L’infermiere è garante della salute del paziente ed il medico non può ignorare le sue richieste di intervento


A partire dalla sentenza n. 9368/2000 la Cassazione Penale ha esteso al personale infermieristico l’attribuzione di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, da cui discende l’obbligo di attivarsi alla fine di salvaguardarne l’incolumità da una possibile condizione di pericolo. Prima di allora tale attribuzione riguardava esclusivamente il personale medico ed in particolare il Direttore di Unità Operativa, in relazione alle disposizioni dell’art. 7 del D.P.R. 7 marzo 1969 n. 128 che attribuisce al primario la responsabilità dei malati e dell’articolo 63 comma 5 dello stesso D.P.R., in base al quale egli ha il potere di impartire istruzioni e direttive in ordine alla diagnosi ed alla terapia ed ha il dovere di verificarne l’effettiva attuazione (Cassazione penale sez. IV n. 1126 del 1 febbraio 2000).
Da sottolineare che l’individuazione della titolarità di una posizione di garanzia nei confronti di un paziente non è subordinata alla presenza di rapporti giuridici con la struttura sanitaria, ma all’effettivo esercizio dell’attività svolta, anche per atto di volontaria determinazione, che comporti conseguentemente l’assunzione degli obblighi connessi a quella posizione, direttamente scaturenti dalle funzioni di fatto esercitate, divenendo pertanto il sanitario responsabile delle condotte colpose che possano cagionare una lesione di questi beni (Cass. Pen. n. 12781/2000).
Nell’ambito della responsabilità sanitaria di rilievo penale assumono un ruolo rilevante, se non predominante, le condotte omissive improprie, quelle consistenti, cioè, nel mancato impedimento di un evento (morte o lesioni del paziente) che il professionista sanitario aveva, per legge, l’obbligo di impedire, secondo quanto previsto dall’articolo 40 del codice penale 2° comma, che così recita: «Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo».
Sulla base di tale precetto, risponde penalmente di omicidio colposo, ad esempio, l’infermiere che, non avendo adeguatamente monitorato il paziente, non informa il medico dell’aggravamento delle condizioni cliniche causandone il decesso, ovvero l’infermiere operante in reparto psichiatrico che non impedisce il suicidio il paziente, nonostante che tale atto autolesivo rappresenti un evento prevedibile ed evitabile con la ordinaria diligenza.
La vicenda affrontata nella sentenza n. 9368/2000 si è conclusa con la condanna definitiva per omicidio colposo di tre infermieri in servizio al Pronto Soccorso, responsabili di non aver eseguito immediatamente quanto disposto dal medico in servizio il quale, essendo già impegnato con una paziente, aveva richiesto agli infermieri di contattare mediante citofono l’altro medico reperibile, al fine di visitare un giovane paziente ricoverato a seguito di un trauma cranico. Tale omissione aveva causato un ritardo di circa tre ore nella formulazione della diagnosi, ritenuto causalmente determinante nel verificarsi del decesso intervenuto a causa di un’emorragia extradurale. Il medico, condannato in primo grado ed in appello, fu assolto perché la Cassazione ritenne che egli poteva fare affidamento sugli infermieri circa la tempestiva esecuzione di un ordine talmente banale e di semplice esecuzione, che lo stesso non era pertanto neppure tenuto a verificare.
A partire dalla sentenza ora richiamata la Cassazione, nelle pronunce successive, si è sempre allineata su questo modello interpretativo, ribadendo costantemente l’attribuzione al personale infermieristico del ruolo di garante della salute del paziente.
La sentenza della Cassazione Penale n. 9739/2005 ha confermato la condanna per omicidio colposo di un chirurgo, degli infermieri di corsia e di un medico di guardia interdivisionale per la morte di un paziente, verificatasi nell’immediato periodo post-operatorio a seguito di complesso intervento di asportazione di ampie escare cutanee da ustioni. Nel corso della notte le condizioni cliniche del paziente si erano aggravate con insorgenza di brividi, sudorazione fredda, conati di vomito e contrazione della diuresi ma gli infermieri, nonostante le richieste della moglie del paziente, non richiesero l’intervento medico, limitandosi ad aumentare le coperte e ad inumidirgli le labbra, determinando così un fatale ritardo nella diagnosi di shock emorragico.
Similmente, la vicenda decisa dalla Cass. Pen. n. 24573/2011 è relativa ad un paziente vittima di incidente stradale con frattura esposta di gamba trattata con osteosintesi, che presentò un aggravamento delle sue condizioni cliniche nel periodo post-operatorio con comparsa di vomito e sudorazione, tanto che i parenti sollecitarono invano gli infermieri del turno serale, richiedendo loro di avvisare il medico di guardia. Interessante notare che, in questo caso, la Cassazione ha affermato che «rientra pienamente nei compiti dell’infermiere l’obbligo di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico», sconfessando quindi perentoriamente le conclusioni alle quali era giunto il Giudice di primo grado, che aveva escluso che tale attività rientrasse nell’ambito dei doveri assistenziali del personale infermieristico.
La sentenza della Cassazione Penale n. 40036/2016 ha affermato la sussistenza di una posizione di garanzia per l’infermiere addetto alla Centrale Operativa 118, confermando la condanna per omicidio colposo a seguito di erronea attribuzione del codice di priorità ad un paziente affetto da crisi epilettiche, deceduto per il ritardo nei soccorsi in quanto l’imputato, contattato telefonicamente dalla madre del paziente, la quale riferiva di una grave e prolungata crisi epilettica del figlio, aveva omesso di attribuire al caso la particolare urgenza riservata al codice rosso, ritardando pertanto l’intervento e, a seguito di nuova sollecitazione della donna, aveva inviato sul luogo dell’intervento un’autoambulanza sprovvista di medico rianimatore a bordo. La Corte territoriale, riconosciuta la posizione di garanzia dell’imputato quale addetto al 118, affermava che la sua condotta era stata connotata da grave negligenza in quanto, sulla base della registrazione dei contatti telefonici intervenuti a seguito della richiesta di intervento, in violazione dei protocolli cui doveva uniformarsi il servizio di 118, aveva manifestato la indisponibilità dell’autoambulanza che copriva il settore di intervento senza procedere a un triage per sincerarsi della urgenza dell’intervento a fronte di una crisi epilettica, mediante l’analisi sullo stato delle condizioni vitali del paziente. Tale omissione non aveva consentito all’operatore di comprendere la criticità della situazione e la possibile evoluzione negativa della crisi epilettica, negando l’intervento in occasione della prima richiesta di intervento; egli inoltre, a seguito della seconda richiesta, aveva erroneamente deciso di inviare un’autoambulanza sprovvista di medico ove il personale infermieristico, che pure aveva tentato di prestare cura al paziente, non poteva che constatarne il decesso in mancanza di strumenti di rianimazione. In chiave causale, si riconosceva la ricorrenza di nesso eziologico tra il comportamento dell’operatore e l’exitus laddove il tempestivo invio di un mezzo di soccorso con medico rianimatore a bordo avrebbe consentito, con elevata probabilità logica, di garantire la sopravvivenza del paziente.
La sentenza della Cassazione Penale n. 2541/2016, relativa al decesso per aritmia maligna di un paziente ricoverato in UTIC sotto monitoraggio telemetrico colpevolmente disattivato dal personale infermieristico, è di particolare interesse perché ha ribadito l’autonomia professionale dell’infermiere nella vigilanza sanitaria dei pazienti.
La recente sentenza della Cass. Pen. n. 5/2018 è anch’essa (come quelle del 2005 e del 2011) relativa alla mancata vigilanza di un paziente nella fase post-operatoria, complicatasi con una emorragia rivelatasi fatale. Il procedimento penale in primo e secondo grado si era concluso con l’assoluzione del medico e con la condanna degli infermieri per il reato di omicidio colposo. Il primo era stato assolto perché, all’esito del dibattimento supportato da consulenze tecniche, si era ritenuto che le condizioni cliniche del paziente nel periodo in cui il medico si trovava in servizio non fossero tali da far sospettare una emorragia e quindi dover richiedere un emocromo per l’eventuale diagnosi, per cui la sua condotta fu giudicata corretta.
Diversamente, gli infermieri non seppero valutare adeguatamente alcuni «dati inequivocabilmente allarmanti» (crisi ipotensive, necessità di riapertura dei liquidi precedentemente chiusi dal medico e del posizionamento di cuscini sotto i piedi per far confluire il sangue verso la testa, ripresa di sangue nelle sacche di lavaggio della vescica, elementi tutti assenti al momento della valutazione medica) e tali da imporre la assoluta necessità di richiedere l’intervento del medico.
Agli infermieri furono quindi contestati sia la mancata comunicazione al medico di tale anomalo decorso clinico che l’omesso controllo della frequenza cardiaca e respiratoria del paziente, che avrebbe consentito di accertare la criticità delle sue condizioni cliniche.
La Corte di Cassazione, richiamando precedenti pronunce, ha ravvisato il fondamento della posizione di garanzia «nell’autonoma professionalità dell’infermiere che va oggi considerato non più “ausiliario del medico”, ma “professionista sanitario”, quale soggetto che svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente, essendo onerato di vigilare sul decorso post-operatorio, proprio ai fini di consentire, nel caso, l’intervento del medico».
Dello stesso tenore anche le sentenze n. 2192/2015 e n. 20270/2019, relative ad errori fatali nella somministrazione della terapia.
Il legittimo riconoscimento delle competenze professionali dell’infermiere, in particolare per quanto attiene il monitoraggio delle condizioni cliniche del paziente e l’individuazione di situazioni critiche che richiedano l’intervento medico, può, ovviamente, determinare un “ribaltamento” della responsabilità penale a carico di quest’ultimo nei casi in cui questi, pur a fronte di sollecitazioni da parte del personale infermieristico, ometta di intervenire, prospettandosi in tal modo la realizzazione del reato di omicidio colposo (art. 589 c.p.) o lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) laddove l’omissione o il ritardo siano da ritenersi causalmente rilevanti nel determinismo del decesso o dell’aggravamento delle condizioni cliniche, ovvero di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) anche in assenza di conseguenze dannose per il paziente.
Tale ultimo reato è così definito dalla norma penale: «Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblico o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni». Si tratta di un reato di pericolo, che ricorre ogni qualvolta venga omesso un atto dovuto ed imposto dall’ordinamento, a prescindere dal concreto esito della omissione (Cass. Pen. n. 3599/1997), ed anche nei casi in cui il paziente non abbia corso alcun pericolo concreto per effetto della condotta omissiva (Cass. Pen. 14979/2012 relativa alla condanna di un medico obiettore di coscienza per non essere intervenuto nella fase di secondamento avvenuta successivamente all’aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario, considerando che il rifiuto ha riguardato un atto sanitario, richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente).
Nella giurisprudenza della Cassazione Penale si rinvengono almeno due pronunce, di cui una recentissima, che hanno confermato la condanna del medico in relazione al reato di cui all’art. 328 c.p. per aver ignorato le richieste di intervento da parte del personale infermieristico. In entrambi i casi la difesa dell’imputato si è incentrata sull’elemento della discrezionalità tecnica, in base alla quale il medico può legittimamente non ravvisare la sussistenza di condizioni che gli impongano di aderire a tale richiesta, e sulla scriminante rappresentata dal contestuale impegno in attività non derogabili e che giustificherebbe l’omissione od il ritardo nell’attivarsi.
La prima sentenza (Cass. Pen. 21631/2017) ha condannato il medico di guardia, in servizio presso una Casa di Cura il quale, nonostante il personale infermieristico gli avesse richiesto di recarsi a visitare un paziente ricoverato con febbre e disidratazione ed affetto da varie patologie tra le quali cardiopatia ipertensiva, diabete, sindrome ansioso-depressiva, decadimento cognitivo, ometteva di intervenire, fino al verificarsi del decesso.
La sussistenza della responsabilità penale dell’imputato è emersa sulla scorta delle convergenti dichiarazioni rese dal figlio del paziente, dall’infermiera e del contenuto della documentazione, dalla quale emergeva che il paziente era passato, nell’orario in cui l’imputato era in servizio e presente in Clinica in una stanza adiacente a quella di degenza, da uno stato di agitazione, ad uno stato di letargia (episodio ritenuto attendibile sulla base delle dichiarazioni testimoniali, per quanto non annotato in cartella) e, infine, alla morte e ciò nonostante il medico non si era mai recato a visitare il paziente al quale si era limitato a prescrivere, con direttive impartite all’infermiera, prima il Talofen (somministrazione poi inconsuetamente revocata per l’opposizione del figlio del paziente) e, poi, dell’ossigeno, per la riscontrata crisi respiratoria.
La Cassazione ha ritenuto che i giudici d’appello hanno correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali, ed avendo escluso che altri impegni contestuali avessero impedito al medico di aderire alla richiesta di intervento, perveniva alla conferma del giudizio di colpevolezza, ritenendo anzitutto estranea al giudizio sulla condotta dell’imputato la circostanza che il paziente fosse poi deceduto e valorizzando le condizioni di urgenza ed indifferibilità dell’atto sanitario richiesto dal personale infermieristico, in una situazione di oggettivo rischio per il paziente, ormai in stato di letargia: in questi casi il medico ha comunque l’obbligo di recarsi immediatamente a visitare il paziente al fine di valutare direttamente la situazione, soprattutto se a richiedere il suo intervento sono soggetti qualificati, in grado cioè di valutare la effettiva necessità della presenza del medico, come è accaduto nel caso di specie. I Giudici hanno inoltre ritenuto che il giudice di merito ben può controllare l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte del sanitario e concludere che esso trasmoda in arbitrio, se tale esercizio non risulta sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli medici per esso richiamabili, come nel caso di specie in cui le condizioni di salute del paziente, già gravemente compromesse sin dal ricovero, imponevano al medico una visita diretta dopo che il personale infermieristico aveva segnalato la progressiva ingravescenza, fino alla letargia, del ricoverato.
L’altra, recentissima pronuncia (Cass. Pen. 12806/2021) riguarda il caso di paziente 87enne con sindrome respiratoria acuta in atto e con un quadro clinico generale fortemente compromesso per concomitante severa patologia cardio-vascolare, perciò, ad elevato rischio di decesso, peraltro in brevissimo tempo concretizzatosi. Tali aspetti, sottolinea la Corte, erano tutti ben noti al ricorrente, medico responsabile del reparto in quel frangente, il quale, benché ripetutamente sollecitato da più di un infermiere in servizio, ha deliberatamente ritenuto di non recarsi a visitarlo, proferendo anche parole gravemente offensive verso gli infermieri che ne avevano sollecitato l’intervento. Sussisteva, quindi, un’oggettiva condizione di urgenza e l’atto d’ufficio richiesto all’imputato era da lui dovuto, in presenza di una richiesta rivoltagli ripetutamente e da personale provvisto di specifiche cognizioni tecniche.
È proprio il riconoscimento della specifica competenza tecnica del personale infermieristico, idonea a discriminare le situazioni in cui si renda effettivamente necessario l’intervento del medico, che vanifica, secondo il pensiero dei Supremi Giudici, il ricorso alla giustificazione della discrezionalità dell’imputato in merito alla decisione di aderire o meno alle richieste, come prospettato dalla difesa. Questa la chiara argomentazione presente in sentenza: «In linea generale, non vi può esser dubbio sul fatto che il sanitario, a fronte di una richiesta in tal senso, conservi un margine di discrezionalità nell’apprezzamento dell’indifferibile necessità del suo intervento: si tratta di una discrezionalità di tipo tecnico, delimitata dalle regole della scienza medica e dall’eventuale presenza di discipline specifiche, anche di rango secondario (protocolli operativi, ma anche altre disposizioni di natura amministrativa), nonché consentita nei limiti della ragionevolezza. Si tratta, tuttavia, al di là delle enunciazioni di principio, di segnare con maggiore precisione i confini di tale ambito discrezionale. Nel caso specifico, l’elemento peculiare, ai fini di una siffatta indagine, è rappresentato dalla sollecitazione formulata al sanitario dal personale ausiliario infermieristico. In tale situazione, ovvero allorquando a richiedere l’intervento del medico siano figure professionali tecnicamente qualificate, quali sono gli infermieri, la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere, senza mezzi termini, che sul sanitario gravi un preciso obbligo di procedere immediatamente a visitare il paziente, con conseguente sussistenza del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, qualora questo non accada».
Conclusivamente, dunque, le sentenze sopra sinteticamente richiamate da un lato sono legate da un medesimo filo conduttore, rappresentato dalla definitiva attribuzione alla figura dell’infermiere, allo stesso livello del medico, del ruolo di garante della salute del malato, tanto da dover ritenere sempre meritevole di attenzione ogni richiesta di intervento in quanto proveniente da personale qualificato, mentre dall’altro contengono un severo monito per i medici che ancora considerino, anacronisticamente, il personale infermieristico, quale mero esecutore di atti disposti dal medico e svolti sotto il suo controllo.

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