Il lavoro di cura e la famiglia


Sono un’infermiera della Pediatria e Neonatologia dell’Ospedale di Pordenone. Ci lavoro da sei anni. Non avrei mai pensato di essere assegnata come primo incarico in un reparto così specialistico, e invece così è stato, e adesso ringrazio di cuore chi mi ha indirizzato e sostenuto lungo il cammino. Rendo grazie perché è un mondo dinamico, in continua scoperta. È fatto di tante gioie, ma anche di dolore. Il mondo pediatrico non è come si pensa nell’immaginario collettivo “rose e fiori” (non sapete quante volte mi sono sentita dire “che bello, lavori con i bambini”, peccato che i bambini vengono alla nostra attenzione perché stanno male!); di fatti tutti gli operatori sanitari ammettono che ci si può essere portati o meno. Io penso, invece, che dovremmo essere indirizzati tutti a prenderci cura di questo ambito, sia nel prepararsi adeguatamente a livello accademico, sia nel considerare il bambino e la sua famiglia come principio del Sistema Cura. Per cui questa mia esperienza, insieme agli studi conseguiti, oggi mi permette e mi dà voglia di fare una riflessione sulla famiglia in relazione alla nostra professione.

Il 78% degli infermieri in servizio (quasi 300mila) è donna. E lo sono quasi l’80% degli iscritti agli Ordini delle professioni infermieristiche. La medicina di genere per la nostra categoria professionale non è importante solo dal punto di vista di personalizzazione delle cure, ma anche per le differenze legate al mondo del lavoro e all’organizzazione dello stesso, con tutte le diverse conseguenze che queste situazioni hanno nella differenza di genere. Le infermiere sono professioniste che hanno affrontato un lungo e severo percorso di studi universitari, completato da stage e perfezionamenti. Ma sono anche donne che molto spesso devono affrontare, oltre al normale peso dell’attività lavorativa, pure una responsabilità familiare e domestica che questa società, e la cultura del nostro paese, tende purtroppo ancora oggi a delegare eccessivamente alla sfera femminile. Il valore aggiunto e quello sociale per la nostra professione sono quindi evidenti. E questo dovrebbe valere anche per i percorsi di carriera.” (FNOPI, Medicina di genere)
L’infermieristica è un professione di cura, come l’insegnante, ed è una professione per ¾ composta da donne. Questo a riconferma che il lavoro di cura si vorrebbe completamente mercificarlo, trasferito all’infuori della famiglia, e dell’individuo stesso. Il lavoro di cura si riconferma poi ad appannaggio femminile, come se fosse una caratteristica intrinseca della donna. Ma se definiamo la cura come una pratica intrinseca dell’essere, quindi costitutiva di uomini e donne, non dev’essere più inquadrabile in un sentimento, ma in un qualcosa che si fa costantemente nel modo di relazionarsi con gli altri. E dove si inizia a relazionarsi con gli altri? In famiglia. Il mutamento dell’istituzione “famiglia”, a cui assistiamo oggigiorno, sembra riflettere e mettere a nudo la fragilità e l’eccessiva frammentazione di un Sistema di Welfare che sta esaurendo le proprie risorse, sia finanziare che umane. Possiamo trovare l’avvio al processo di de-istituzionalizzazione della famiglia sin dagli anni ’70 del secolo scorso, quando lo Stato decise di assorbire e assolvere funzioni socialmente rilevanti tipiche della “famiglia”, quali funzioni solidaristiche, educative, assistenziali, oltre che economiche.
I fattori scatenanti che hanno sostenuto e sostengono questo processo di de-istituzionalizzazione della famiglia sono molteplici: invecchiamento della popolazione, riduzione dei tassi di fecondità e di nuzialità, cambiamento del ruolo sociale della donna, maggior impiego delle donne e quindi minore dipendenza economica, sviluppo di nuove agenzie extra-familiari che coprono ambiti di cura che un tempo erano di competenza quasi esclusiva della famiglia, forti investimenti sui figli in termini economici e di aspettative (per cui la qualità della loro vita è fortemente correlata alla riduzione del loro numero), una diversa riorganizzazione del mondo del lavoro che distingue tra lavoro produttivo remunerato (ad appannaggio maschile), che produce anche effetti sociali e lavoro di cura non remunerato (ad appannaggio femminile), che è spesso fonte di discriminazioni. La famiglia dunque è sempre più vista una fonte di gratificazioni affettive piuttosto che di risorse. Però la famiglia, a prescindere dal momento storico, è sempre stata e sempre sarà il fulcro di una società, ciò da cui tutto nasce.
Le persone si sono sempre ritrovate nella “famiglia”, possiamo anche identificarla con un altro nome, ad esempio “società”, ma rimane l’anello di una catena che serve, che non può mancare all’uomo, perché è una catena che, sopravvivendo al tempo, dimostra di avere grandi capacità dinamiche, di adattamento al cambiamento. Il mutamento della “famiglia” non è tanto nella struttura ma sta nella volontarietà nella costituzione della famiglia: fare famiglia, anche essere famiglia, è diventata una scelta. E’ chiaro che più bisogni vengono rilevati, più dinamiche sono le famiglie, più ci apriamo alla globalizzazione, più ampia è la variabilità dei servizi offerti, maggior creatività nella gestione delle risorse umane ed economiche deve essere messa in campo.
Allora se ammettiamo che i mutamenti delle famiglie hanno un impatto sui sistemi di solidarietà istituzionali e privati, ammettiamo anche che la famiglia è uno dei tre pilastri redistributivi alla base del capitalismo del benessere, insieme al mercato del lavoro e allo Stato. Ma redistributivo di cosa esattamente? Di Cura. Dunque, fondamentale è riportare il lavoro di cura al centro del dibattito sociale e politico, perché è l’etica della cura la matrice per la costruzione di un nuovo modello di società più attento ai valori di eguaglianza, equità, giustizia, cura dell’ambiente globale per uno sviluppo sostenibile.

27 settembre 2021

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