Della perdita…


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DELLA PERDITA…
È il tramonto di un sogno, con la consapevolezza che mai nulla sarà come prima. E’ la rottura di una clessidra, con la sabbia che si disperde ovunque: impossibile raccoglierla e sanare la crepa. Se è sogno, è un bi-sogno, e allora è un desiderio. Una stella, per l’appunto un desiderio, la si può contemplare da tanti punti di vista: è pensabile che chi la osserva possa identificarla nel cielo, ma al contempo, lo sguardo di una terza persona potrà rimirare il riflesso delle stelle nei suoi occhi. Agli occhi del sognatore non appare però mai un cielo terso, l’infinito è da scrutare con profondità alla ricerca di un senso, anche laddove un senso non c’è più. Nel volto del sognatore spicca il sorriso amaro di chi è costretto ad assaporare il retrogusto della sconfitta, a bere il calice amaro che non può essere più rinviato. La notizia, la malattia, la perdita, il dolore dell’accettazione, si trasformano in uno slalom gigante nella cui discesa, anche l’imbattibile campione, inciamperà nei paletti.

DELLA PERDITA…
È il sorriso spento di un bambino. Ha soltanto poco più che quattro anni, e da qualche giorno ha imparato a scrivere il suo nome al contrario… di pomeriggio, quand’è controra, per tenerlo buono e far riposare la mamma, suo fratello più grande lo tiene sulle gambe e gli insegna pian pianino a leggere e scrivere. Ma la perdita è dietro l’angolo; fra di loro ci sono ventuno anni di distanza, il maggiore lo sente come un figlio. La donna con la falce è appostata…un’embolia cerebrale e puff…l’angelo ha spiccato il volo. Che dire al bimbo? Sapeva di un viaggio in prossimità ed è così che viene fuori la soluzione “più semplice”: E’partito…tornerà… Il piccolino attende, attende ancora, sono passati ormai diversi decenni, ma lui aspetta, certo che un giorno, in qualsiasi forma, potranno rivedersi. Da quel dì le vicende di quella disgraziata famiglia si sono susseguite con sempre maggior drammaticità e il piccolino pensa ancora che, se fosse morto lui al posto del fratello, tante brutte cose non sarebbero accadute. Il destino indossa la maschera dei cerusici della peste, si copre di un mantello nero, lo si può udire sghignazzare quando fa saltare in aria il tavolo con le carte dalla combinazione perfetta, ed è lì che s’insinua la colpa, la necessità della ricerca di una giustificazione e della possibile/impossibile soluzione.

DELLA PERDITA…
È la fine di un amore. Azioni e controazioni creano quel Moloch che trancia i fili e separa le persone, come fosse l’azione di un macchinista cinico e baro, appostato allo scambio fa andare il treno su un binario diverso, divaricando e sconvolgendo le esistenze. E’ lo scacco matto di Atropo che taglia il filo della vita, incurante del lavoro svolto dalle altre sorelle. Esiste soltanto la morte fisica? Il vapore del fiato contro i vetri delle terapie intensive, prodotto da chi era lì soltanto ad aspettare un cenno, un movimento di ritorno alla vita, oppure impalato fuori dalle tetre porte anti rei, ad aspettare una notizia nel tempo sospeso, nel pensabile incrocio con gli occhi dei curanti, con la speranza di ricevere un segno benevolo o di conforto. Non c’è perdita quando c’è amore, non sarà la fine di una storia o la morte di una persona a interrompere il flusso dei ricordi, l’affacciarsi di vignette sul capo con le scene di quello che è stato, di frammenti di vita nei quali siamo stati felici e certamente non ne eravamo coscienti.

DELLA PERDITA…
È una scatola bianca: contiene un vestito da prima comunione. La piccola che avrebbe dovuto indossarlo è sulla barella, appena rientrata dal Blocco Operatorio. Le hanno prelevato tutti gli organi, ma conservato l’anima. E poi quella, si sa, pesa solo ventuno grammi. Corre veloce verso il tanto agognato mare, quando alla sola vista dell’incantesimo verde, sguscia dalle mani dello zio, per finire la sua corsa sul cofano di un impietoso macchinone che travolge lei, le vite dei suoi e quelle dei curanti che l’accolsero. Sua mamma sa benissimo che sta chiedendo qualcosa che “non tocca” agli infermieri, ma la sua preghiera viene esaudita per quell’antico senso di compassione che è patrimonio di quel piccolo gruppetto di uomini e donne. Vuole soltanto che a vestire la sua piccolina siano le ultime mani che l’hanno curata, che l’hanno accarezzata, sperando nell’inverosimile.

DELLA PERDITA…
Non è la morte: sono due eventi separati. La morte è la cessazione delle funzioni di un corpo, ma quando il curante e il curato hanno condiviso molto tempo delle loro esistenze terrene, in alcun caso per il curante si potrà parlare di morte, ma sempre di perdita. Quest’ultimo ha rimesso in ordine ogni giorno la valigia del dolore del curato, attraverso i mille scompartimenti di cui è fornito ogni attrezzo del genere. Ha raccolto segreti e confidenze e si è anche confidato, perché ci sono giorni che l’esistenza pesa troppo anche per chi dovrebbe soltanto lenire. Ha offerto la sua competenza a lungo tempo, non soltanto pensata per protocolli e procedure, ma soprattutto per pensieri e condivisione. Ha suggerito, confortato, provato a spiegare, ha contraddetto e si è contraddetto, ha combattuto le paure, comprese le sue. Ecco perché il Codice Deontologico da molti anni si esprime con il termine perdita. La secchezza della parola morte, spesso compendiata da: “è scomparso, è salito al cielo, è tornato alla Casa del Padre, è venuto a mancare” serve soltanto, nel primo caso a tentare di esorcizzarla, nel secondo quasi a rassicurare chi ne scrive.

DELLA PERDITA…
È il rimbombo di una lacrima. L’impareggiabile domanda, l’enigma degli enigmi è: quanto pesa una lacrima? Lo sa soltanto chi le versa, è un dato rilevabile nei solchi nel volto di chi le piange. Quando si narra di una persona che non c’è più, immancabilmente i superstiti, coloro che lo hanno amato, arrossiscono in viso e piangono. Chi assiste o porge le sue condoglianze, se credente ipotizza un ricongiungimento nell’eternità. Ma quando? E sotto quale forma? Si tratta di domande alle quali non vi è risposta, se non lo sguardo e la tenerezza che deriva dall’umana pietà. In fondo, resta sempre l’arcano irrisolvibile: la morte è la fine o un transito? Al di là di questo tutto è compensato, nella perdita, dal ricordo, dal riflettere sugli atti pensando “mi ha raccomandato di fare così…” Sarà poca cosa? Non per chi vive la sua esistenza come indicato dal Petrarca, guardando contemporaneamente avanti e indietro.

DELLA PERDITA…
È la svolta verso un nuovo tempo: “Era stata l’impresa più difficile liberarsi degli abiti di Marina appesi nell’armadio, che lui aveva imbustato e lasciato lì per anni. Li aveva tolti, uno per uno, liberati dall’involucro di plastica per cercare di ricordarsi dove e quando sua moglie li avesse indossati per l’ultima volta. Li avvicinava al viso ma non avevano più l’odore di Marina. Poteva darli in beneficenza, a qualche amica della moglie, ma non sopportava l’idea che un’altra donna potesse indossarli. E le scarpe. Qualcuna portava una leggera impronta del piede nella soletta. Su un paio di sandali estivi era riuscito a contare le dita. Aveva portato tutto in campagna, insieme a Brizio e Furio, e li aveva bruciati. Mentre il fuoco divorava tessuti e cuoio, avevano fatto un brindisi in silenzio guardando il fumo che si alzava verso il cielo”(1). A svuotare case e cantine siamo esperti, meno per fortuna con memoria e cuore.

DELLA PERDITA…
È il ricordo di un bambino, la cui mamma ogni anno, alla sera di Ognissanti, immancabilmente preparava la tavola con il servizio pregiato, e i cibi migliori, per onorare la consuetudine in base alla quale, le anime dei morti di quella famiglia avrebbe fatto visita, assaporato qualcosa e portato consolazione. Ed è il recarsi nel luogo dell’eterno riposo: “Sbucciai la prima arancia e ne mangiai uno spicchio. Delizioso. I mici nel frattempo, si erano incuriositi sentendomi parlare. “Ciao” li salutai. “Non sono matta. Sto parlando con mio padre. Per tutta risposta si distesero sulla lastra e ripresero a sonnecchiare, storditi dal solleone. “Dimenticavo. Ecco il numero di questo mese dissi prendendo l’ultimo albo di Dylan Dog dalla borsa e sostituendolo con quello del mese precedente che avevo posto nella lastra, vicino alla bella foto. Quella per Dylan era una passione comune, che mi aveva trasmesso quand’ero ancora una ragazzina. In qualche modo ci legava ancora”(2).

DELLA PERDITA…
È lasciar andare l’immaginazione: “Per capire le persone bisogna immaginarle morte. A me capita di farlo con gli amici e con le amiche, quando muoiono, ma a volte anche da vivi. Ho bisogno di allontanarle per vederle davvero, per capire che cos’avevano di speciale, in sé o forse solo per me. In che modo possono essere raccontati … Ogni volta che muore una persona per cui ho provato affetto sento il bisogno di scriverne per descriverla a me stesso … E però ogni volta mi chiedo che cosa ci sia nei morti di vero e che cosa insegnino ai vivi. E’ la fine a dare un senso, cioè una direzione, all’inizio. E’ la fine a raccontare tutto, quello che è accaduto prima”(3).

DELLA PERDITA…

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Note

(1) Manzini, A. (2022). Le ossa parlano. Palermo: Sellerio.
(2) Pulixi, P. (2021). Per mia colpa. Milano: Mondadori.
(3) Papi, G. (2022). Quando la fine racconta il senso delle nostre vite. La Repubblica, 14.1.2022.