi di ascolto di norma proposti dai Consultori familiari, riceve concreto supporto e indicazioni su come proteggere il proprio equilibrio e la propria integrità psico fisica, anche attraverso alcuni suggerimenti.
La prima cosa che ti viene suggerita è di non permettere che la malattia del tuo caro sia costantemente al centro dei tuoi pensieri. La malattia difficilmente viene messa ai margini dei pensieri del caregiver, e la fatica dell’accudimento se condivisa, può essere percepita meno pesante, della prestazione fisica da sostenere. Il caregiver ha sulle spalle l’andamento quotidiano, al massimo riceve sollievo da altri familiari o da persone estranee al nucleo qualche ora nei fine settimana e la stanchezza è talmente a livelli importanti che invece di svagarsi il caregiver si isola ulteriormente. Il concedersi alcuni momenti per sé, soprattutto durante la settimana, è una opportunità di cui il caregiver può usufruire solo se ha possibilità di accesso e conosce i percorsi di richiesta per alcune misure assistenziali socio sanitarie o socio assistenziali. Sono misure assistenziali più o meno gratuite a seconda delle situazioni che variano dalla RSA Aperta ai CDI e altri sostegni a seconda della gravità della persona. Certo è che per avere tutte le corrette informazioni, il caregiver deve conoscere, deve essere informato. E sicuramente punti informativi dedicati al welfare con figure professionali competenti, possono fare la differenza. È attraverso la conoscenza e l’informazione richiesta e ricevuta che il caregiver ha la possibilità di difendere i suoi diritti prima di cittadino e poi di caregiver. Il caregiver deve avere il coraggio e la possibilità di piangere di tutte le cose e gli affetti che ha perso, ma deve lasciare spazio a nuovi sogni. Solo così potrà salvarsi.

Ad un certo punto può essere necessaria una scelta e questo può portare con sé dei giudizi…
La famiglia costituisce a tutt’oggi il più diffuso ed efficiente servizio di assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti sia da un punto di vista funzionale che cognitivo. Assistere un familiare soprattutto se affetto da demenza comporta affrontare alcuni nodi significativi in considerazione della lunga durata della malattia. Con l’aggravarsi delle condizioni cliniche, il caregiver affida sempre più le cure del proprio caro ad altri esperti e ciò può causare senso di esclusione e di inadeguatezza.
Il caregiver può arrivare a manifestare e vivere sintomi come l’ansia, l’insonnia, la depressione, il calo delle difese immunitarie con conseguenti problematiche di salute, un senso di stanchezza fisica e mentale, senso di inutilità, apatia, irritabilità, riduzione del livello delle performance, insoddisfazione, frustrazione. Si manifesta il burnout ed è più probabile in persone che senza neanche accorgersene finiscono per esistere solo in funzione della patologia del proprio caro, in coloro che si fanno carico da sole e/o che non usufruiscono di risorse di supporto alternative, in coloro che trascurano altre attività o se ne disinteressano e che si trovano a riversare ogni energia e pensiero nella malattia del proprio congiunto.
Spesso dalla manifestazione della sintomatologia del burnout alla disperazione di come affrontare la decisione difficile di come intervenire, trascorre un tempo indefinito che può essere più o meno lungo a seconda della consistenza o meno della coesione familiare. Le decisioni difficili sono: identificare una badante, l’inserimento in una residenza sanitaria assistenziale.
Quanto è difficile prendere una decisione di “allontanamento e distacco dalle cure che solo io so dare” con tanti sensi di colpa che disintegrano l’equilibrio emotivo già precario?
Quanto è facile invece, per chi in famiglia non ha l’onere del caregiver, pensare che “quell’allontanamento di sopravvivenza” è solo un egoistico abbandono? È solo una sfrontata assenza di volontà nel non voler più prendersi cura del proprio genitore come lui ha fatto con i propri figli quando li ha messi al mondo?
Ecco questi spesso sono i grandi dilemmi che vivono i caregiver orami logorati da fatiche fisiche e mentali che abitano quotidianamente sulla loro pelle con un forte impulso e convinzione che devono espiare qualche colpa che neppure più si ricordano.
Il caregiver va aiutato, va supportato, va accompagnato ad assumersi un ruolo con la consapevolezza che ad un certo punto dovrà prendere forse la decisione più difficile della sua vita, con la forza e la convinzione che quella decisione potrà gratuitamente essere giudicata soprattutto da chi quell’esperienza non l’ha provata, o se l’ha provata ha semplicemente preso una decisione diversa.
Non c’è un bene o un male, non c’è il bianco o il nero, ci sono le persone, le loro emozioni, le loro situazioni e i loro rapporti pregressi che spesso sono alla base del presente.

Marina Vanzetta
26 aprile 2022

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