La saggezza in questo tempo…


Il vocabolario Treccani definisce così la saggezza: “Capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizi, moderazione nei desideri, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire, come dote che deriva dall’esperienza, dalla meditazione sulle cose, e che riguarda soprattutto il comportamento morale e in genere l’attività pratica”.
Una capacità, dunque, da cui non si può prescindere mai, oggi in particolare modo perché le sfide della società contemporanea pongono la persona di fronte ad una molteplicità di interrogativi e possibilità. Coltivare capacità di discernimento per orientare atteggiamenti e disposizioni volti al bene del soggetto e della comunità diventa quindi fondamentale.
Ma come si acquisisce, si sviluppa la saggezza e come si fa “manutenzione” della stessa? Per parlarne abbiamo incontrato Giuliana Masera, una collega, filosofa perfezionata in bioetica.
Giuliana, è passato un po’ di tempo dall’ultimo incontro in cui abbiamo parlato di speranza, speranza nella cura. Oggi, un tempo per certi versi “sospeso” parliamo di saggezza.

In quale ambito del quotidiano si colloca la saggezza?
Le innovazioni in ambito scientifico e tecnologico vanno spesso ad alimentare le potenzialità di un sistema economico nel quale il cittadino spesso riveste un ruolo di semplice fruitore e consumatore passivo. Consumo dunque sono, costituisce per Zygmunt Bauman la parafrasi del cogito cartesiano penso quindi sono.
Anche la dimensione relazionale si concentra soprattutto sull’utilità e sulla gratificazione immediata, esattamente l’opposto dell’amicizia, della devozione, della solidarietà dell’amore, tutte quelle relazioni Io-tu che si ritiene svolgano un ruolo di collante nell’edificio della comunanza umana. Il sapere scientifico non garantisce da solo la piena dignità della persona perché non tiene conto della dimensione più propria del suo agire, cioè di quella morale, che implica la capacità di deliberare bene, responsabilmente. Questo ambito particolare potrebbe essere definito quello della saggezza.

Si può parlare di saggezza pratica?
Phrónesis in lingua greca indica un particolare esercizio della mente, la cui necessità nasce dal fatto che la realtà non è sempre immediatamente decifrabile; anzi spesso presenta molteplici sfumature, talora ingannevoli, che fanno dubitare di quale sia, e se vi sia, la verità e di conseguenza come si debba agire. Glielo devo dire o è meglio di no? Devo rimanere o andare via? Lui/lei cosa desidera veramente? La realtà spesso non è come appare, soprattutto quando si tratta della realtà umana e per questo occorre una specifica disposizione della mente che i nostri antichi padri greci chiamavano phrónesis e i nostri antichi padri latini prudentia. Il concetto di saggezza pratica è collegato a quello aristotelico di phrónesis e si identifica per Aristotele con il ragionare pratico finalizzato a un corso d’azione che conduca a qualcosa di moralmente buono, in una determinata situazione, ovvero un ragionamento grazie al quale possiamo agire per il bene degli esseri umani.
La saggezza consiste nel saper deliberare su ciò che è buono e utile per giungere alla felicità. Saggezza è una disposizione vera, ragionata, disposizione all’azione avente per oggetto ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo.”
E ancora Aristotele definisce la funzione del saggio, ovvero di colui che sa scegliere bene, non tanto teoricamente, ma nella realtà concreta della vita:
La funzione del saggio è quella di deliberare bene, ma non in astratto bensì nella situazione concreta. L’uomo che sa deliberare bene in senso assoluto è quello che, seguendo il ragionamento, sa indirizzarsi a quello dei bene realizzabili nell’azione che è il migliore per l’uomo. La saggezza non ha come oggetto solo gli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari, giacché essa concerne l’azione e l’azione riguarda le situazioni particolari. E’ per questa ragione che alcuni uomini, pur non conoscendo gli universali, sono, nell’azione più abili di altri che li conoscono, sono coloro che hanno esperienza.”

Come si declina la saggezza nelle professioni di cura?
I professionisti della cura si trovano oggi a sperimentare nei diversi ambiti di servizio, condizioni di incertezza, flessibilità e necessità di ridefinire continuamente quanto agito sino a quel momento. Si pensi per esempio come, in questa fase storica, la pandemia abbia richiesto al sistema salute di rimodularsi continuamente rispetto gli spazi, i luoghi, le abitudini, le relazioni.
Vivere nella complessità pone in gioco la capacità di esercizio di quel ragionamento pratico che rende il professionista in grado di decidere nel miglior interesse e bene possibile della persona in quel particolare momento della sua storia di vita.
Un ragionamento pratico è sempre correlato con l’orizzonte valoriale ed etico del professionista stesso. Donald F. Krill, psicoterapeuta statunitense, sostiene che, nel lavoro di cura, conoscenze e abilità tecniche non costituiscono gli unici elementi per una pratica professionale efficace: è invece determinante il modo in cui il professionista integra la conoscenza di sé, della persona assistita e di ciò che sta accadendo nella relazione in quel particolare momento di incontro professionale. Questo è ciò che l’autore definisce saggezza pratica.

Teoricamente come si sviluppa la saggezza?
Questa abilità si sviluppa nel tempo attraverso l’acquisizione dell’esperienza e delle capacità del professionista di integrare le conoscenze acquisite e sperimentate nei diversi ambiti attraverso l’utilizzo della capacità riflessiva.
Donald Schön, filosofo e studioso nell’ambito dell’apprendimento nei processi sociali, sostiene che nella crisi delle professioni di cura, la competenza tecnico-scientifica non è più sufficiente a governare la complessità, occorre recuperare la dimensione della riflessività. La complessità ci mette a contatto con le incertezze, con il dubbio, con il rischio, con i conflitti di valore che possono essere affrontati soltanto se dilemmi, conseguenti a questa complessificazione, vengono lasciati emergere per farne oggetto appunto di riflessione.
La riflessione attivata durante l’azione consente di accogliere e portare alla luce dubbi e problemi, che altrimenti resterebbero celati.
Aristotele in Etica nicomachea evidenzia il tema della riflessività consapevole quale strumento che ci eleva a virtù: “Si diventa buoni in senso proprio quando sulla base di una disposizione o virtù naturale si innesta la riflessione consapevole.”
I professionisti della cura hanno un bagaglio di conoscenze fondato su teorie e principi generali che possono costituire un riferimento per la comprensione, ma sono troppo generali per bastare, da soli, a valutare nel merito una situazione specifica. Ogni scenario di cura è differente da tutti gli altri sperimentati, la situazione reale è spesso ambigua e confusa e quindi non ci si può limitare semplicemente ad applicare regole o principi.
Patricia Benner, infermiera statunitense, approfondendo il tema del linguaggio utilizzato nell’Infermieristica, afferma la necessità di arricchirlo mediante una nuova immersione nella pratica reale della professione: l’ideale lineare secondo il quale prima deve nascere la teoria, da applicare poi nella pratica, ha fornito secondo l’autrice, una visione parziale dell’assistenza infermieristica. Non possiamo permetterci, per Benner, di legittimare e di attenerci soltanto a quello che impariamo dai costrutti scientifici. L’entità e la complessità della pratica infermieristica sono troppo ampie.
Dobbiamo scegliere i nostri esperimenti con saggezza, in modo che ci aiutino a chiarire le controversie e le domande che prendono origine dalla nostra esperienza. Come antidoto ad una visione puramente tecnica della salute, dobbiamo comprendere e far valere il potere del prendersi cura, il potere dell’eccellenza.”
La saggezza costituisce anche in questo caso la chiave di volta per orientarci nelle scelte legate alla pratica clinica al fine di fornire un’assistenza appropriata a quella determinata persona in quel contesto e in quella particolare situazione.

E pragmaticamente come?
L’ambito dell’esperienza clinica costituisce il vero terreno su cui allenarsi al mantenimento e alla crescita della virtù della saggezza.
Un professionista della cura sviluppa questa capacità partendo con il riconoscere come nel suo esercizio professionale, si trova, ogni giorno coinvolto in scelte, che riguardano l’altro/a. Le azioni intraprese individualmente o nel gruppo di lavoro orientate al raggiungimento del bene per la persona assistita, vanno costantemente monitorate per verificare se stanno conducendo verso il fine desiderato.
Dall’intreccio che si stabilisce fra esperienza e riflessione, l’esperienza pratica può generare phrónesis, e viene gradualmente acquisita dal professionista come virtù morale e intellettuale, radicata in una capacità naturale dell’essere umano.
L’immersione nella specificità della situazione, ogni volta diversa, può consentire di generare creatività e personalizzazione nella relazione di cura e la consapevolezza che qualunque situazione assistenziale rappresenta una “situazione antropologica” cioè qualcosa che riguarda l’uomo inserito nel proprio ambiente , intessuto di tutti i tipi di legami simbolici, costituisce il prerequisito da coltivare.
Il processo assistenziale, ricordando le parole di Marie Francoise Collière, ha inizio da un incontro tra due o più persone delle quali ognuna ha in mano degli elementi del processo ed è una costruzione propria a ciascuna situazione, si elabora tra assistente ed assistito, a partire dagli elementi caratteristici della situazione stessa.
Un approccio impegnativo e coraggioso certamente, ma forse necessario per recuperare le radici della cura e far germogliare gesti intessuti di umana saggezza.

Marina Vanzetta
13 aprile 2021

STAMPA L'ARTICOLO