La compassione


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In un’epoca storica caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione, dove esseri umani profondamente diversi ogni giorno si incontrano, si sfiorano, si allontanano, riflettere sull’umanizzazione della cura significa in primo luogo ripensare motivazioni e modalità di agire la cura in un sistema di vita complesso. (Masera, 2007) Si potrebbe partire da un quesito: esistono gesti “umani”, parole “umane”, capaci di illuminare i luoghi abitati dalla cura? E la compassione potrebbe portare questa luce? La compassione (dal latino cum patior – soffro con – e dal greco συμπἀθεια, sym patheia – simpatia, provare emozioni con…) è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla. Il filosofo medievale Tommaso d’Aquino la considera la più alta di tutte le virtù, poiché non solamente apre il singolo al destino dell’altro, ma perché lo apre ai più deboli, a coloro che hanno più bisogno dell’aiuto e che sono nel dolore (Selva, Cento, 2001). Mentre il filosofo tedesco ottocentesco Arthur Schopenhauer, fa della compassione il perno del suo sistema morale. Nella sua opera fondamentale Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) così descrive il problema del dolore: “Alla vita è essenzialmente e inesorabilmente congiunto il dolore, ed ogni desiderio nasce da un bisogno, da una mancanza, da una sofferenza, perciò la soddisfazione, lungi dal costituire un vero benessere positivo e acquisito, non è che la rimozione di un dolore. Quindi tutto ciò che la bontà, la generosità e l’amore possono fare per gli altri si riduce a lenirne le sofferenze; né altro può ispirare e promuovere le buone azioni e le opere di carità, fuorché la conoscenza delle sofferenze altrui, che intuiamo nelle nostre, ponendole con queste allo stesso livello” (Schopenhauer, 1991:418).
Ogni amore è compassione, ogni amore puro e sincero è pietà, un amore che non sia pietà si riduce per Schopenhauer ad egoismo. Centrale nel pensiero del filosofo tedesco Martin Heidegger è il tema della cura intesa come condizione esistenziale-ontologica degli uomini, terreno fertile attraverso cui si sviluppa cresce e trova dimora la compassione. Nella sua opera Essere e tempo (1927) descrive l’essere insieme agli altri e l’essere nel mondo come il fondamento dell’esistenza umana, come il concreto mondo vitale degli uomini. Con il termine essere-nel-mondo si intende una forma di esistere che è sempre anche un co-esistere, una forma di essere presente e di mettersi in relazione con tutte le realtà circostanti. Un dato fondamentale di questo “essere- nel-mondo-insieme-ad-altri” è la “cura”. Questa cura viene concepita da Heidegger nei suoi due significati fondamentali, che sono strettamente legati l’uno all’altro: da un lato come un atteggiamento di richiesta, attento e pieno di abnegazione di fronte all’altro, e dall’altro come una preoccupazione e un’inquietudine; un uomo che ha cura si sente sempre chiamato in causa e disposto verso l’altro. Heidegger scrive che “essere-nel-mondo” è essenzialmente cura e aggiunge: «La cura si trova come totalità strutturale originaria in modo esistenziale aprioristico prima di ogni cioè, già sempre in ogni condotta e situazione fattuale dell’essere» (Heidegger, 1971:221-273).
Se la cura è la più profonda condizione esistenziale-ontologica degli uomini, allora in essa si manifesta la base più sicura per poter capire il significato della compassione: una concretizzazione e un’emanazione della cura. Compassione non quale sentimento pio, pietistico, una specie di sentimentalismo di fronte a coloro che soffrono, ma sentimento forte che ci fa provare il desiderio di cura per la vita dell’altro e presuppone una mancanza totale della volontà di potere sull’altro. Compassione come modo di essere che porta con sé una disposizione a preoccuparsi
dell’altro, a dedicarsi all’altro per cercare di alleggerire il suo dolore o per liberarlo da esso.
La compassione può essere intesa anche come un legame particolare con coloro che soffrono maggiormente.
La giovane filosofa francese Simone Weil nel suo percorso di ricerca, evidenzia la compassione quale capacità di immaginazione nella situazione dell’altro, al punto di spogliarci di noi stessi, per comprenderne pienamente la realtà della sua condizione:
Quando si ha freddo e fame per necessità, si ha sempre un poco di pietà per se stessi, per quanto si sia spiritualmente elevati. La compassione per chi ha freddo e fame, implica la capacità di concepire e immaginare se stessi in qualunque circostanza sociale e materiale, e di conseguenza la spoliazione dalle circostanze in cui ci si trova. È la nudità; quanto meno una nudità parziale (Weil, 1991:225).
Per provare compassione dinanzi ad uno sventurato bisogna che l’anima sia divisa in due secondo la filosofa. Una parte assolutamente preservata da ogni pericolo di contagio, una parte contaminata fino all’identificazione. Questa tensione per la Weil è la compassione. Compatire in senso weiliano è accettare nella propria vita la possibilità di sperimentare la sofferenza, una sofferenza non solo fisica, ma anche psichica, spirituale. Mentre sperimentiamo nella nostra persona queste dimensioni difficili, riusciamo a comprendere la fragilità, il disagio, il dolore dell’altro:
[…] l’attitudine alla compassione pura è esattamente proporzionale all’accettazione della propria sofferenza. La compassione è ostacolata dal rifiuto di accettare per sé la possibilità di soffrire. È il rifiuto di riconoscersi nella miseria altrui che è brutta mancanza di umiltà; la compassione non è mai pura senza umiltà (Weil, 1991:229).
La compassione quindi per Simone Weil non può che essere legata all’umiltà, virtù fra le virtù che consente all’essere umano di essere veramente attento ai bisogni di coloro che sono più deboli, svantaggiati, dipendenti.
La compassione e l’umiltà sono legate. L’umiltà è la radice di tutte le virtù autentiche. La compassione è naturale per l’uomo se l’ostacolo del sentimento dell’io è soppresso. Ciò che è soprannaturale non è la compassione ma questa soppressione. Soltanto l’umiltà rende illimitate le virtù (Weil, 1993:110).
Diversi studi in ambito di letteratura infermieristica definiscono la compassione una attitudine che implica che una persona prenda coscienza e si accorga della sofferenza di un’altra persona (Kanov et al., 2004). La compassione inoltre implica consapevolezza e identificazione con la sofferenza osservata (von Dietze & Orb, 2000).
Inoltre chi è vicino alla sofferenza, in particolare i curanti , descrivono la compassione come un complesso insieme di emozioni che vanno dalla preoccupazione, all’empatia e alla rabbia per la situazione in cui si trova la persona che sta soffrendo (Kanov et al., 2004). E ancora il curante può accorgersi della reale sofferenza della persona attraverso un care giver o ad una persona vicina alla persona che prova dolore (Gelhaus, 2012).
La filosofa statunitense Martha Nussbaum definisce la compassione «Un’emozione dolorosa provocata dalla coscienza della sventura immeritata toccata a un’altra persona» e sempre per l’autrice « la consapevolezza della sofferenza è seguita dall’azione che assume forme affettive, cognitive, morali e comportamentali» (Nussbaum 2004).
La compassione può quindi essere definita come un processo che coinvolge cognizione, affetti e azioni, caratterizzato da un insieme di elementi fondamentali: in primo luogo capacità di riconoscere la sofferenza come parte dell’umanità e della vita attraverso atteggiamenti di empatia e ascolto anche dei possibili sentimenti ostili, senza giudicarli né combatterli, mettendo in atto decisioni ritenute opportune per alleviare la sofferenza di chi in quel momento sta provando dolore.

In tanti contesti di cura la capacità di saper porre uno sguardo sull’altro abitato dalla compassione può costituire una possibilità per ripartire.
La sociologa statunitense Brené Brown (2016), studiosa di tematiche relative alla fragilità, sottolinea come abbiamo bisogno di coltivare l’unguento della compassione che ci consente di curare le ferite dell’ego ogni volta che lo stesso si sentirà oppresso dalla vulnerabilità, dal fallimento, dal dolore per ripartire nonostante e attraverso le nostre fragilità.
Un’altra prospettiva aperta dalla teologa francese Lytta Basset riguarda le modalità verso cui aprirsi alla compassione, definita dall’autrice come un’esperienza gratuita, un dono, offerta a ciascuno in un mondo dal funzionamento prevalentemente utilitaristico che la ignora sempre più, dove non c’è più tempo per fermarsi e guardare l’altro, per accoglierlo e ascoltarlo, per arrestare un tempo che rinchiude progressivamente l’essere umano nella solitudine. Dal momento che i criteri oggi dominanti sono la velocità e il rendimento, la compassione viene considerata da subito un lusso, una perdita di tempo quasi indecente, fino ad estrometterla dai processi formativi senza neppure farci caso (Basset, 2012:5). Forse , questa “condanna” della compassione, costituisce uno dei tanti segni del nostro tempo, della sua deriva individualistica e prestazionale, che pretende di cancellare la mancanza e lega alla vergogna ogni manifestazione di debolezza?
Nelle Professioni di cura e in particolare in quella Infermieristica il tempo di relazione è considerato a tutti gli effetti tempo di cura (art.4 codice deontologico 2019) e la compassione quale strumento in grado di riconoscere l’unicità dell’altro, soprattutto quello maggiormente fragile ed indifeso, costituisce all’interno delle relazioni interpersonali il cuore pulsante per una cultura della prossimità e della cura per l’altro. (Manicardi, 2012:33). La compassione allora quale espressione e sentimento non del nostro pietismo, ma di una “competenza esistenziale” , che si sviluppa attraverso e per mezzo della molteplicità delle esperienze di vita personali e professionali che ci vedono alternativamente guaritori e feriti, curanti e curati.

Conflitto di interessi
Si dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Finanziamenti
L’autore dichiara di non aver ottenuto alcun finanziamento e che lo studio non ha alcuno sponsor economico.

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Bibliografia

– Basset L., a cura di, 2012, Aprirsi alla compassione, Edizione Messaggero, Padova.
– Brown B., 2016, La forza della fragilità, Vallardi, Milano.
– Codice deontologico Infermieristico 2019.
– Dewar, B., Pullin, S., & Tocheris, R. (2011). Valuing compassion through definition and measurement. Nursing Management, 17(9), https://doi.org/10.7748/nm2011.02.17.9.32.c8301 .
– Gelhaus, P. (2012). The desired moral attitude of the physician:(II) compassion. Medicine, Health Care and Philosophy, 15(4), 397– 410. https://doi.org/10.1007/s11019-011-9368-2 .
– Heidegger M., 1971, Essere e tempo, Longanesi, Milano. Sul tema della cura cfr. cap. VI, La Cura come essere dell’Esserci, pp. 221-273.
– Manicardi L., 2012, Vedere e ascoltare la persona che soffre, in Aprirsi alla compassione, a cura di Basset L., Edizioni il Messaggero, Padova.
– Masera G., 2007 , La cura: compassione e responsabilità, Articolo in rivista: «Prospettiva persona», trimestrale di cul- tura etica e politica 60/2007, pp. 55-58.
– Nussbaum M., 2004, L’intelligenza delle emozioni, Edizioni IL Mulino Bologna.
– Kanov, J. M., Maitlis, S., Worline, M. C., Dutton, J. E., Frost, P. J., & Lilius, J. M. (2004). Compassion in organizational life. American Behavioral Scientist, 47(6), 808– 827. https://doi.org/10.1177/0002764203260211.
– Schopenhauer A.,1991, Il mondo come volontà rappresentazione, Mursia, Milano.
– Selva A., Centi T., 2001, a cura di, San Tommaso d’Aquino, compendio di teologia e altri scritti, Utet, Torino, su licenza ESD Edizioni Studio Domenicano, Bologna.
– von Dietze, E., & Orb, A. (2000). Compassionate care: A moral dimension of nursing. Nursing Inquiry, 7(3), 166– 174. https://doi.org/10.1046/j.1440-1800.2000.00065.x.
– Weil S., 1991, Quaderni, Vol. 2, Adelphi, Milano.
– Weil S., 1993, Quaderni, Vol. 4, Adelphi, Milano.