Limiti che possono diventare punti di forza


Una serie tv e un libro per riflettere su disabilità, pregiudizio, limiti che possono diventare punti di forza. Empatia, ambiente, relazioni buone e molto altro ancora nelle righe e tra le righe di Michele Caprini (1) che apre l’obiettivo “sull’essenza della cura”.
“Nelle scorse settimane, mi è capitato di seguire “Blanca”, uno sceneggiato televisivo che, al di là di critiche e opinioni sul prodotto in sé, ha raccolto un considerevole seguito di pubblico con un inusuale elemento d’interesse.
La protagonista, infatti, è non vedente. Ciò nonostante, trasforma il suo limite in primato, in un ambito professionale (la polizia) di grande difficoltà. Il rapporto con l’ambiente in cui opera e le persone che lo partecipano e, più in generale, la sua relazione in qualsiasi contesto non ne sono condizionati negativamente ma, piuttosto, segnati da una diversità che si fa fattore competitivo e abilita percezioni della realtà nuove, che diventano patrimonio comune.
La disabilità sensoriale è fortemente rivelatoria del pregiudizio, che causa costi sociali e inibisce possibili benefici. Mentre seguivo le vicende di Blanca, più volte ho ripensato ai libri di Oliver Sacks, medico neurologo che ha affermato, con i suoi lavori, un particolare approccio alla menomazione; vista, in alcuni casi, anche come possibile vantaggio.
Mi è venuto alla mente, tra gli altri, “Vedere voci”, che ho letto qualche anno fa. Si tratta dell’esplorazione, da parte di un udente, del mondo dei sordi ai quali, per la capacità di ampliare l’esperienza visiva e di servirsene per sviluppare una sofisticata forma di comunicazione, l’autore attribuisce lo status di minoranza linguistico-culturale.
Ora, mettere insieme una serie tv e letteratura medica, sia pure romanzata e divulgativa può essere un azzardo ma, privo di cognizioni professionali al riguardo, provo a cogliere un tratto comune che mi sia utile a ripensare certe convenzioni sociali e l’interpretazione di certi ruoli, come quello dei professionisti dell’assistenza.
Potrebbe essere l’empatia, in questa narrazione assunta a necessità quotidiana, cui guardo non tanto come dote della persona, ma come mezzo concreto di perseguire due obiettivi molto diversi. Da un lato, il risultato in una convivenza o terapia. Dall’altro, l’apprendimento di realtà “altre”, che renda possibile la rinuncia ai luoghi comuni, il miglioramento della relazione sociale e il beneficio derivante dalle capacità esistenti, nelle disabilità sensoriali o croniche, ma ritenute difficili o impossibili da ottenere.
Il passo da fare, ineludibile, è la comprensione di logiche e misure a noi non familiari.
È possibile mettersi in condizione di percepire la realtà esterna nel modo di chi non vede o non sente?
Basta la volontà o la disponibilità imposta dalle circostanze della convivenza?
È possibile farlo senza la mediazione di chi opera a contatto diretto con le persone?
Io credo che sia un errore circoscrivere il lavoro dell’infermiere, o di chiunque presta assistenza alla persona, alla soddisfazione di un bisogno.
Se, come credo, l’empatia – intesa quale combinazione di qualità personali, cognitive e pratiche – è il tratto caratterizzante la professione che non solo ne determina l’adempimento del ruolo, ma guida alla comprensione di contesti, relazioni e comportamenti di solito lontani dalla consapevolezza comune, ne consegue una semplice considerazione.
Ci troviamo di fronte non a semplici competenze professionali, quindi, ma a un tramite importante di conoscenza che quelle professioni abilitano. Da capitalizzare, per la comunità, nel recupero dei ritardi, dei “normali” e no, e nel cambiamento sociale.

8 gennaio 2022

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Note

(1) Attivo da oltre quarant’anni, in diversi ruoli, nell’Information Technology. Oggi è in Retex SpA, leader italiano nelle tecnologie e nei servizi per la distribuzione e il commercio digitale.