La cura tra sentire e abitare


Una presenza autentica è il primo passo nella relazione di cura tra persona e professionista.
A sostenerlo è Barbara Sappa Responsabile infermieristico Area di Medicina e Cardiopolmonare – DPS – Fondazione IRCCS Ca’ GRANDA Ospedale Maggiore Policlinico e docente del Corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche – Humanitas University e del Corso di laurea in Infermieristica – Università statale di Milano.
Con lei abbiamo parlato di cura tra sentire e abitare ma anche della relazione tra dolore e bellezza e del significato delle lacrime nella comunicazione in un tempo, quello di oggi, caratterizzato di distanza, gesti sospesi e incertezza.

Barbara, descrivi la cura come principio etico non solo del fare e dell’agire ma anche del sentire e dell’abitare, ma come si abita l’umano concretamente e quotidianamente?
Credo che per abitare l’umano concretamente e quotidianamente si debba … ripartire dall’umano.
Come l’uomo conosce? Come agisce? Come esperisce? Che cosa fa della vita un tempo degno di essere vissuto?
L’esperienza è, innanzitutto, ricercare un senso in quello che ci accade, negli incontri che viviamo, nelle relazioni che ci costituiscono. Cosa quella circostanza o quel rapporto mi dice o mi chiede? Quale cambiamento mi suggerisce? Quale insegnamento mi porta?
Siamo esseri in divenire, quindi in continuo cammino verso il proprio compimento, verso una pienezza di vita e quindi, paradossalmente, ogni istante che viviamo ci chiede di interrogarci sul senso della vita, di quel che ci accade, di fare questo lavoro su di noi, affinché diventiamo più noi stessi. Vivere così ci mantiene a un livello vertiginoso, è come fossimo perennemente sull’orlo di un abisso o più semplicemente di un qualcosa di non conosciuto e quindi ci pone in una posizione di continua ricerca. Ricerca che è innanzitutto conoscenza di sé e dell’altro perché la nostra vita si svolge in una rete di relazioni.
È nelle relazioni che l’umano abita e in cui si attua pienamente la persona, nella relazione con sé e con gli altri, in una continua ricerca di significato, di senso: è un vivere intensamente il reale. Pur nella fisiologica incapacità di rimanere sempre a questo livello vertiginoso, ci è comunque richiesta una tensione perché, come Heidegger ci ricorda “ognuno è quello che fa e di cui si cura”. Ne consegue che la cura di sé e degli altri, come ben esprime Luigina Mortari nei suoi scritti, diviene il lavoro del vivere richiamandoci a una grande responsabilità: prendersi cura di sé e dell’altro per dar forma alla propria vita affinché il nostro e l’altrui essere fiorisca in un orizzonte carico di senso.
L’umano si abita concretamente e quotidianamente in una relazione autentica, tra un IO e un TU, tra l’infermiere e la persona assistita, attraverso gesti piccoli o grandi, prestazioni professionali che assumono lo status di gesti di cura per il riconoscimento della grandezza che l’uomo è, indipendentemente dal ruolo agito (infermiere / assistito) o dalla condizione di salute.
Io e te, io con te. Nella “e” e nel “con” – voluti, cercati, affermati e scelti ogni giorno – si realizza il nostro vero essere, l’esaltazione e il fiorire dell’io. In questo Noi vive l’Io, curante e curato. In una reciprocità perseguita e vissuta.

Tu metti in relazione dolore e bellezza quasi come se uno non potesse coesistere senza l’altro, che effetto hanno nella cura e nell’incontro tra persona e professionista?
Mi piace pensare al binomio bellezza – dolore come l’uno generatore dell’altro. Come il dolore, la bellezza trasforma e lascia traccia. Questa visione ha un’importante ricaduta nel come si concepisce e si agisce la cura.
Come professionisti possiamo distillare bellezza, ovvero aiutare la persona pur in una condizione di dolore, di fragilità a riconoscere la bellezza e a difenderla. Bellezza che scaturisce in un attimo di vita intensamente vissuta, nella pienezza di un incontro, nel sentire il pulsare della vita, nel sentirsi chiamato per nome, in un traguardo di salute raggiunto, anche se pur piccolo, in un giorno regalato perché diciamolo, non siamo in grado di aggiungere un solo giorno alla nostra vita, sia che ci troviamo in una condizione di salute sia di malattia. Questo richiede uno sguardo all’essenza della vita e del nostro essere uomini, dove l’opposto della vita non è la morte che ha come suo estremo la nascita; l’opposto della vita, che è presenza, è invece l’assenza.
Questo per dire che non sono le circostanze di per sé che rendono una vita degna di essere vissuta, ma la capacità di dare un senso a quella circostanza e cogliervi quegli aspetti positivi che rendono grande la vita e quindi bella. Noi infermieri abbiamo una grande opportunità in questo senso: accogliere il dolore e riaprire alla bellezza, partecipare alla co-creazione di questa bellezza insieme alla persona che si affida a noi con il suo problema di salute con cui stabiliamo una relazione autentica.
La bellezza opera attraverso di noi, attraverso la nostra incessante, appassionata ricerca e cura della bellezza, che è la forma sensibile del bene relazionale. Ascoltare con gli altri la bellezza di sé e del mondo. In questo senso siamo custodi dell’altro: ne riconosciamo la grandezza, la dignità, la bellezza, ricordiamo che ogni attimo, ogni istante ha un senso, anche quando l’altro non è più in grado di percepirlo. Custodi di senso.

Le lacrime, una forma di comunicazione, quale posto occupano nella relazione di cura?
Le lacrime sono fattore dirompente in ogni relazione, e quindi anche nella relazione di cura. Sono più eloquenti di qualsiasi altra forma di comunicazione.
Di fronte alle lacrime si sciolgono le distanze, allo stesso tempo tutto può essere vicinissimo oppure lontanissimo, i confini diventano incerti e liquidi, il tempo accelera e si riduce. Le lacrime permettono di intravvedere la persona nella sua essenza, in un momento in cui le difese sono abbassate, si lascia vedere in tutta la sua fragilità e vulnerabilità. Siano lacrime di dolore o di gioia, creano una relazione immediata, intima e preziosa, da accogliere e rispettare, difendere e mai banalizzare.
Una relazione che ci porta sulla soglia dell’alterità e può contribuire a creare le basi di fiducia per una relazione autentica e terapeutica che perdura anche quando gli argini si rialzano e la persona riprende il controllo delle sue emozioni. Quel momento condiviso resta per sempre, in ogni successivo incontro, con riconoscimento, condivisione, pudore che può nascere dalla vulnerabilità dimostrata o osservata, che ci ha commosso perché toccati profondamente da ciò che accade all’altro. E la commozione sempre genera un muoversi insieme, un muoversi con.
Più sviluppiamo competenze relazionali, più siamo in grado di accogliere e trasformare questo momento condiviso distillando la bellezza di cui parlavamo prima.

Coltivare le competenze affettive oggi, tempo dell’incertezza, della distanza e dei gesti sospesi…
Viviamo un tempo ferito, oggi più che mai dalle esperienze della pandemia, un tempo che è trascorso con una modalità tutta sua, accelerando e decelerando drasticamente. Un tempo intensamente vissuto e contestualmente un tempo sospeso. Questo ha acuito l’incertezza del nostro tempo, ci ha fatto sperimentare il nostro limite come uomini e come professionisti; ha reso più evidente la nostra vulnerabilità e fragilità costitutiva.
Credo che la questione essenziale non sia tendere a eliminare l’incertezza, ma imparare a conviverci guardandola come opportunità da esplorare, accogliere, trasformare. Perché non c’è crisi o difficoltà che non sia anche condizione ricca di nuove opportunità. Nella mia esperienza una figura essenziale è sempre stata quella del Maestro, una guida che getta uno sguardo diverso sulla realtà e sulle avversità; che vince l’intorpidimento emozionale permanendo in un dialogo continuo con se stessi e con l’altro. Che è un Amico nel senso più vero della parola poiché contribuisce al fiorire della nostra umanità, facendo della nostra vita un’autentica opera d’arte.
Coltivare competenze affettive è la via per riappropriarci pienamente della nostra umanità per incontrare l’altro su un terreno comune, sviluppando l’empatia e l’attenzione, cogliendo e partecipando al suo vissuto, creando così le condizioni perché si possa agire la cura autentica. Ed è nelle ragioni del gesto e nella sua espressione e realizzazione che incontriamo la persona assistita, attraverso uno sguardo, una parola o un silenzio, un tocco. Gesti a volte sospesi, ma non necessariamente gesti mancati. Un gesto che cura si realizza attraverso tutto ciò che siamo, in tutto ciò che siamo.

Marina Vanzetta
11 settembre 2021

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